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Nazista centenario indagato, nel suo lager anche 15 mila italiani: duecento non fecero mai ritorno

Il reato di omicidio, in Germania, non è soggetto a prescrizione. Per questo Procura di Dortmund indaga su una guardia nazista centenaria dello Stalag VI A di Hemer, nel Nordreno-Vestfalia, dove morirono circa 200 italiani durante la Seconda Guerra Mondiale.
A cura di Biagio Chiariello
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Il lager Stalag VI A, ad Hemer
Il lager Stalag VI A, ad Hemer

Per decenni lo Stalag VI A di Hemer è rimasto una delle ombre più cupe della storia tedesca. Un luogo in cui oltre duecentomila prigionieri di guerra — britannici, francesi, belgi, polacchi, sovietici e circa quindicimila italiani — vissero tra fame, violenze e lavori forzati. Oggi, a ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, quel lager nazista torna al centro dell’attenzione per un’indagine della Procura di Dortmund che coinvolge un ex membro delle guardie, ormai centenario.

La notizia, rilanciata dai media tedeschi, è stata resa nota per prima dalla Bild. L’uomo, di cui non sono state divulgate le generalità, è sospettato di aver partecipato alla morte di numerosi prigionieri tra il dicembre 1943 e il settembre 1944. Secondo quanto riferito dal procuratore Andreas Brendel, l’inchiesta è ancora in corso e al momento non vengono forniti ulteriori dettagli. Le prime verifiche sono state avviate dall’Ufficio centrale di Ludwigsburg, che da anni coordina le indagini sui crimini nazisti ancora perseguibili.

Lo Stalag VI A, situato nel Nordreno-Vestfalia, era considerato uno dei campi più duri del Reich. Tra il 1939 e il 1945 vi transitarono centinaia di migliaia di soldati, sottoposti a condizioni disumane: baracche sovraffollate, scarsa igiene, malattie dilaganti come dissenteria e tubercolosi, razioni di pane ridotte a 250 grammi al giorno e turni di lavoro estenuanti, spesso nelle miniere della Ruhr. Le vittime accertate tra i prigionieri furono almeno 24.000, ma le stime sono probabilmente al ribasso.

Particolarmente duro fu il destino degli italiani, internati dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e classificati come “IMI”, internati militari italiani, una categoria creata dal regime nazista per sottrarli alle tutele della Convenzione di Ginevra. Invece di essere considerati prigionieri di guerra, furono trattati come manodopera coatta. “Era una forma di punizione verso quelli che i tedeschi consideravano traditori”, ha spiegato in più occasioni lo storico Mario Avagliano, autore di uno dei principali studi sulla deportazione dei militari italiani.

A Hemer furono rinchiusi fino a quattordicimila italiani, e almeno duecento morirono a causa di violenze, stenti o malattie. Le testimonianze dei sopravvissuti parlano di un campo dominato dalla fame e dalla brutalità delle guardie. Tommaso Pizzuti, uno degli ultimi ex internati ancora in vita fino a poco tempo fa, ricordava di essersi nutrito perfino della carcassa di un gatto pur di sopravvivere. È morto pochi mesi fa, il 25 aprile, a quasi 107 anni.

L’indagine sulla guardia centenaria apre ora una nuova pagina giudiziaria. L’età avanzata dell’indagato non interrompe infatti il procedimento: il reato di omicidio, in Germania, non è soggetto a prescrizione. Per questo la Procura di Dortmund sta valutando ogni elemento utile a ricostruire il ruolo dell’uomo nel sistema di violenza e sfruttamento che caratterizzò lo Stalag VI A.

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