Mentre tiene banco la presunta adesione “spontanea” e tendenzialmente a macchia di leopardo di esponenti della polizia alla protesta dei “forconi”, ancora si capisce poco di quali siano nel concreto le richieste al di là del refrain di temi parecchio abusati come la riduzione delle tasse, minore burocrazia, lotta agli sprechi e una non meglio precisata tutela dei prodotti tipici italiani. Il sospetto è che si tratti dell’ennesimo movimento che dà sfogo a un malessere diffuso senza proporre soluzioni, anche perché nel caso del settore alimentare dovrebbe essere noto anche alle mosche sulla carta moschicida che in Italia la produzione agroalimentare è ampiamente insufficiente anche solo a soddisfare la domanda interna, per non parlare di quella internazionale. Fare ricorso a carni, derrate agricole e granaglie provenienti da altri paesi non è dunque un male ma una necessità, mentre molto più sensato sarebbe chiedere controlli rigorosi della tracciabilità dei prodotti per prevenire frodi ai danni dei nostri migliori produttori/trasformatori.
L’alimentare tipico italiano è del resto un fiore all’occhiello della nostra economia assieme alla moda/lusso, settore quest’ultimo che secondo Pambianco potrebbe accrescere la capitalizzazione di Piazza Affari di 26 miliardi di euro se le circa 65 società del settore che hanno i requisiti tecnici e oggettivi per essere quotate sbarcheranno in borsa nell’arco dei prossimi 3-5 anni. Per inciso gli investitori più intelligenti lo hanno capito da tempo, se è vero che hanno già cambiato proprietà in questi ultimi anni (finendo quasi sempre in mani straniere) marchi come Orzo Bimbo, Gancia, Casa Nova (storico produttore del Chianti Gallo Nero Docg), Salumi Fiorucci, Riso Scotti, Pernigotti, oltre naturalmente a Parmalat e Star, proprio come sono passati di mano marchi importanti nella moda come Valentino Fashion Group, Mcs, Loro Piana, piuttosto che Bottega Veneta, Brioni, Bulgari, Pomellato, Gucci, gli yacht del gruppo Ferretti (e con loro i motoscafi Riva, dal 2000 controllati dal gruppo emiliano) o la catena di gioiellerie Stroili Oro.
Oltre alla confusione che regna sovrana a livello politico e di politica economica, troppe volte le eccellenze italiane continuano a soffrire, nel confronto con i concorrenti esteri, di una carenza di capitali. La cosa non stupisce visto che come detto più volte le banche italiane, in apparenza solide, nascondono situazioni di grave debolezza e sono sotto pressione da tempo per cercare di riequilibrare un rapporto prestiti/depositi tuttora squilibrato. Per rimediare ai troppi errori di un passato ancora recente fortemente inquinato dalla politica, le banche italiane da tempo prestano sempre meno a imprese e famiglie come anche le ultime statistiche di Banca d’Italia hanno confermato. Un “credit crunch” che non sta riuscendo in alcun modo a ridurre le sofferenze, che anzi continuano a salire (anche perché l’Italia ha una delle legislazioni più rigorose al riguardo e questo è un bene, a patto che in tutta Europa si adotti il nostro criterio contabile e non si consentano situazioni opache a esclusivo vantaggio degli istituti spagnoli, francesi o tedeschi), e che viene attuato senza particolare distinzione di meriti attraverso una progressiva riduzione degli attivi di bilancio e lo scorporo di attività giudicate non più “strategiche” perché troppo rischiose o poco remunerative.
Nonostante tutto il mondo politico non sembra voler farsi da parte, come i casi clamorosi di Mps (dove la Fondazione Montepaschi, vicina alla sinistra, chiede di spostare di almeno tre mesi l’aumento di capitale da 3 miliardi di euro necessari a garantire un futuro alla banca senese perché vuole piazzare i propri titoli prima dell’operazione per cercare di massimizzare l’incasso e al tempo stesso non cedere completamente la sua presa sull’istituto), Banca Carige (da alcuni commentatori considerata una sorta di “Mps di destra” ed ugualmente in cerca di un difficile equilibrio tra esigenze di ricapitalizzazione e tentativo di preservare gli attuali equilibri di potere all’interno dell’istituto), piuttosto che di Popolare di Spoleto (per la quale, come segnalato dai Commissari Straordinari, sono state avanzate due offerte relative “sia alla ricapitalizzazione della banca, sia al sostegno finanziario alla capogruppo Scs necessario per far fronte all'esposizione nei confronti di Mps”, socia al 25,93% dell’istituto, quota che Scs si è impegnata a ricollocare o riacquistare per 70 milioni di euro) e di Banca Marche (commissariata dal Tesoro dopo perdite vicine agli 800 milioni di euro e rettifiche su crediti per oltre 450 milioni e che in questi giorni ha visto uno degli azionisti, Fondazione CariMacerata, andare all’assalto di PriceWaterhouseCooper rea di aver certificato gli ultimi bilanci dell’istituto senza aver mai segnalato anomalie, bilanci peraltro approvati come l’aumento del 2012 dalla stessa Fondazione CariMacerata senza particolari obiezioni).
Tuttavia, nonostante la riluttanza degli interessati, sarà impossibile non procedere ad una più netta separazione del settore creditizio da quello politico per evitare il ripetersi di ingerenze a vantaggio di alcuni singoli soci o categorie di soci ed ai danni di tutti gli altri stakeholder. Sempre che si voglia, beninteso, che le banche tornino a offrire un sostegno alla ripresa, quanto meno alle imprese migliori e più meritevoli dei pochi settori su cui legittimamente l’economia italiana può ancora sperare di puntare per far ripartire la crescita e in questo modo favorire anche il varo di quelle riforme di sistema che, come spiegato ieri, restano quanto mai necessarie a patto che siano fatte nel modo e nella sequenza giusta, per evitare ulteriori disastri colposi.