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Opinioni

La Bce acquista bond a piene mani: le borse volano ma la ripresa resta lontana

La Bce non si fa pregare a nei primi due giorni del “quantitative easing” acquista 9,75 miliardi di euro di bond. Ma perchè Draghi riesca a far ripartire l’economia italiana saranno necessarie una serie di condizioni ancora difficili da realizzarsi…
A cura di Luca Spoldi
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Ancora una giornata all’insegna del rialzo per i listini azionari europei, nonostante non manchino motivi d’incertezza, dalla Grecia, che un giorno sì e uno no sembra sul punto di rompere con la Germania e che dunque rischia sempre di uscire dall’euro, alla Russia, dove Vladimir Putin è ricomparso dopo 11 giorni di assenza che avevano alimentato voci di un possibile “golpe” che avrebbe reso se possibile ancora più delicata, per non dire pericolosa, la situazione nell’area dell’ex Unione Sovietica, a partire dal conflitto ucraino. Il merito della giornata positiva, in assenza di nuovi dati macro, viene attribuito dai trader ai primi dati relativi al quantitative easing della Bce, che tra lunedì 9 e mercoledì 11 ha acquistato i primi 9,75 miliardi di euro di titoli ad un ritmo persino superiore alle attese (anche se con aprile il ritmo degli acquisti giornalieri dovrebbe stabilizzarsi così da consentire di centrare l’obiettivo di 60 miliardi di euro di controvalore ogni mese).

Il quantitative easing, come noto, è l’ultima carta a disposizione di Mario Draghi per cercare di rianimare una ripresa che resta asfittica e non solo non crea lavoro (quanto meno nel Sud Europa), ma non riesce neppure a stabilizzare le attese di inflazione, mantenendole ben distanti da quel 2% annuo che è al tempo stesso il limite massimo che la Bce ha deciso, da anni, di tollerare e l’obiettivo vicino al quale Draghi intende riportare la crescita dei prezzi, anche per aiutare paesi come l’Italia a “riaggiustare” il rapporto debito/Pil ormai oltre il 132% e che in presenza di un Pil nominale costantemente inferiore al costo del debito, per quanto in calo (ma come ho già spiegato occorreranno ancora diversi anni prima che il costo medio del debito sia prossimo al costo marginale, attualmente sui minimi storici).

Il problema intrinseco di questo strumento è che se è relativamente “facile inondare il mercato di liquidità, una volta rassicurata la Germania e gli investitori di tutto il mondo che si riuscirà a tenere l’inflazione sotto controllo, non è detto che le banche riescano a trasmettere l’impulso monetario all’economia reale, ossia che le aziende riescano ad avere accesso a tale liquidità e l’utilizzino per nuovi investimenti e assunzioni. Questo rischio appare ben visibile in giornate come oggi in cui senza alcun motivo specifico gli indici dei principali listini azionari salgono di circa un punto percentuale (un rialzo che può sembrare modesto, ma che se venisse mantenuto costantemente porterebbe a più che triplicare le quotazioni in un anno).

Se gli le banche, da cui la Bce sta acquistando i titoli che le servono, non si fidano (o non hanno richieste) al punto da aumentare gli impieghi, l’unica cosa che possono fare è comprare altri titoli una volta venduti i bond alla Bce medesima. Titoli che dovranno essere ovviamente di rischio più elevato, perché nel frattempo i titoli dei titoli di stato di nuova emissione vengono mantenuti a livelli minimi (anzi tendono a calare ulteriormente nel caso dei titoli italiani, spagnoli e francesi) dalla stessa azione delle banche centrali. A un certo punto il circolo, finora “vizioso”, dovrebbe farsi “virtuoso” e tornare a iniettare liquidità nell’economia reale, ma quando questo possa avvenire nessuno sa dirlo con certezza ed anzi più passa il temo più i dubbi aumentano.

Prima di quel momento, di certo, le banche utilizzeranno i cospicui utili che realizzeranno cedendo i propri titoli alla Bce per riassorbire le perdite su credito che continuano a minare i loro bilanci. Per accelerare il processo alcuni istituti (da Unicredit a Intesa Sanpaolo, sino al Creval che giusto oggi ha annunciato un’intesa col gruppo Yard Credit & Asset Management per la gestione di un portafoglio di 500 milioni di crediti immobiliari “distressed”, al momento classificati tra gli “incagli”) stanno provando a cedere parte dei crediti “problematici” a operatori specializzati, o a isolarli in “bad bank” interne. In parallelo prosegue il lavoro preparatorio per cercare di definire come potrà nascere (quali garanzie saranno necessarie, quale dimensione potrà avere, chi dovrà certificare la validità delle valutazioni sulle possibilità di recupero dei crediti ceduti dalle banche private) una “bad bank” sistemica, sull’esempio di quanto fatto già nel novembre del 2012 dalla Spagna (che però assoggettandosi alle richieste delle Ue ha ottenuto da questa i fondi necessari, 47 miliardi di euro) o prima ancora dall’Irlanda (nel 2009, per gestire 16 miliardi di crediti immobiliari, al prezzo “stracciato” di 8,5 miliardi).

Tutto estremamente interessante e positivo, ma non è detto basti, anzi. Il discrimine resta infatti la domanda interna: l’economia italiana è sicuramente votata all’export ma come ricorda il Rapporto Export 2014-2017 elaborato dalla Sace anche se l’export italiano di beni e servizi “sarà trainato dalla maggiore domanda mondiale e aumenterà in valore del 6,9% l’anno, in media, tra il 2014 e il 2017” (gli scongiuri sono d’obbligo), questa dinamica “consentirà di ridurre il divario con la crescita tendenziale, ma alla fine del periodo di previsione, le nostre esportazioni di beni e servizi rimarranno del 30% circa inferiori al livello che avrebbero raggiunto crescendo ai ritmi registrati prima della crisi”. Insomma, se non riparte il mercato interno da solo l’export non basterà a farci ritornare a livelli pre-2008, che per inciso sono già stati superati dalla Germania (oltre che dagli Stati Uniti e naturalmente da paesi emergenti come la Cina).

Per far ripartire la domanda interna cosa servirebbe? Oltre a minori tasse sui redditi, visto che, come certificato dall’Ocse, dal 2003 al 2013 il reddito medio di un lavoratore italiano è passato da 23.113 euro a 29.704 euro lordi, ma di questi 6.590 euro in più ben 3.869 euro se ne sono andati in aumenti d’imposta (tanto che il reddito netto che nel 2003 era di 16.618 euro l’anno 10 anni dopo si era trasformato in 20.487 euro, mentre il peso delle imposte sul reddito era salito dal 28% al 31%), servirebbe una capacità di fare sistema che in Italia ancora si stenta a vedere, nonostante la tenuta dei distretti. Servirebbe dare ai giovani (e meno giovani) la possibilità di provarci, che resta modesta nonostante l’enfasi con cui da oltre un anno si parla di “start up” ad ogni più sospinto.

Sarebbe necessario superare definitivamente ogni dualismo Nord-Sud, che indebolisce il sistema-paese ma alimenta ancora molte clientele politiche. Sarebbe indispensabile un maggiore e più qualificato accesso al credito, che resta al momento una speranza più che una promessa. Sarà insomma una strada molto in salita, sempre che il paese sappia percorrerla, eppure la strada per la ripresa esiste: incrociamo le dita e nel frattempo proviamo ciascuno per quanto in suo potere a darci da fare per favorire la ripresa. Se non parte ora, con un petrolio ai minimi termini, tassi bassi e una Bce “benevola”, sarà difficile parte più avanti per “grazia ricevuta”.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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