Fine anno, tempo di buoni propositi: così non è inusuale che mentre i dati macro si vanno rarefacendo e sul mercato l’attenzione sia ormai a capire quando e come la Federal Reserve avvierà il processo di progressiva riduzione, fino ad azzeramento, degli incentivi rappresentati al momento da un programma di riacquisto di bond sul mercato da 85 miliardi di dollari al mese (mentre per qualcuno la Bce potrebbe raccoglierne la staffetta per cercare di stimolare una ripresa economica ancora molto zoppicante e diseguale tra Nord e Sud Europa), in molti studino le riforme varate da altri paesi per cercare se e come possano fare al caso dell’Italia. In particolare il rischio che sul mercato torni ad allargarsi lo spread tra rendimenti dei Btp e dei Bonos spagnoli (stante un lieve allargamento dello spread tra titoli italiani e tedeschi a fronte della prevista stabilità di quello tra titoli spagnoli e tedeschi), pur in presenza di rendimenti assoluti stabili o in lieve calo per entrambi i paesi, porta molti a ritenere che il modello da seguire possa essere Madrid.
Ma è bene fare attenzione: negli ultimi mesi anche la Spagna ha visto un sostanziale peggioramento del rapporto debito/Pil, che rappresenta da tempo il tallone d’Achille della politica economica italiana, dato per motivi più volte spiegati è difficile pensare che possa ridursi come richiesto dalla Ue (e sperato dai mercati) nei tempi stabiliti (ossia entro il 2020) in assenza di una robusta ripresa che al momento è là dal venire. Se stimolare la crescita è necessaria, come farlo attraverso riforme strutturali resta uno dei temi caldi a livello economico (ma purtroppo non pare ancora esserlo a livello politico). Non pensiate che non esistano ricette per uscire dal “cul de sac” in cui una tra le peggiori classi dirigenti di sempre, in campo politico e non solo, ha finito col mettere il “Bel Paese”. In realtà una ricetta alternativa alle “lacrime e sangue” della repressione fiscale tedesca esiste eccome, anche se la si sarebbe dovuta adottare per tempo un paio di decenni fa quando vi era ancora sufficiente crescita per minimizzarne i relativi costi.
Ma tant’è: visto che il Pil italiano non cresce in termini reali in misura apprezzabile da oltre 15 anni, prima o poi si dovrà comunque procedere, salvo rassegnarsi a veder comprato tutti i marchi e le aziende del “made in Italy” ancora in grado di avere prospettive sui mercati mondiali e ve ne sono, specie nel campo della moda, del lusso e dei prodotti tipici italiani e se ancora foste in dubbio vi invito a farvi una passeggiata per Via Condotti a Roma, o in Via Montenapoleone o Via della Spiga a Milano, o ancora nelle migliori vie del centro di Firenze, di Palermo, di Torino o di Venezia, e guardate a quanto sono posti in vendita abiti, gioielli e prodotti enogastronomici “tipici” italiani. Così la tentazione, che già qualche “volto nuovo” della politica come Matteo Renzi sembra avere, di dire “facciamo come Madrid” o come qualche altro paese europeo (ad esempio la Danimarca in campo pensionistico sembra avere un modello interessante e sostenibile) è forte. Ma gli analisti ed economisti più seri e con minori interessi “di bottega” attuali o futuri avvertono: più che la singola riforma per far ripartire l’Italia occorre seguire la giusta sequenza di riforme.
In particolare la riforma del mercato del lavoro spagnolo (ma in parte anche di quello italiano dopo la riforma Fornero) sta per ora rendendo più facile ridurre gli organici, ossia ridurre i costi, ma non riesce ancora a creare nuova occupazione, ovvero stimolare investimenti, anzi la Spagna col 26,7% di disoccupazione a fine ottobre era superata, in peggio, solo dalla Grecia. L’Italia da parte sua aveva a fine ottobre una disoccupazione pari al 12,5%, ancora relativamente contenuta (il dato medio di Eurolandia era pari al 12,1%) e rischia quindi un ulteriore peggioramento nel momento in cui ulteriori riforme del lavoro fossero varate. A sua volta l’aumento dei senza lavoro tende a tradursi in aumento dei sussidi di disoccupazione che, sommandosi al calo del gettito fiscale dovuto alla maggiore disoccupazione, tende ad allargare i buchi di bilancio più che a ridurli, col rischio di un avvitamento di “manovra” in “manovra” se non si trova il modo di invertire la rotta.
Per evitarlo si dovrebbe partire da una ristrutturazione del mercato dei prodotti aumentando in particolare la competizione in settori “a rete” come le telecomunicazioni, i trasporti e l’elettricità, così da rilanciare la partecipazione al mercato del lavoro. Peccato che queste riforme siano osteggiate dalle organizzazioni di categoria non meno che dalle aziende oligopoliste operanti nei diversi settori, per di più ad elevato tasso di “inquinamento politico” a livello locale (cosa che genera un elevato rischio di paralisi come il caso di Genova ha mostrato ancora di recente). Ammesso che simili scogli siano superati, fatte queste prime riforme occorrerebbe favorire il ritorno ad una “normale” attività del settore creditizio ponendo fine al “credit crunch”, così da incoraggiare le imprese a investire nei settori aperti alla concorrenza. In questo caso la principale resistenza da vincere resta la Germania, dato che da sola l’azione della Bce non basterà tanto più che le banche italiane sembrano maggiormente “a rischio” data l’elevata quantità di titoli di stato in portafoglio e l’incertezza circa la valutazione di questi asset nel corso dell’Asset quality review della Bce.
Non solo: la debolezza dell’economia italiana sta facendo lievitare ulteriormente il livello delle sofferenze bancarie, mentre ancora non siamo giunti (anche per le resistenze di paesi come la Germania) ad un’armonizzazione dei criteri di definizione dei “non performing loan” (appunto i crediti in sofferenza) a livello europeo, cosa che finisce col danneggiare particolarmente l’Italia, che è uno dei Paesi che adotta i criteri più rigorosi e dunque vede crescere più rapidamente tale voce nei bilanci dei propri istituti di credito che sono così percepiti come più “a rischio” di altri quando forse sarebbe giusto il contrario. Solo a questo punto, ma per arrivarci occorrerà fare importanti ma ancora da venire passi in avanti anche in tema di meccanismo di risoluzione delle banche e meccanismi di aiuto nel caso in cui una banca coinvolta negli stress test Bce non dovesse riuscire a ricapitalizzarsi sul mercato, avrà senso, ossia produrrà effetti percepibili, ridurre il peso fiscale sul lavoro e sui redditi d’impresa oltre che, ove possibile, sui consumi, per dare fiato alla crescita.