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Stabber: “Stiamo abituando gli ascoltatori a musica brutta, con Trueno cambio la rotta”

Stabber, aka Stefano Tartaglini, ha pubblicato lo scorso 14 marzo il suo primo producer album Trueno: all’interno 20 artisti, tra cui Angelina Mango, Annalisa e Noyz Narcos. Qui l’intervista al producer.
A cura di Vincenzo Nasto
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Stabber, foto di Bogdan Piakov
Stabber, foto di Bogdan Piakov

Stabber, nome d'arte di Stefano Tartaglini, ha pubblicato lo scorso 14 marzo il suo primo producer album, Trueno, anticipato 24 ore prima dalla titletrack in collaborazione con Salmo. All'interno del progetto 20 ospiti, da Danno e Dj Craim con cui fondò gli Artificial Kid nel 2009 alla vincitrice di Sanremo 2024 Angelina Mango, ma anche Annalisa, Gemitaz e Laila Al Habash. Un progetto suonato fino all'ultimo strumento e a cui il producer ha voluto dare un'impronta chiara: "Io ho sempre fatto la scelta di approcciare la roba in un'altra maniera, perché per me la musica è importante. Io sono fatto così, non riesco a dire chi se ne frega". Qui l'intervista a Stabber.

Quando e com'è nata l'idea del disco Trueno?

È nata molto prima che cominciassi a fare la musica del disco. Ho sempre avuto questa fissazione per le auto giapponesi, anche perché quando ero più giovane, erano incominciati a uscire mezzi pericolosissimi, tra cui questa vecchia Toyota Corolla: una delle due edizioni si chiamava Sprinter Trueno.

Com'era quest'auto?

Non era una macchina particolarmente bella, sembra fatta solo con le squadrette ma incarnava perfettamente l'estetica del periodo in cui è stata messa in vendita. È diventata, insomma, un'auto di riferimento per quello che poi è stato tutto il movimento del drifting, mi piaceva l'idea del drifting come concept del disco. Teoricamente non si dovrebbe incastrare nelle curve, ma c'è chi, in quell'aspetto, ha costruito una disciplina. Poi è arrivata l'estetica dei cerchioni nella tracklist.

Pensi ancora che questo disco non avresti dovuto farlo?

Assolutamente sì, tutt'ora penso che non avrei dovuto farlo (ride n.d.r).

Perché?

Non perché non mi sentissi all'altezza. Ho sempre fatto i dischi degli altri, alcuni addirittura seguendone la direzione artistica: album anche molto importanti. So come gestire un progetto complesso, soprattutto in studio, cerco di dare un rigore e un modus operandi: però la responsabilità del disco non è totalmente la tua. Tante scelte possono essere mediate con l'artista, però rimane solo la scelta di un'artista.

Invece?

Per fare un disco del genere, sapevo che avrei dovuto chiamare tanti artisti ed è molto impegnativo. Per esempio, tra i miei amici più cari c'è Night Skinny, a cui ho fatto il mix e il master di Mattoni: ho vissuto tutto lo struggle per finire il disco.

Non ti aspettavi tutta questa attesa?

Io ne ho messi 20 e sapevo cosa avrebbe significato gestire una mola di persone così. Poi, in verità, nel momento in cui arrivano in studio tutto diventa naturale, il problema è farceli arrivare. Io sono una persona estremamente educata di natura, non sono una persona petulante: non mando messaggi passivo-aggressivi. So che possiamo fare qualcosa adesso e aspettare un mese per chiuderla, non perché gli artisti non vogliano farlo, ma perché ognuno ha i propri progetti in ballo.

Quanto tempo serve per un progetto con 20 artisti come il tuo?

Se avessi avuto tutti disponibili, in un anno l'avrei chiuso, ma giustamente sapevo che si sarebbero dilatati i tempi. Nei primi due mesi sono riuscito a trovare il concept musicale del disco, ascoltando tutti i beat che avevo creato e poi condividendoli con gli artisti a cui avevo pensato.

A quel punto entra in campo l'artista.

Giustamente c'è chi inizialmente vuol fare una cosa e pochi mesi dopo si ritrae, contatti il manager di un altro e ti lascia aspettare due mesi per poi dirti che avrebbe voluto fare altro. Nel frattempo, tu sei lì in una situazione che avresti sperato fosse differente. Dopo aver fatto tutto questo, devi anche trovare una quadra tra artisti così diversi.

È stata la cosa più difficile?

Quella è stata una cosa meno faticosa. In definitiva, un disco non lo volevo fare perché sapevo che sarebbe stato estremamente impegnativo avere a che fare con tante persone. Poi ho fatto veramente tutto da solo, senza il supporto di persone che mi portavano gli artisti in studio. Volevo coinvolgere amici miei, non persone random.

Quanto tempo c'è voluto per Trueno?

Ci son voluti due anni alla fine: la prima volta che ho pensato che il disco si stesse formando è quando è arrivata la prima voce. È tutto iniziato dal ritornello di Salto nel buio con Coez e Annalisa, a cui avevo mandato la base. Silvano non mi aveva risposto, ma la mattina dopo, molto presto, mi dice che aveva scritto il ritornello e stava salendo a Milano. Due giorni dopo era in studio e inizialmente il ritornello era un altro: si è rimesso subito al lavoro e ha cacciato questa bomba atomica. Dopo tempo, perché avevamo anche altri progetti da chiudere, ha registrato la seconda strofa. Mentre Annalisa, che ha avuto un anno impegnativo, è stata più difficile da portare in studio. Ma alla fine ci siamo riusciti.

Come cambia il making of di un producer album registrato completamente nel tuo studio?

Nel mio lavoro, l'interazione che si crea con l'autore quando scrive il testo e le melodie è fondamentale. Gran parte dei pezzi del progetto sono stati scritti in studio con me: non cambia ciò che l'artista vuole esprimere, ma magari si sostituisce qualche parola con un'altra che suona meglio. Si scrive tutti insieme una canzone.

Anche la strofa di Danno è stata scritta in studio?

Lui no. Aveva fatto una strumentale mezza matta che è identica a quella sul disco, ma era una cosa molto rap. Con Simone (Danno) ci siamo detti che non facevamo qualcosa assieme da ormai 15 anni (insieme con Dj Craim hanno formato gli Artificial Kid) e mi serviva una di quelle strofe che mi strappano l'anima a brandelli. Mi metto sugli archi e su parti minimal super distorte e gliela mando. Quattro giorni dopo mi dice che è pronta e sale a Milano a registrare: ne è uscita fuori questa cosa incredibile, registrata una sola volta dall'inizio alla fine.

Qual è stata la prima reazione?

Ci siamo guardati tutti e 3 in faccia esterrefatti: è un pezzo incredibile. Sono contento che quella magia, dopo 15 anni, sia saltata ancora fuori: non è scontato. Ma anche alcuni artisti che sono venuti in studio sono rimasti allibiti.

Tipo?

Quando Salmo venne a registrare, lo sente e mi guarda e mi dice che il pezzo è bellissimo. Mentre scriveva il testo della sua canzone, si è fermato 2-3 volte e mi diceva: "Che pezzo ha fatto Danno".

Quanto sarebbe attuale un disco del genere come Numero 47 (primo album del gruppo Artificial Kid, ndr)?

Ha segnato la mia vita perché è uscito ad aprile 2009, in corrispondenza del terremoto dell'Aquila: io vengo da quel posto e puoi capire quanto abbia influito su di me. Per molte persone che erano lì, questo disco è diventata la colonna sonora di tutto ciò che stava accadendo, anche perché nei temi del progetto entravano anche questo tipo di riflessioni sugli eventi catastrofici. Riflettendo sull'attualità, abbiamo una guerra dietro casa tra l'Ucraina e la Russia e un conflitto in Palestina. Stanno facendo una macelleria a cielo aperto e quindi, in questi momenti, diventano attuali certe tematiche.

In un'intervista a Damir Ivic su Rolling Stone Italia hai detto che limare ogni singola canzone dell'album è costato lo stesso tempo con cui gli altri producono 5 album. Cosa significa dover curare un album e quale credi sia il problema nella discografia moderna?

Credo sia una questione industriale della musica, ma attenzione, sono anche uno di quelli che se serve sforna a martello: dopo tanti anni, c'è una modalità autopilota. Però mi son detto che se avessi dovuto fare un disco mio, mi sarei preso tutto il tempo necessario per curare anche il micro-dettaglio più piccolo. Una cosa che mi fa diventare matto è che dischi ultra pop, come Dawn FM di The Weekend, non si limita a fare un prodotto piatto, che comunque farebbe 20 milioni di streaming. C'è dentro un sacco di roba, inattacabile musicalmente da tutti i punti di vista. A volte mi chiedo perché non diventi questo lo standard.

E la risposta?

Credo per due motivi: uno perché è complicato e non tutti sono all'altezza di accollarsi una pratica del genere. La seconda è legata al tempo, perché ne richiederebbe troppo: invece oggi il sistema funziona in maniera frenetica. La gente deve sfornare pezzi in continuazione altrimenti si dimenticano di te e mi chiedo se a volte è perché la musica, mediamente, fa schifo. Magari a un prodotto fatto bene, che inizialmente non genera una quantità di numeri senza senso, la gente si affeziona e lo continua a sentire nel lungo termine, facendo anche più numeri di una cosa che sembra un'esplosione atomica all'inizio. Basta pensare a ciò che ha denunciato James Blake.

Cosa ne pensi della sua vicenda?

Non è l'ultimo arrivato, ha lavorato con Beyoncé, Travis Scott, ma su Instagram non ha milioni di follower, fa i suoi dischi che sono robe fighe e stilose e non gliene frega niente. Ci ha fatto ormai una battaglia contro le piattaforme, anche perché, mi dispiace dirlo, ma è un problema che prima o poi va affrontato. Non si guardagna una lira da quella roba, neanche se ti vanti di aver fatto 500 miliardi di streaming. Poco tempo fa, ho visto un'intervista di Snoop Doog premiato per esser stato tra i primi artisti ad avere un brano da un miliardo di stream su Spotify. Pensava di dover guadagnare poco meno di 3 milioni di dollari dal brano, ma dieci mesi dopo ha controllato e la canzone aveva generato 42mila dollari. Lo stesso introito nel caso in cui mettessi 1000 copie del mio disco a 42 euro.

Chi ne paga le conseguenza?

C'è una catena di montaggio in cui siamo incastrati, questa frenesia di fare prima i numeri a svantaggio della musica, che è brutta. Ma la cosa pericolosa è che abitua gli ascoltatori alla musica brutta, quindi poi quando fai sentire qualcosa di diverso, non riesci a capirla perché non sei educato, non sei formato. Adesso i produttori, rispetto a quelli della mia epoca, lo fanno perché si guadagnano un sacco di soldi.

E invece sulla scelta delle combinazioni dei feat, che ritroviamo molto spesso negli ultimi 4 anni?

Io ho sempre fatto la scelta di approcciare la roba in un'altra maniera, perché per me la musica è importante. Io sono fatto così, non riesco a dire "chi se ne frega!". Domani non faccio il pezzo ultra pop perché non ne sono capace, perché anche per quella roba lì devi essere uno con una certa attitudine per fare una cosa in un certo modo e io non ce l'ho per fare robe così.

Quali sono le chicche da producer in quest'album?

Nel pezzo con Salmo, ci sono molte citazioni. Non farò nomi, ma c'è l'arpeggio che parte immediatamente dopo il secondo ritornello che richiama l'arpeggio di un noto film cyberpunk degli anni '80. Volevo che fosse esplicito il fatto che io sto in fissa per quella roba lì. Poi ultimamente vedo che, quelli bravi, stanno cercando di recuperare le così più fighe da quel periodo, legate anche ad alcune colonne sonore di Carpenter o Moroder. Poi c'è un aneddoto molto bello.

Quale?

Nel pezzo con Danno, dopo la prima parte di archi, entra un Hammond (un organo) che era il mio modo di tributare il Wu-Tang Clan. Per me è ancora il gruppo più importante della storia, ho anche il loro logo tatuato sul polso. Era la scorsa estate e stavo lavorando su questo pezzo: avendo un cane, avevo lasciato la porta dello studio aperto con lui fuori. Mentre sono con la testa nel monitor a editare, entra Simone Bertolotti (producer anche di Sincero di Bugo e Morgan) e mi fa prendere un colpo, perché non l'avevo sentito. Era l'unico strumento dell'album che non avevo potuto suonare, perché non ce l'avevo e lui mi invita nel suo studio perché ne aveva uno del '58. Il tempo di microfonarlo e abbiamo tolto anche l'unico strumento non suonato in questo disco.

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