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Ramin Bahrami: «Tra camionisti e pianisti non c’è differenza»

Il pianista iraniano confessa il suo amore-odio per il pianoforte: troppo spesso veicolo di esibizionismo e raramente espressione di pensiero musicale.
A cura di Luca Iavarone
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Ramin Bahrami è uno di quei pianisti a cui non piace essere definiti "pianisti". Questo perché il suo approccio allo strumento è piuttosto quello di un direttore d'orchestra. E perciò, a quell'accezione che sa così frequentemente di vuoto e sterile funambolismo, preferisce quella più ampia e neutra di "musicista".

Come suonare Bach nel 2013? Bahrami non sembra avere dubbi: la sua chiave risiede in un'impostazione filologica in senso stretto, ma ciò non significa che le sue scelte non scaturiscano da uno sguardo musicale scientifico e informato. Per lui che di Bach ha fatto la sua vita, incidendo per la Decca-Universal le Variazioni Goldberg, le Partite, L'Arte della Fuga, le Suite Francesi, proporre brani al pianoforte del genio tedesco è tutt'altro che un sacrilegio. Certamente in questa scelta risuona l'eco della sua prima formazione gouldiana: «Il colpo di fulmine ci fu quando avevo cinque anni – ci racconta – e un'amica persiana, tornata appena da Parigi, mi portò un LP di Glenn Gould, di questo asceta della musica, di questo illusionista meraviglioso, questo maestro del tocco, questo genio assoluto, che suonava la sesta Partita di Bach. Io rimasi a tal punto colpito dall'inizio della Toccata che capii che quello era il mio mondo. Poi sono tornato a casa e ho fatto di tutto per trovare i testi che avevo ascoltato, provando umilmente a decifrarli.».

Glenn Gould
Glenn Gould

Ma non c'è solo Gould nel Bach di Bahrami. Nel suo tocco sono fortemente presenti anche le sue culture d'origine. Nato in una famiglia cosmopolita, il padre metà tedesco e metà persiano e la madre d'origini russo-turche ma nata a Teheran, ha respirato musica fin dalla prima infanzia. Il suo Bach, come ci dice lui stesso, è l'insieme delle sue storie personali, «sono la visione di un uomo occidentale, orientale, persiano, russo, turco, tedesco e come sentimento anche italiano.».

Ramin Bahrami scompone la musica di Bach e la ricompone in modi che risentono di un modello, Glenn Gould, senza veramente assomigliare al modello. Io gli ho insegnato a sopportare il morso, ma non l’ho domato; e spero che continui ad essere com’è.

Piero Rattalino

Piero Rattalino
Piero Rattalino

Un ruolo forte quello giocato dall'Italia nella sua formazione musicale. Quando il padre, Paviz, accusato di essere un oppositore del regime, fu incarcerato e poi ucciso, l'allora undicenne Ramin fu costretto ad emigrare in Europa. Grazie all'intervento dell'ambasciata italiana a Teheran ottenne una borsa di studio e approdò in Italia.

Io ho avuto la fortuna di studiare con il più grande didatta di pianoforte italiano, Piero Rattalino, al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, per più di sette anni. L'Italia mi ha dato questo grande dono di combinare la ragione con il cuore. La grandezza della musica di Bach è la capacità di coniugare il cuore italiano, la grande cantabilità, alla razionalità, all'ordine della musica tedesca. Perché la ragione senza sentimento è un calcolo algebrico, cuore senza sentimento è un urlo violento, nient'altro.

E questo prolifico incontro tra cuore e ragione porta Bahrami a intendere il pianoforte come un moderno tramite tra la musica del passato e la sensibilità del presente. Senza falsi pudori il musicista iraniano si scaglia contro la sterile filologia e soprattutto l'utilizzo del mezzo come fine, una prassi consolidata tra pianisti esibizionisti e funamboli, star delle sale da concerto e dei megastore, ma forse troppo poco avveduti sul merito dei capolavori che affrontano. «Tra i tennisti e i pianisti oppure tra i camionisti e i pianisti non c'è nessuna differenza. Io ho un amore-odio nei confronti del pianoforte perché purtroppo molto spesso questo strumento è semplicemente uno strumento di esibizionismo quando non c'è un percorso di studi e una verità di fondo umana.».

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Il nostro incontro con Bahrami al Festival di Ravello è stato anche l'occasione per cominciare, seppur in maniera veloce, un approfondimento sui capolavori immortali della musica classica. Il Maestro ci ha introdotto alle Variazioni Goldberg, suo cavallo di battaglia e brano fondamentale della letteratura musicale. Composte tra il 1741 e il 1745, le Goldberg sono state scritte da J.S. Bach per clavicembalo a due manuali. Il lavoro si apre con un'Aria, suonata per noi da Bahrami, che è il perno e il modello delle trenta variazioni che la succedono. Come ci illustra il Maestro, la tonalità d'impianto dell'opera è il Sol maggiore e tre soli brani se ne discostano. Nel corso della composizione si incontrano tre cicli di dieci stili differenti: la danza, il toccata ed il canone.

Nel concerto vero e proprio Bahrami ha scelto di suonare la versione integrale delle Goldberg, provvista di tutte le ripetizioni, per un totale di 80 minuti di musica. L'esecuzione è stata attenta e misurata, rigorosissima nella scelta dei tempi. Il Belvedere di Villa Rufolo ha fatto da suggestiva cornice alla musica di Bach, ma c'è da dire che, seppur nell'incanto del paesaggio, ha reso necessaria la microfonazione del pianoforte, non consentendo così quei momenti di autentica intimità che il capolavoro bachiano richiede e senz'altro merita.

Resta senz'altro l'invito di Bahrami, che non esitiamo a far nostro: «Battezzatevi con le Goldberg!».

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