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Perché Ultimo piace a così tante persone

Ultimo è il vero fenomeno pop di questi ultimi anni, e il motivo ha a che fare con il modo in cui scrive canzoni e racconta il mondo: ecco perché Ultimo piace a così tante persone.
A cura di Federico Pucci
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Ultimo in concerto a Milano – Sergione Infuso:Corbis via Getty Images
Ultimo in concerto a Milano – Sergione Infuso:Corbis via Getty Images

Quando, il 19 febbraio 2018, ho visto “il primo concerto di Ultimo” e ho avuto modo di scambiare qualche parola con lui nel backstage per conoscere questo astro nascente del pop, ero abbastanza certo che la sua strada l’avrebbe portato lontano. Ma avrei avuto bisogno della sfera di cristallo per prevedere che nel giro di sette anni e mezzo sarebbe passato da un club con 500 persone euforiche a vendere tutti i 250mila biglietti per la cosiddetta “Favola per sempre”, che il prossimo 4 luglio 2026 a Roma diventerà il concerto con più paganti della storia d’Italia, il secondo al mondo. Per capire come un under 30 di San Basilio sia passato dagli open mic di Spaghetti Unplugged a superare il Vasco Modena Park, non basta riassumere la sua storia, elencare i risultati commerciali dei suoi dischi, citare le sue vicende sanremesi, i successi e le polemiche, né basta mettere in fila tour precedenti e attuali. Bisogna provare a capire sul serio perché Ultimo piace a così tante persone, che dopo due estati consecutive di tour negli stadi sono di nuovo pronte a ritrovarsi in una grandissima adunata.

Poco più di un anno fa dedicai un articolo con lo stesso titolo a Taylor Swift, e come un anno fa voglio includere una simile premessa: il fatto che Ultimo possa eventualmente non piacere a te che leggi non implica che non debba piacere a centinaia di migliaia di altre persone, cioè non implica che il gusto di queste persone sia sbagliato. Del resto, un’egemonia commerciale è un concetto fragile: per ogni persona che ama Ultimo ce ne sono tre, quattro, dieci che ne fanno benissimo a meno. Fare critica è provare a mettersi nei panni dei fan, provare a capire cosa suscita un attaccamento, un’ossessione, una fede. Comprendersi, e comprendere anche l’eventuale antagonismo. Perché – vedremo – è anche intorno a questo che si scrive la storia di Ultimo.

La prevedibilità di Ultimo: forza, non difetto

Bisogna partire dall’inizio, e quindi c’è da ricordare che Ultimo ha studiato, e le sue canzoni hanno il potenziale di piacere perché sono efficienti. Prima studiando pianoforte al conservatorio Santa Cecilia di Roma, e quindi approfondendo composizione pop e canto in una serie di corsi di specializzazione, il Moriconi, non diversamente dallo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari con i suoi studi londinesi, fa parte di una generazione di musicisti che non si è costruito la professionalità solo con il mestiere, la gavetta e qualche nozione sporadica, ma con una formazione sistematica. Sono, in questo senso, gli esponenti più autentici di una generazione millennial troppo formata per ciò che il mondo sembra essere disposto a darle: sono tanti, tantissimi i giovani che ogni anno si diplomano e acquistano competenze nelle almeno 7mila scuole musicali italiane, ma solo pochi possono continuare a credere nelle proprie favole. Non è un caso che questo sia un messaggio cruciale nella poetica di Ultimo: il giovane musicista romano è un creativo che ce l’ha fatta, senza neppure doversi adeguare troppo alle dinamiche industriali contemporanee che vogliono gli artisti come influencer, come brand da spendere in alleanze chiamate featuring (Ultimo ne ha fatti, ma con parsimonia).

Così, mentre per la stragrande maggioranza delle persone le favole svaniscono al mattino, Ultimo ha messo in opera ciò che aveva imparato, componendo brani solidi e prevedibili dal punto di vista armonico. La prevedibilità, nel caso di Ultimo, non è un difetto: quando si prende in esame il suo successo non bisogna basarsi sulle solite regole delle hit che analizziamo, e tecnicamente non tutte le sue canzoni sono state straordinari successi commerciali in sé e per sé, specie se paragonate alle canzoni di altri artisti che macinano molti più streaming ma che faticherebbero a riempire un solo stadio, figuriamoci dieci Olimpici. Nei meccanismi di fedeltà che legano Ultimo ai suoi fan, quindi, l’elemento di novità è straordinariamente meno importante rispetto ai tratti di familiarità: le canzoni di Ultimo, insomma, funzionano perché suonano tutte come canzoni di Ultimo.

Più ballad che uptempo

Se all’inizio della sua carriera, sotto contratto con Honiro label, la musica del giovane romano prendeva molto della ritmica e delle scansioni liriche dall’hip-hop (si vedano il beat di Domenica o il flow del Ballo delle incertezze o Poesia senza veli), quest’influenza si è progressivamente diluita per lasciare spazio a una specializzazione nelle ballate, che ormai dominano il suo repertorio. Con un tempo che raramente supera gli 80 bpm Ultimo non è un artista di canzoni da danzare, se non dondolando placidi sugli ineluttabili 4/4 delle sue ballad: i tempi lenti favoriscono l’assorbimento dei suoi concetti, pronunciati sempre con grande convinzione e senza ammiccamenti e ambiguità – anche brani che potrebbero portarsi dietro un contesto più leggero e frivolo come Aperitivo grezzo nel giro di una strofa si rivelano come seriose considerazioni sulla propria missione di farcela con la musica (ci torniamo). L’ultimo album, Altrove, vira decisamente più verso il pop: dal doppio-tempo della title-track alla sincopata Amore di strada fino allo stomp di Lunedì, ma per definirlo un album “leggero” bisognerebbe cancellare tre quarti della tracklist. E, in fondo, questo tradirebbe l’immagine più riconoscibile dell’artista.

Ultimo non si prende alla leggera: e nemmeno la sua scrittura melodica lo fa. Mentre i colleghi scrivono canzoni infarcite di piccole trappoline per l’orecchio, Ultimo non straborda e concentra ogni brano su due, tre sequenze melodiche non troppo articolate: i fraseggi non schizzano via, sono quadrati, quasi sobri se si escludono le escursioni di volume nell’emissione vocale. Specie nelle strofe c’è l’intelligenza di insistere su una cadenza, cioè la sequenza di note che accompagna la chiusura di un giro di accordi, tornandovi regolarmente: le strofe di Ultimo, per questo, possono ricordare delle ninne nanne, notoriamente facili da mandare a memoria. Prendi Piccola stella, dove dopo una strofa cantilenata e un ritornello che dondola senza nessuna vetta, nella seconda strofa arriva una serie di due modulazioni che alzando la tonalità danno anche il permesso a Ultimo di alzare il volume della voce e arrivare al secondo ritornello nella modalità di canto che gli è più familiare: lo schiamazzo.

Chi alza la voce, chi mette da parte le sottigliezze, parte avvantaggiato, e non solo in Italia, notoriamente uno dei paesi al mondo dove si parla al volume più alto. Strillare paga, e Ultimo fa parte di quella categoria di musicisti che non usa mai un sottovoce in una canzone se non come punto di partenza per alzare il volume d’un tratto, con la velocità improvvisa di un colpo di clacson: fai caso, ad esempio, alle improvvise esplosioni della già citata Amore di strada, dove la strofa forse aspira a una sorta di contegno, ma contiene almeno uno strillo per battuta. È una soluzione facile, alzare la voce per attirare attenzione, ma a suo modo ha qualcosa di coraggioso e distintivo: se tutti gli artisti conoscono l’efficacia del contrasto piano/forte, in pochi al giorno d’oggi usano uno stile che in modo quasi costante si affida allo schiamazzo. Rispetto a chi attira l’attenzione con un hook, Ultimo si espone in prima persona, anche a costo di sembrare inattuale, forse un po’ troppo irruento, certamente uncool. L’eredità lontana del soul, uno dei generi che nelle prime interviste citava tra le sue influenze, si vede soprattutto in questo tratto molto mélo, quasi da urlatore di 60 anni fa. Fai caso, per esempio, a come Quando saremo vecchi inizia subito con una voce impostata per cacciare un urlo, dal primissimo secondo.

Perché le canzoni di Ultimo funzionano

Ultimo in concerto a Roma – Rocco Spaziani
Ultimo in concerto a Roma – Rocco Spaziani

Le canzoni di Ultimo funzionano perché non cercano di descrivere la fragilità e l’incertezza addentrandosi nei loro meandri, ma perché presentano una reazione a queste debolezze, il desiderio di solide convinzioni ("Abbraccio le mie certezze", Sogni appesi). Peculiare nella sua sintassi è l’uso delle avversative (ma, però, invece) che riempiono i testi di contraddizioni, spesso esornative e non esplorate. Come all’inizio di 22 settembre nella dicotomia tra "stringere" e "lasciare perdere": il dubbio non si pone proprio, e anche quando all’interlocutrice si propone "ti va se ti lasciamo che torna il desiderio", è chiaro che si tratta di un gioco per stuzzicarsi, che esiste una posizione giusta e una sbagliata, che – insomma – non c’è alcuna incertezza. Altrove, il conflitto è tutto interno, come in Quei due innamorati dove un turbamento provocato dalla visione di una foto viene subito smorzato: "Ma non ne faccio a te una colpa, sono io che ricerco la tua assenza".

La poetica di Ultimo, insomma, ha bisogno di conflitto: basta passare in rassegna il testo di una canzone cardine come Rondini al guinzaglio per trovare molte di queste avversative che riportano al punto di partenza, come le rotonde alla fine dei cul-de-sac. I testi di Ultimo funzionano per questo: presentano una realtà dove l’attrito è costante, in cui è facile rivedere le nostre quotidianità complicate, dove ogni cosa (il lavoro, la burocrazia, il clima, la politica) sembra lavorare contro di noi, erodendo le nostre sicurezze. Il bisogno di conflitto tra un bene (noi) e un male (gli altri) è tale che ogni metafora, anche non tradizionale o logica, può funzionare: vedi il “diamante tra le iene” di Racconterò di te, che giustappone due immagini che non dovrebbero stare tra loro (se non per chiudere la rima “insieme”). Non importa la precisione dell’immaginario, né la sua aderenza ai canoni poetico-letterari: basta che arrivi il conflitto.

In questo conflitto, Ultimo si schiera subito da una parte molto precisa, come il suo nome lascia intendere. Gli ultimi, gli incompresi, gli underdog sono i protagonisti assoluti delle canzoni di Moriconi. Anche oggi che ha raggiunto obiettivi impensabili per il 99% dei suoi colleghi, Ultimo continua a descriversi come un sognatore che a malapena crede di essere arrivato dov’è, un eterno Rocky Balboa che funziona come personaggio solo quando è alle corde. Ed è un modo di raccontarsi e raccontare le cose perfettamente in linea con la nostra epoca, e che ha perfino una molecola di verità: come dicevamo molti paragrafi in alto, anche i milioni di ascoltatori di Ultimo sono una minoranza nel disegno generale delle cose musicali.

La musica di Ultimo funziona perché tutti si sentono incompresi, prima o poi, e anziché provare a rispondere alla causa di questa incomprensione – perché la vita gira in questa maniera, perché ci fa sentire isolati e come “biglie al vento senza regole” intenti a proteggere “il bimbo che hai dentro”, perché continuiamo a chiederci “se il mondo un giorno io potrò amarlo” – ci risulta più efficace accodarci a racconti di rivincita e farli nostri. La storia e la musica di Ultimo, in fondo, invitano a un grande esercizio di immedesimazione: se ce l’ha fatta Niccolò, nonostante la stampa invidiosa e gli snob con il senso di superiorità, nonostante le porte in faccia e le accuse di cattivo gusto, forse ce la faremo anche noi, la maggioranza silenziosa che volentieri lascia che sia Ultimo a urlare al posto nostro. L’insoddisfazione regna sovrana nei testi del cantautore romano: “portami altrove”, chiede alla sua metà, ma d’altra parte dice “non ho voglia di altre persone, non ho voglia di cose nuove”. Non c’è curiosità, nella scrittura di Ultimo, se non per i meandri della propria personalità: anche quando si sente il desiderio di andare via, non è per trovare alternative, ma per “trovare sé stessi”. La musica di Ultimo, in questo senso, funziona perché nelle sue armonie scontate, nei suoi salti d’intensità, nell’invito all’introspezione, può funzionare per tutti e per nessuno.

Un linguaggio non semplice ma generico

Il suo linguaggio, infatti, non è semplice, come qualcuno vorrebbe dire forse con un certo snobismo. Semplice significa “che descrive una sola cosa” (si dice “semplice” e non “duplice” o “triplice”, etc); ma le canzoni di Ultimo descrivono molte cose senza sceglierne una in particolare, lasciando aperta la porta alle interpretazioni di chi ascolta. E per questo i suoi versi assumono spesso un tono aforistico, da frasi di Osho – c’è un momento del documentario Vivo coi sogni appesi in cui Ultimo se lo dice da solo, commentando autoironicamente il testo della sua Equilibrio mentale. Il linguaggio dei testi di Ultimo non è semplice, ma è generico: inquadra una categoria di argomenti, più che un argomento in sé. Allo stesso modo, il suo lessico non è spontaneo e naturale come vorrebbe dirsi sempre con una punta di disprezzo classista. Per esempio, “sentire che è risorsa il primo fresco a marzo” (Quando saremo vecchi) è una frase che funziona metricamente, ma che sfida le consuetudini della logica e mostra un uso molto elastico, figurato e assoluto della parola “risorsa” a cui Ultimo è affezionato, e che ha le sue radici nel vocabolario rap dove è utilissima come rima: vedi Piccola stella, “Sei risorsa, sei il cielo e sei il mondo”; L’eleganza delle stelle, “Saresti la risorsa per ogni sorriso”; ma anche la posse track Osg 2016 con tra gli altri Il Tre. L’imprecisione, in questo caso, è funzionale: lascia a ciascun ascoltatore la libertà di inserirsi dentro un verso, di poterlo fare proprio (magari tatuandosi le parole sulla pelle) senza che la figura dell’autore con il suo punto di vista eccessivamente preciso incomba in modo ingombrante.

Ultimo non è infatti un artista che si inserisce prepotentemente nelle proprie canzoni e nella sua comunicazione, e per quanto il suo branding personale sia solido (vedere il merchandising sullo store di Ultimo Records per credere), non arriva al culto della personalità sfacciato di tanti suoi colleghi, specie nel campo rap. Una parte importante dei suoi videoclip, ad esempio, non hanno l’artista come protagonista, ma lo inseriscono semmai dentro cornici narrative più larghe e indipendenti, dentro cui questo si muove come un rapsodo: Tutto questo sei tu e 22 settembre, Supereroi e Buongiorno vita, ma già Pianeti e Poesia senza veli sono videoclip dal gusto un po’ rétro, vignette cinematografiche con attori celebri che interpretano le parole in modo letterale, o che incarnano caricature più che personaggi. Mentre molti colleghi di Ultimo usano i video per sponsorizzazioni e per mostrare il loro carattere, Ultimo preferisce calarsi semplicemente nei panni del musicista, come una tabula rasa (7+3; Occhi lucidi; Alba). Insomma, Ultimo funziona perché prima di essere un simbolo o un modello è un veicolo per chi lo segue, e questo anche grazie alla genericità delle sue canzoni.

Nelle canzoni di Ultimo il pubblico deve immedesimarsi

Ultimo in concerto a Roma – Rocco Spaziani
Ultimo in concerto a Roma – Rocco Spaziani

Anche dove si intravede un background autobiografico, come nella già citata Aperitivo grezzo, per non parlare delle molte menzioni del “parchetto” di San Basilio, luogo primigenio della sua mitologia, il dettaglio personale non è mai importante quanto l’immedesimazione dell’ascoltatore: la strada, il bar, il parco sono destinazioni universali prima che spazi unici, come la provincia di Max Pezzali o la periferia urbana di Eros Ramazzotti, meno categorie socioeconomiche e più categorie dello spirito. Ugualmente, i rari personaggi altri che compaiono nei suoi brani non hanno la profondità che richiederebbe all’ascoltatore uno sforzo di empatia, ma sono altri portatori di valori generali.

Ad esempio in Giusy, canzone che disse di aver “dedicato alla fragilità femminile” quando la scrisse a 16 anni: non si capisce esattamente in cosa si manifesti questa fragilità, se sia una questione fisica o caratteriale, né si riesce a definire la figura eponima; e nemmeno importa più di tanto, perché sono la resilienza e l’invito a ribellarsi a contare. Giusy, a differenza di un’Albachiara per esempio, non potrebbe esistere fuori dal racconto della canzone, perché la sua è solo una figura esemplare. Le canzoni di Ultimo funzionano, insomma, perché non si perdono in meandri narrativi e complesse metafore, ma vanno dritto alla morale, quasi come un racconto di Esopo. La passione del cantautore per la simbologia della favola, così, ha ancora più senso: nei suoi testi i personaggi incarnano doti assolute, immediatamente riconoscibili al di là di ogni dubbio e sfumatura, ma la caratterizzazione è tale da invitare a immedesimarsi, a ritrovarci nel piccolo dilemma che viene proposto. A rinsaldarci nelle nostre convinzioni, per dirla in altro modo: “Amati sempre”, canzone e slogan chiave dell’ultimismo.

Parlare di vittimismo quando si cerca di capire Ultimo fa tanto 2019, e forse è meglio non tornarci su. Molto più importante è provare a capire cosa trovano i suoi fan nel descriversi “ultimi”. La mia opinione è che vogliano iperboli e semplificazioni in un mondo caotico, e per questo non trovano kitsch o fuori luogo l’enfasi vocale e il manicheismo lirico delle canzoni-favola di Ultimo. In ultima analisi, queste funzionano perché sono specchi. E qui sta il vero scacco matto del musicista. Anche il tormentone più divertente a un certo punto stufa, mentre degli specchi non possiamo fare a meno, e ci torniamo sempre, un po’ per narcisismo, un po’ per ricordarci come siamo. Perciò, il catalogo di Ultimo è di una solidità straordinaria: sospinto da un uso intelligente del merchandising e una continua costruzione del mito (i sei settori del concerto del 2026 sono chiamati come i sei album), questo repertorio continua a macinare ascolti in un mercato musicale dove i long seller sono molto più importanti delle veloci fiammate.

Pur mantenendo un flusso di pubblicazioni costante di circa un disco all’anno, nel 2024 Ultimo ha ricevuto molte più certificazioni da album e brani passati che non dall’ultimo Altrove e dai relativi singoli. Mentre tutto scorre velocemente, gli ascoltatori di Ultimo danno priorità al nucleo del loro vangelo, e ci si rivedono in ogni tipo di situazione: sulle piattaforme social gli audio delle sue canzoni sono utilizzati per video di ogni tipo, dalla testimonianza di una relazione agli annunci di adozione di cani, dai filmini delle vacanze agli immancabili montaggi dei fan. Non ci sono veri e propri trend dominanti, insomma, perché le canzoni fanno il loro lavoro di colonna sonora, sopra la quale chiunque scrive il proprio trattamento cinematografico personale.

Priva di un’identità stilistica specifica che la ancori a questo o quel movimento; talmente generica liricamente da poter rappresentare le piccole persecuzioni immaginarie di chiunque; enfatica e iperbolica come chi non riesce a fare a meno di prendersi sul serio; vaga come lo spazio vuoto da riempire con le proprie ansie e ossessioni: la musica di Ultimo è l’ancora di un pubblico che cerca l’autenticità ma non sa cosa sia, che ha bisogno di canzoni per affermarsi più che mettersi in discussione, per commuoversi più che per divertirsi. Ultimo ha fatto il vero pop inclusivo, aperto alle interpretazioni di chiunque lo incontri. E l’ostinazione con cui da quasi un decennio ha inseguito e trovato il successo è la catarsi per tutte le persone che si sentono defraudate, insicure e non ci vogliono pensare su.

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