Perché non riusciamo a toglierci dalla testa FRANCESCA di Francesca Michielin

Non so se oggi sia così di moda, ma fino a una decina d’anni fa esisteva un intero filone di commedie amare il cui spunto di partenza era il ritorno a casa. Non-più-così-giovani professionisti, spesso scottati da qualche delusione della loro vita in città, tornano per qualche giorno nel paese d’origine, in provincia, spesso a casa dei genitori. Tornano per le feste o per qualche ragione decisamente più lugubre e triste: un funerale, una persona che non sta bene, una crisi. E quando sono esposti nuovamente ai traumi e alle gioie incastonati nei ricordi dell’infanzia e adolescenza, i nostri protagonisti sono costretti a rivalutare le loro scelte, per capire cosa è andato storto, per capire cosa si può raddrizzare, per fare pace con gli aspetti meno brillanti delle loro vite e in qualche modo entrare veramente nella vita adulta.
Film come La mia vita a Garden State e The Skeleton Twins, come Young Adult o I Tenenbaum sembrano relegati a una certa epoca, forse perché raccontavano lo smarrimento di una generazione a metà fra la X e i Millennial, che in seguito a una serie di eventi indipendenti dalle loro scelte (crisi economiche, tensioni globali, guerre, fine della classe media) si sono trovati insoddisfatti e incerti, privi di un porto sicuro. E così contemplano la possibilità di fare reset sulle loro vite: il ritorno come reboot, come svolta, forse il topos letterario più antico e forte, da Gilgamesh a Ulisse. Un topos che si affaccia con la forza di quei film non più di gran moda nel nuovo singolo di Francesca Michielin, intitolato semplicemente Francesca.
A rigore, Francesca Michielin aveva già raccontato questo viaggio: il grandemente sottovalutato (non da tutti) album Cani sciolti del 2023 fu scritto e registrato dalla cantautrice nella sua Bassano, dove era tornata a vivere. Tra le righe di quel lavoro erano disposte riflessioni sulla percezione di sé, il ruolo dell’artista, le convenzioni sociali e di genere, la maturità che possono essere utili da sapere per chi desiderasse comprendere bene questa nuova fase della sua carriera. Perché Francesca segna decisamente una nuova fase, e si sente subito. La prima cosa che colpisce del singolo è certamente il suono, con un paio di battute strumentali che potrebbero stupire l’ascoltatore casuale. Peraltro, questo sarebbe già un potenziale snodo di attenzione, che curiosamente può giocare con il refrain del brano: “Cos’è successo a Francesca Michielin?”, chiede uno; “Francesca è impazzita”, risponde l’altro.
Chi conosce la musicista, in realtà, non sarà del tutto sorpreso: nel già citato disco del 2023, infatti, si era sentita abbondantemente l’adesione di Michielin alla tradizione rock, in particolare ma non solo britannica, con rimandi ai The Verve, Cristina Donà, e tracce come occhi grandi grandi o verbena stanno a testimoniare l’interesse genuino per una musica che – peraltro – l’artista non ha mai nascosto di essere stata la sua passione originale. Francesca, però, attinge ad altre tradizioni parallele del rock, e per questo dobbiamo parlare un po’ della chitarra e degli effetti che ne modificano il suono.
Tra i vari tipi di effetti che possono modificare il timbro di una chitarra elettrica ce ne sono alcuni che operano sul volume e sulle conseguenze stranianti di una ipersaturazione della potenza emessa rispetto alle capacità dell’amplificatore (la distorsione) e altre che giocano sul tempo di emissione del suono (delay e riverbero), alcune che modificano la dinamica cioè quello che chiameremmo volgarmente volume e altri che sono chiamati filtri. E poi c’è una categoria di effetti di cosiddetta modulazione.
Non si tratta della modulazione di tonalità come s’intende quando un cantante “alza” la nota di base della sua melodia (ne avevamo parlato la scorsa settimana), ma di un concetto decisamente più complesso che riguarda la sovrapposizione e fusione di un segnale proveniente dalla corda pizzicata con un’altra onda specificatamente disegnata per modificare la qualità del timbro finale: effetti di questo tipo sono il chorus e il flanger, che se applicati con gusto possono dare infinite variazioni di “surrealtà” e di aliena brillantezza al proprio suono. Un maestro degli effetti di modulazione sulla chitarra è tutt’altro che una figura minore della musica popolare, anzi: Robert Smith, frontman cantante chitarrista autore dei The Cure, ha fatto del suo particolare timbro chitarristico ultra-modulato un marchio di fabbrica della sua band. E nella chitarra che scintilla sopra un Do maggiore settima e un Mi minore nel nuovo singolo di Francesca Michielin si può sentire se non la diretta influenza sicuramente l’eredità di quel modo di concepire il suono.
Modulare, modificare, filtrare, truccare un suono non significa renderlo necessariamente “fasullo”, esattamente come usare autotune non è necessariamente un modo per raggirare il pubblico. Ma, come si diceva una settimana fa, la differenza è sempre più sottile, e la suscettibilità del pubblico e degli artisti è messa costantemente alla prova: sentiamo il bisogno di qualcosa di autentico, sincero, reale e lo sviluppo sempre più efficiente delle intelligenze artificiali generative non sta migliorando la situazione di questa crisi di fiducia. Michielin è attenta a questo tema da tempi non sospetti. Già parlando di Cani sciolti, due anni fa, la musicista parlava delle sue decisioni produttive come indirizzate a una trasparenza quasi più psicologica che artistica: per dirne una, la scelta di usare spesso un singolo take per la voce, anziché cucire le migliori frasi incise in sessioni più lunghe. Esagerare, sfigurarsi, truccarsi – ne abbiamo parlato a modo suo anche intorno a Lucio Corsi – può essere un modo per attingere diversamente a questa necessità di verità: in quella chitarra scintillante e onirica, insomma, non c’è un inganno ma uno strappo del velo che ci separa dall’artista.
Lavorare per questa sincerità, comunque la si definisca, non è per Michielin una ricerca recente, insomma, e Francesca, con il suo titolo eponimo così chiaramente in vista, è solo un altro passo – una falcata, forse – lungo un percorso iniziato da lontano. Stando alle grandi regole generali del mercato culturale, quindi, questo nuovo singolo alza la posta in gioco di un discorso familiare, e per questo può agganciarsi all’immaginario di un pubblico preparato. Ma il testo contiene anche l’eco di un’altra tematica conosciuta. La contraddizione tra cosa si è dentro e cosa si è fuori (in un certo senso, il grado zero delle definizioni della sincerità) muoveva già il testo di padova può ucciderti più di milano: allora questo contrasto tra parole e opere, tra dentro e fuori, era visto in negativo, la prova dell’ipocrisia di una provincia che dovrebbe crescere e maturare; in questo caso, invece, nella distanza che separa “di rose vestita” e “ma dentro una strega cattiva” si apre lo spazio per una libertà individuale che permette alla cantante di alzare la voce nel ritornello e appropriarsi della frase “Francesca è impazzita”.
In questo passaggio c’è da sottolineare un songwriting ingegnoso da parte di Michielin e dei colleghi cantautori con cui ha lavorato al brano, Galea e Kaput (peraltro artisti molto bravi): quel breve pre-chorus di due versi, qui, non ha la scopo di aggiungere qualche nuovo elemento melodico nuovo (il ritornello di per sé ha sufficiente varietà per intrattenere l’orecchio), ma anticipa proprio quel refrain finale con le medesime tre note discendenti (Re-Do-Si). Esposte, ripetute, e poi ribattute al doppio della velocità come una catena che ci si vuole scrollare di dosso e che alla fine s’indossa con un severo orgoglio, queste note sono il luogo ideale in cui Michielin promette “resto qua e resisto”, cioè di non nascondere la sua stranezza, di voler abbracciare anzi la contraddizione di chi, beneducata o meno, la vede solo come una “bambolina”.
Appropriarsi delle denigrazioni è un’operazione culturalmente importante, specie nel panopticon digitale nel quale viviamo oggi, in cui tutti si osservano e giudicano a vicenda. La musicista, qui, fa della “pazzia” una professione di libertà. Del resto “la follia della donna” è forse il luogo comune più comune e inveterato di una società patriarcale che non ha più nemmeno il coraggio di riconoscersi come tale, umiliazione dopo umiliazione, ingiustizia dopo ingiustizia, femminicidio dopo femminicidio. Farsi forza di un’accusa, del resto, è il modo migliore per scrollarsi di dosso tutte le letture altrui, i momenti in cui qualcuno “intercede” per te – si potrebbe argomentare che anche questa rubrica “intercede” per gli artisti, ma a quel punto sarei costretto a trovarmi un mestiere vero.
Questo genere di interazioni non dovrebbe esserci nuova: tutti ci siamo passati durante l’adolescenza, quando i tentativi del mondo adulto di definirci erano vissuti come oppressioni insopportabili. Chi vive in un segmento oppresso della società patisce ogni giorno questo paternalismo. E giustamente Francesca gioca ambiguamente sui tempi: la cantautrice ci sta parlando di un’esperienza recente o della sua giovinezza? A mio avviso sta confondendo i piani temporali, con alcuni segnaposto cronologici evidenti (“crollano le torri in America”) che vengono verso dopo verso sconfessati dal tempo presente indicativo che domina l’intero brano.
Di certamente “adolescenziale” c’è la risposta musicale a questo stress: un suono volutamente radicale, eccessivo, oscuro. Da almeno 70 anni gli adolescenti di tutto il mondo scandalizzano gli adulti ascoltando qualcosa di contrario all’opinione maggioritaria. La trap, tutto sommato, ha dato questo a milioni di ragazzini – prima di diventare a sua volta maggioritaria e vecchia. Ovviamente, la scelta di Michielin verso un suono new wave e post-punk potrebbe sembrare un rifugio nel passato: il che non stupirebbe, il passato ci sembra sempre più “vero” e “sincero” del presente. Ma la produzione di Francesco Catitti (anche coautore) sembra fare riferimento anche a un altro periodo storico, non troppo lontano (20 anni fa) in cui milioni di adolescenti si ribellarono suonando bassi e batterie spigolose, tenaci, ossessive, e rifacendosi al passato.
La palette timbrica di Francesca, infatti, potrebbe ricordare brani degli Interpol. E, a dirla tutta, anche brani dei DIIV o dei molti artisti che, con assai meno visibilità ma un seguito sempre più fedele, sta riportando nella conversazione musicale mainstream parole come shoegaze, dreampop, psichedelia, e così via. Per via della stessa regola ciclica del mercato di cui parlammo a proposito del “ritorno dei cantautori a Sanremo”, la saturazione del mercato sta allargando spazi per nuove soluzioni radicali, non accomodanti, eppure fascinose: altrimenti sarebbe difficile spiegare il successo commerciale nel 2024 di fenomeni come Chappell Roan e Charli XCX.
Probabilmente il grosso del pubblico non farà caso a questo ragionamento sulle tendenze o alle eventuali allusioni di Michielin a questo o quell’artista post-punk inglese. Non penserà al mercato culturale e alle sue regole sotterranee, all’intelligenza artificiale e alla perdita di autenticità. O al ruolo delle donne nello spettacolo e più in generale nella società – questo ahinoi succede spesso. Come certamente non si preoccuperà – a differenza del sottoscritto – del giro di accordi (sul La minore e Do) del bridge, chiedendosi se per caso si tratti di una sezione armonicamente ambigua, come a stabilire che la sua svolta argomentativa (“Sceglierei di nuovo questo casino”), cioè la decisione della voce narrante di convivere e lottare con le pressioni sociali della città di origine, non sia affatto scontata e prevedibile. Esattamente come succedeva in quei film che citavo all’inizio, che dietro una patina di leggerezza provavano a rispondere a domande gigantesche nel microcosmo della hometown.
Non se lo chiederà, ma ascolterà lo stesso. E se per caso sarà sazio di tormentoni e trapperini fatti con lo stampo, forse ascolterà ancora e ancora. E come uno spettatore qualunque di quei film, anche l’ascoltatore di Francesca non dovrà porsi ogni questione scritta fin qui in maniera analitica. Ma “sentirà” tutto lo stesso e – credo – apprezzerà a livello intuitivo la decisione di una popstar italiana di essere veramente artista (e non populista). Mettendosi alla prova; usando la propria esperienza come lente per le riflessioni personali altrui; parlando in modo diverso di quando ci si sente diversi. Caricandosi sulle spalle quel bisogno di autenticità che non sappiamo trovare più intorno a noi e la voglia di urlare per la frustrazione quando tutto ci sembra fasullo e insincero.