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Perché il “navigator” del reddito di cittadinanza si chiama così? Che cosa c’è dietro?

Il Ministro Luigi di Maio ha annunciato che chi avrà diritto al reddito di cittadinanza, al fine di essere inserito o reinserito nel mercato del lavoro, sarà assistito da una figura che sgancia questo compito dai centri per l’impiego: il navigator. Ma da dove salta fuori questo nome? È nuovo o si tratta del nome di professionisti presenti sulla scena internazionale? E perché è stato scelto?
A cura di Giorgio Moretti
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Se l'è inventato Di Maio, o chi per lui. In inglese il navigator è il nostro normalissimo navigatore, cioè chi guida una nave, un velivolo, tracciando la rotta che deve seguire; poi sono chiamati naturalmente ‘navigator' gli esploratori per mare (Magellano, i Caboto e compagnia bella), oltre a strumenti che assistono nel viaggio sia fisico (come quello che usiamo in automobile) sia digitale (come un motore di ricerca). Insomma, nel mondo internazionale del lavoro se si parla di navigator se ne parla essenzialmente nell'ambito del pilotaggio.

Una figura come quella che vuole creare Di Maio (dai contorni così evanescenti da essere ancora un ectoplasma) è essenzialmente un tutor, parola ben più battuta, versatile e calzante. Ma il nome ‘tutor' dà un'idea precisa: l'idea che ci sia una persona in una situazione di minorità, di incapacità, che viene assistita da un tutore, da un difensore. Il tutor suona come una roba da studentelli. E invece qui si vuol dare ben altra idea, perché Di Maio non vuole curare paternalmente chi si trova in una situazione di difficoltà, ma hop! prenderlo nella ciurma e formarlo sulla nave diretta a glorioso porto.

Il navigator trasmette l'immagine di una figura coraggiosa, intelligente come un Vasco De Gama che trova la nuova via per le Indie ridendo delle tempeste, esperta come una guida degli insidiosi reticoli di canali del Mississippi, ma servizievole e amica come un algoritmo di supporto che posso interrogare con un "Ok, Google". Va senza dirlo che è modernissima, all'avanguardia: infatti nonostante il suo nome sia un latinismo dei più trasparenti è pronunciato passsando dal "Via!" dell'inglese. Non navigàtor, ma navighéitor, ed è già ventiduesimo secolo.

Il meccanismo è dei più consueti della politica italiana: Renzi vara il Jobs Act, una riforma del lavoro come mille altre, e nel farlo sceglie la via anglosassone. E certo, perché gli anglosassoni chiamano certe loro leggi ‘act', il che comunica all'orecchio italiano la fattività gagliarda di un atto già agito, che ha già cambiato le cose; e poi insomma, l'anglosassonità guida il mondo e risolve i problemi (o almeno questa è l'idea), quindi un Jobs Act avrà di sicuro un impatto diverso rispetto a una riforma del lavoro varata in completo spigato grigio. Poi si fa echeggiare Jobs, come Steve, anche qui siamo almeno due secoli d'innovazione avanti solo scegliendo un nome inglese.

La politica nuova che vuole rivoluzionare tutto usa le stesse suggestioncine dei precursori tanto maledetti. Anche se sei di Ringnano sull'Arno o di Pomigliano D'Arco, anche se sei compasano di Ponzio e di Tritano, devi chiamare poeticamente ciò che fai con nomi inglesi per non sembrare provinciale, per rompere con una tradizione immorale. Insomma, i politici italiani sono davvero rappresentativi di un popolo di santi, poeti e navigator.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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