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Perché è importante la scoperta della giovinetta di Mozia, gli archeologi: “Ritrovamento raro in Sicilia”

Mutila della parte superiore, la scultura di V secolo a.C., denominata la giovinetta di Mozia, è stata rinvenuta deposta accuratamente in una vasca d’argilla ancora fresca, all’interno di un’officina di vasai sull’isola di fronte Marsala. La missione archeologica dell’Università di Palermo è impegnata nello scavo del più grande laboratorio ceramico punico.
A cura di Claudia Procentese
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Missione archeologica Mozia Unipa
Missione archeologica Mozia Unipa

“Ragazzi, abbiamo la statua” è stata la sua esclamazione di gioia al momento del ritrovamento, poco più di un mese fa, di quella che tutti ormai chiamano la giovinetta di Mozia (per distinguerla dall’efebo scoperto nel 1979 poco distante). Paola Sconzo, 53 anni, di cui venti trascorsi in Germania, è una delle professionalità che ha avuto la possibilità di rientrare in Italia nel 2022, “inaspettatamente, perché ho partecipato ad un concorso e l’ho vinto” specifica. Un “brain gain”, cervello di ritorno, si dice in gergo. Oggi, professoressa di Archeologia e Storia dell’arte dell’Asia occidentale e del Mediterraneo orientale antichi presso il Dipartimento Culture e società dell’Università di Palermo, è la direttrice scientifica della missione archeologica a Mozia, l’isola di fronte Marsala sulla costa occidentale della Sicilia, nella laguna dello Stagnone.

È la stessa docente a raccontare lo straordinario rinvenimento mentre è in ferie al mare, senza risparmiarsi nel divulgare la storia della colonia fenicia di fine VIII secolo a.C., ubicata in una riserva naturale istituita nel 1984, ricca di biodiversità e testimonianze storiche. E senza cedere alle lusinghe del moderno sensazionalismo archeologico. Perché Mozia, partenza e approdo per le attività commerciali e militari delle tante civiltà mediterranee che l’hanno abitata, non ne ha bisogno.

La statua in marmo appena scoperta, mutila (priva della testa e del torso) e alta 72 centimetri compreso il piedistallo, raffigura un personaggio femminile vestito alla greca e in posa incedente. Databile al periodo tardo-arcaico (inizi V secolo a.C.) e di pregevole qualità artistica, conferma l’intenso scambio, non solo di merci ma anche di idee e mode culturali, tra mondo punico e mondo greco nella Sicilia del V secolo. In tale periodo Mozia con le abitazioni residenziali, gli edifici pubblici, i santuari, un mercato, le officine industriali, il tutto intervallato da piazze e giardini, diventa una città-stato che fa invidia alle “poleis” greche.

Oggi, in quest’ecosistema dove storia e natura convivono, di proprietà della Fondazione Whitaker e tutelato dalla Soprintendenza per i Beni culturali e ambientali di Trapani, lo scavo dell’università di Palermo, in convenzione con l’assessorato regionale dei Beni culturali e dell’identità siciliana, ha aggiunto un altro tassello alla storia millenaria dell’isola. Una quarantina di ettari di paesaggio incontaminato che restano sospesi in un incanto onirico senza tempo.

Finalmente il meritato riposo. Professoressa Sconzo, la diciannovesima campagna archeologica a Mozia si è conclusa con una grande notizia.

Sì, abbiamo rinvenuto la statua dopo sette settimane di scavo, l’8 luglio, proprio tre giorni prima della chiusura del cantiere, e l’abbiamo prelevata l’11.

Perché il ritrovamento è così eccezionale? 

In Sicilia sono rarissimi gli esempi di statue greche risalenti a questo periodo, cioè di fine VI – inizi V secolo a.C., ma soprattutto la statua è stata trovata in un contesto non greco, ma punico.

Dove precisamente?

In un’officina di vasai. Era deposta in posizione orizzontale, nascosta, lungo il bordo di una vasca di argilla, ma riteniamo che originariamente dovesse essere stata collocata all’interno dello stesso laboratorio.

Che ci faceva in questa officina?

Iniziamo col dire che si tratta del più grande laboratorio ceramico punico, ad oggi conosciuto nel Mediterraneo occidentale. Lo abbiamo definito della zona K. Era dotato di tutte le installazioni destinate alla produzione di vasellame e terrecotte figurate: vari forni, il tornio, pozzi, le vasche con l’argilla pura, quelle con la sabbia, quelle con la ceramica riciclata. Il workshop si trovava alla periferia del nucleo abitativo nei pressi della Porta nord. Non c’aspettavamo la presenza di una statua in un simile ambiente, per cui tante domande restano ancora aperte. Oltretutto, il rinvenimento a fine scavo non ci ha permesso di indagare una serie di dettagli che avrebbero potuto aiutarci nella ricostruzione.

Ma qual è l’ipotesi più probabile?

Non mi sbilancerei senza ulteriori accertamenti, ma è possibile che, come attestato pure in altri casi del mondo mediterraneo, all’interno di un’officina così grande in una città, ovvero Mozia nel V secolo a.C., ove i vasai rivestivano un ruolo importante e ben riconosciuto nella società, venisse tenuta, esposta e valorizzata una statua. Riteniamo sia stata realizzata in due parti poi assemblate da un artigiano greco, forse itinerante o che abitava a Selinunte, più in generale nella parte occidentale della Sicilia, all’inizio del V secolo a.C.

Il reperto archeologico trovato a Mozia
Il reperto archeologico trovato a Mozia

Chi rappresentava la statua?

Sfugge alla nostra comprensione poiché il problema dell’identificazione è in genere legato alla presenza di attributi. Purtroppo si è conservata soltanto la parte inferiore, perciò è assai difficile risalire persino alla posa delle braccia. Nulla ci suggerisce se tenesse qualcosa in mano o indossasse altri segni di riconoscimento. Sicuramente su un lato reggeva il peplo alzato, il resto è incerto.

Lei prima ha detto che la scultura era nascosta nell’argilla. In che senso?

Agli inizi del IV secolo a.C., esattamente nel 397, Mozia è conquistata e distrutta dai Siracusani dopo un lungo assedio. È uno degli assedi più noti della storia greca poiché raccontato nei minimi particolari dallo storico Diodoro siculo. L’aggressione si protrae a lungo e consta di due fasi: la prima si svolge in mare minando la difesa moziese, la seconda si sposta sulla terraferma con i combattimenti corpo a corpo. Alla prima fase appartiene l’enorme quantità di punte di freccia di bronzo scagliate dal mare verso l’isola e nella traiettoria degli scontri finisce inevitabilmente anche l’officina, perché situata all’ombra delle mura, cioè in una delle zone della città impattate subito e pesantemente.

Cosa succede in quest’officina sotto attacco?

Immaginiamo che, in questo frangente di panico, la statua sia stata spostata dalla sua originaria posizione. La parte inferiore viene deposta in maniera molto accurata in una delle vasche che servivano per fabbricare vasi e viene coperta di argilla ancora fresca. Quindi la dismissione della statua non è riconducibile ad un mancato riconoscimento dell’immagine sia essa di culto o di potere, ma sarebbe relativa a tale drammatico momento di confusione.

Nascosta per proteggerla?

Sì, messa al sicuro, conservata. Mentre il giovane di Mozia trovato nel 1979 è stato sfregiato, questa giovinetta è integra nelle parti conservate, almeno.

Dunque, nessun parallelo tra i due “giovani” di Mozia.

Il giovane di Mozia ha una storia completamente diversa. Viene ritrovato non lontanissimo dal luogo dove abbiamo scoperto la giovinetta, però all’esterno di questa officina, nella grande piazza che la separava dal Cappiddazzu, uno dei principali poli santuariali della città. Era deposto assieme a numerosi blocchi ed elementi architettonici in una sorta di “colmata”, fra le macerie del tempio distrutto durante l’assedio. Si pensa potesse essere esposto nel tempio o nella piazza. Ipotizziamo che la dismissione del giovane sia successiva a quella della nostra giovinetta, che invece è contemporanea all’assedio, cioè attribuibile all’ultima fase d’uso dell’officina.

Dove si trova adesso la giovinetta?

Non posso dirlo per motivi di sicurezza, ma abbiamo previsto una presentazione al pubblico nel prossimo mese di ottobre, aspettando una nuova sistemazione museale.

Al museo Whitaker sull’isola di Mozia?

Sì, si sta creando uno spazio adeguato ad ospitarla entro quest’anno o gli inizi dell’anno prossimo. Il museo è piccolo, bisogna creare un allestimento idoneo che contestualizzi la statua e non si limiti a mostrarla.

Professoressa, qual è il ruolo di Mozia nella storia del Mediterraneo?

Mozia è una realtà plurale per eccellenza, crocevia di popoli e idee nel Mediterraneo antico dalla prima età del Bronzo fino alla viglia della conquista romana. Sorgeva su una piccola isola circondata da una laguna poco profonda, vicino a Capo Lilibeo, in una posizione cruciale e facilmente difendibile: un porto naturale che garantiva accesso privilegiato all’entroterra siciliano e vicinanza a Cartagine e al Nord Africa. Nell’VIII secolo a.C. divenne un approdo fondamentale per i navigatori levantini/fenici diretti in Occidente, e nei secoli successivi si trasformò in una fortezza strategica del potere marittimo cartaginese. Dal VI secolo a.C. assunse l’aspetto di una vera città, con un ambizioso programma di monumentalizzazione – mura, templi, edifici pubblici – che interessò non solo l’isola, ma l’intero Stagnone, attraversato dalla cosiddetta “strada sommersa”.

Sommersa?

Sì, oggi sommersa perché non più praticabile. Quando si è verificato l’innalzamento del livello del mare di circa cinquanta centimetri, la strada un tempo a pelo d’acqua è scesa più giù. Attualmente la si può percorrere, ma con l’acqua che arriva al bacino. In realtà, originariamente doveva collegare l’isola alla terraferma. Oltre a facilitare i movimenti e proteggere la laguna interna, questa strada acquisì una dimensione simbolica, fungendo da percorso rituale per il trasferimento dei defunti verso il sepolcreto di Birgi.

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Insomma, da crocevia dei traffici tra il Tirreno e il Canale di Sicilia, tra Oriente e Occidente, Mozia nel V secolo a.C. mostra una sua definita e forte identità

Certamente. In epoca classica dobbiamo immaginarci Mozia come una metropoli multiculturale abitata da genti di origine fenicia/cartaginese, da greci e da elimi (popolazione autoctona). Purtroppo, però, dopo l’assedio e la distruzione del 397 a.C. perde l’importanza di centro economico e politico nel Mediterraneo centrale e non la riacquisterà mai più. Viene rioccupata, ma in forma minore: non ci saranno più le grandi istituzioni, le ingenti ricchezze e i rinomati templi.

Non ritorneranno la prosperità e lo splendore di un tempo?

No, ma in qualche modo questo ha fatto la fortuna degli archeologi.

Cioè?

Il paesaggio è rimasto pressocché immutato nei secoli, rendendo Mozia un caso unico: i resti della maggior parte dei principali siti punici di Sicilia (Palermo, Solunto) sono stati invece cancellati da insediamenti greci, romani e successivi. La straordinaria integrità del sito ne fa una piattaforma ideale per la ricerca archeologica, offrendo una prospettiva privilegiata sulla storia e sulla cultura fenicio-punica del Mediterraneo centrale.

Insomma una città-stato autosufficiente, come le “poleis” greche, quasi fissata nel tempo. Facendo un salto temporale, cosa accade in tempi più recenti? 

Chiaramente la memoria dell’isola rimane perché è menzionata dagli scrittori greci. Successivamente, Mozia, donata nell’XI secolo dai Normanni ai monaci basiliani di Palermo che la battezzano isola di San Pantaleo, fondatore del loro ordine, viene riscoperta da Heinrich Schliemann, che nel 1875, dopo tutte le disavventure vissute a Troia, alla ricerca di un sito dove poter riprendere le sue attività, vi scava per una settimana. Tuttavia, deluso dai reperti per lui poco interessanti, va via. Agli inizi del Novecento Mozia diventa oggetto dell’interesse di Joseph Whitaker.

Chi era Joseph Whitaker, italianizzato in Giuseppe?

In verità più noto come Pip. Era il cadetto di una facoltosa famiglia di commercianti inglesi, la quale intraprese la redditizia produzione del vino Marsala nella Sicilia occidentale. Pip era un po’ la pecora nera della casata.

Perché?

Il padre di Pip si era trasferito in Sicilia per aiutare lo zio materno nell’attività imprenditoriale, ma Pip nato e vissuto a Palermo non ereditò la passione per gli affari. La sua indole di letterato lo portò piuttosto a seguire l’arte, l’archeologia e prima ancora l’ornitologia. Quando i contadini gli portavano gli oggetti che venivano fuori lavorando la terra e i vitigni a Mozia – perché ricordiamolo sull’isola c’è acqua dolce utile per l’agricoltura -, Whitaker junior si rese conto del potenziale archeologico, acquistò i vari appezzamenti diventando proprietario di tutta l’isola e intraprese gli scavi con il permesso dell’allora Soprintendenza. Portò alla luce tratti delle fortificazioni, il Kothon, il tempio di Cappiddazzu, la necropoli arcaica e resti dei quartieri abitativi. Individuò il tofet anche se non lo riconobbe in quanto tale, ovvero come lo spazio sacro di culto fenicio già noto dalle fonti.

Con Whitaker, gentleman siculo-britannico che preferiva la vita all’aria aperta rispetto a quella mondana, ha inizio una lunga tradizione di studi che ha visto varie università italiane impegnate sull’isola 

Sì, come quella di Palermo in cui insegno. Ma c’è stata l’università di Bologna e c’è ancora La Sapienza di Roma. Oltre alle numerose collaborazioni che la nostra missione porta avanti con università straniere, come quelle di Philadelphia (Penn Museum), di Helsinki, di Tübingen. Mozia è isola plurale anche per gli approcci interdisciplinari, chiamando in causa geomorfologi, archeometri, archeo-zoologi, paleo-botanici, antropologi, storici delle religioni.

Ma l’isola è ancora privata?

I Whitaker si sono estinti e al momento della morte dell’ultima discendente, Delia figlia di Pip, è stata creata la fondazione Whitaker, che amministra non soltanto l’isola di Mozia, ma tutte le proprietà della famiglia, come Villa Malfitano a Palermo.

Oggi, rispetto al passato, cosa significa scavare a Mozia?

Lavorare in modo interdisciplinare, operare in team, formare nuove generazioni di archeologi. Fin dagli anni Settanta del secolo scorso, Mozia ha costituito un terreno avvantaggiato per il coinvolgimento immersivo di studenti e studentesse del nostro e di altri atenei italiani ed esteri in forma di “campi scuola”. Non solo carriola e piccone, ma anche documentazione scientifica. Oggi è prassi diffusa ovunque, tenendo conto che sono venuti meno i cospicui finanziamenti degli anni passati che assicuravano maggior lavoro manuale grazie alle imprese edili specializzate. Come ateneo abbiamo proseguito la tradizione, coinvolgendo ogni anno studenti della Triennale, della Magistrale, i dottorandi, in un’esperienza didattica sì, ma che è opportunità di confronto di gruppo e di crescita personale.

Una vera e propria messa alla prova. Quanti partecipanti quest’anno?

Sì, i giovani sperimentano, in base alle loro competenze, tutta la "chaine operatoire", la catena lavorativa, all’interno di uno scavo archeologico. In quest’ultima campagna una ventina di partecipanti. Fino ad un paio di anni fa ci è stata data la possibilità di soggiornare sull’isola perché Joseph Whitaker per statuto aveva destinato alle missioni un edificio, chiamato per l’appunto Casa delle missioni archeologiche, che ha ospitato generazioni di archeologi dediti all’osservazione, alla condivisione, alla dimensione collettiva della ricerca.

E invece?

La Casa delle missioni è stata chiusa perché giudicata inagibile. Di conseguenza oggi facciamo i pendolari dalla terraferma con evidente difficoltà.

Chi dovrebbe occuparsi del restauro e della messa in sicurezza?

Si attendono le necessarie autorizzazioni e i finanziamenti per procedere agli interventi. Sinceramente, ci auguriamo che si possa trovare presto una soluzione, ma soprattutto che la scoperta di questa nuova statua contribuisca a rinnovare l’interesse e l’attenzione sull’importanza archeologica di Mozia.

Gli scavi che hanno portato alla scoperta della Giovinetta di Mozia
Gli scavi che hanno portato alla scoperta della Giovinetta di Mozia

In che senso rinnovare l’interesse?

La missione dell’università di Palermo lavora su quest’isola dal 1977, io personalmente dal 1993. Se non ci sono eclatanti rinvenimenti, il nostro lavoro tende spesso a passare in secondo piano, quasi inosservato, dimenticando che l’archeologia non è solo fatta di ritrovamenti sensazionali: è una presenza costante, paziente e necessaria, capace di raccontare la storia profonda dei luoghi e di alimentare, nel lungo periodo, lo sviluppo culturale, sociale ed economico dell’intero territorio.

In conclusione, obiettivo della prossima campagna sarà la ricerca della parte superiore della giovinetta? Dove è finita?

Non ha senso per noi archeologi perseguire un fine del genere. Sicuramente, saremmo molto felici se la trovassimo, perché verrebbero chiariti tanti dubbi. Ma la prossima campagna punterà all’approfondimento.

Ci spieghi allora…

Occorrerà capire perché la giovinetta stava lì, esaminare il contesto, risalire a chi l’ha commissionata e a chi poi ha cercato di custodirla e preservarla in un momento di disgrazia. Il sensazionalismo della scoperta è momentaneo e per certi versi inevitabile, è istinto umano. Ma per noi studiosi quello che veramente conta è l’indagine continua e tenace delle fasi storiche e dei popoli che le hanno vissute. A Mozia e nel Mediterraneo.

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