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La rivolta di Reggio Calabria: tra uso pubblico della storia e localismo cronico

Il 14 luglio 1970 hanno inizio di moti di Reggio. Sette mesi di guerriglia urbana, in cui si mescolano eversione nera e criminalità organizzata, per ottenere il titolo di capoluogo calabrese e la sede del neonato ente regionale. La rivolta, che provoca cinque morti e numerosi feriti, si conclude nel febbraio 1971 con una mediazione clientelare promossa dalla Democrazia cristiana.
A cura di Marcello Ravveduto
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Si è costituito il “Comitato 14 luglio” che raggruppa diverse sigle di associazioni, movimenti e partiti della destra storica reggina. L’intento è non far cadere nell’oblio la “ricorrenza” commemorando il quarantacinquesimo anniversario della rivolta che, nei sette mesi di protesta, ha prodotto cinque vittime (Labate, Campanella, Iaconis, Curigliano e Bellotti), decine di mutilati e centinaia di feriti.

Poi si legge: «Ci vollero molti anni affinché la città si riprendesse da questo colpo quasi mortale inferto dalle lobby del centrosinistra nazionale (con la colpevole ignavia e subalternità di quello locale) e memorabili battaglie in tutti i consessi elettivi degli uomini migliori che Reggio potesse esprimere al tempo, per citarne alcuni: Ciccio Franco, Giuseppe Reale, Piero Battaglia, Antonio Dieni, che con tenacia e duri confronti, riuscirono a “strappare” almeno alcune importanti istituzioni, tra le quali la Corte d’Appello, l’Università, la sede del Consiglio regionale, l’Università per Stranieri».

In parole povere si strumentalizza la memoria al fine di rafforzare l’identità di una parte politica. È un caso tipico di uso pubblico della storia, ovvero raccontare un episodio e il suo contesto in funzione di bisogni politici contingenti per sottometterli a ricostruzioni partigiane.

Si fa leva sul ricordo del passato per ottenere visibilità contro un avversario esplicitamente dichiarato. La memoria collettiva, che è necessariamente plurale, incoerente e contrastante (quale risultato di una somma di individualità il cui pensiero è condizionato dall’appartenenza ad un ambiente sociale o civile), esaurisce il suo ruolo di colonna portante dell’identità comunitaria, universalmente riconosciuta, per divenire strumento fazioso di creazione del consenso, parzialmente legittimato.

Perché i reggini si ribellano nel luglio 1970? Questa è l’unica domanda a cui rispondere. Con l’istituzione delle Regioni si diffondono nel Mezzogiorno «aspettative quasi messianiche». Dal decentramento ci si attende un impulso socioeconomico e una svolta verso l’efficienza burocratica, ma anche un incoraggiamento all’autogoverno locale. Un grave fraintendimento che in Calabria fa emerge le sempre latenti ostilità tra le diverse province. La disputa si condensa intorno alla designazione del capoluogo di regione che dovrà ospitare il nuovo ente.

Uno scontro che vede protagoniste le città di Reggio Calabria e di Catanzaro. Quando i reggini si accorgono che i rivali stanno per avere la meglio si scatena l’inferno: sette mesi di assemblee, comizi, cortei e scioperi contornati dall’uso della violenza con conflitti e fuoco ed esplosioni al tritolo.

La storiografia tende ad inquadrare i “fatti” nel ciclo di proteste che caratterizzano gli anni Sessanta e Settanta, rilevando, tuttavia, un inconsueto criterio di aggregazione: «un senso di appartenenza territoriale, interclassista e ideologicamente trasversale, piuttosto che improntato alla comune condizione generazionale o di classe». Il motivo dell’originalità è rintracciabile nella sua stessa eccezionalità: la rivendicazione del capoluogo è la «molla centrale […], obiettivo nel quale confluivano frustrazioni e attese, vero cemento della sollevazione di massa». E rimane centrale anche quando si sommano ulteriori e più ampie ragioni di contestazione.

Chi furono i promotori? In primo luogo gli esponenti locali della Dc, partito di maggioranza relativa, alla guida del Comune e della Provincia. Si aggiungono, poi, i partiti laici di governo, il Msi, i sindacati anticomunisti, le associazioni cittadine e la Chiesa. Le sezioni locali del Psi e del Pci e la camera del lavoro della Cgil, vista la congerie dei promotori, si tengono lontane dalla mobilitazione, sperando, in cambio del ruolo assegnato a Catanzaro, di ottenere un sostanzioso intervento pubblico nel settore industriale: più fabbriche ci sono, più operai da tutelare si assumono, più l’interdizione del sindaco rosso e dei partiti di classe aumenta.

Il Comitato d’azione che guida la rivolta è capeggiato da un dirigente sindacale della destra radicale (la Cisnal), Ciccio Franco, che usa come slogan l’antico motto del corpo degli Arditi: Boia chi molla!

Sin dal 14 luglio 1970, i moti si connotano per l’inusitata violenza che provoca una reazione ancora più violenta dei tutori dell’ordine. Si erigono barricate contro l’assalto delle forze di polizia e ci si difende lanciando bombe molotov e sparando colpi d’arma da fuoco. Una guerriglia urbana in cui si mescolano forze eversive extraparlamentari e criminalità organizzata.

Sia i rapporti di polizia, sia le cronache giornalistiche individuano un prevalente protagonismo giovanile, ideologicamente trasversale. Una trasversalità che viene utilizzata dalle cosche della ’ndrangheta per inserirsi nel marasma caotico eversivo con il presupposto di condizionarne gli esisti attraverso l’organizzazione, giudiziariamente riscontrata, di numerose azioni terroristiche, tra le quali va sicuramente ricordata il deragliamento della Freccia del Sud del 22 luglio 1970.

Le acque si confondono al punto che «stanno diventando fautori del disordine anche i più celebrati uomini d’ordine; venerati professionisti, celebri avvocati, industriali, marchesi, liberali illuminati e missini fautori dello Stato forte… Contemporaneamente i tradizionali fautori del disordine, comunisti e sindacalisti di sinistra, contrari alla protesta per “Reggio capoluogo”, scontano le colpe della loro tardiva e interessata conversione all’ordine».

Mentre il Msi, non senza perplessità, cavalca la “piazza” egemonizzando la protesta grazie alla retorica meridionalista e antipartito, il Pci, dopo un’inziale contrapposizione platonica, prima incita, a partire dall’ottobre 1970, una fase di mobilitazione, per contrastare la leadership eversiva della rivolta che si è trasformata in un mero problema di ordine pubblico, poi reclama una rigida repressione a causa del clima di apprensione provocato dalla “strategia della tensione”.

La rivolta si placa grazie ad una di quelle mediazioni salomoniche/clientelari tipiche della Democrazia cristiana. Il 16 febbraio 1971, il Consiglio regionale recepisce la proposta del presidente del Consiglio dei ministri, Emilio Colombo, che accontenta tutti: a Catanzaro spetta la sede della Giunta e il titolo di capoluogo mentre a Reggio tocca la sede dell’Assemblea.

Nella partita di giro entra anche Cosenza indicata quale sede dell’Università della Calabria, mentre alla provincia reggina, come ulteriore contentino, è assegnato il quinto centro siderurgico, mai realizzato a causa della diminuzione della quota di produzione di acciaio spettante all’Italia nell’ambito degli accordi sanciti in seno alla Comunità economica europea. Saranno, nonostante tutto, ultimate le banchine dell’annesso porto di Gioia Tauro che entrerà in funzione come terminal di trasbordo dei container nel 1994.

I moti di Reggio sono forse l’esempio più lampante di un fattore che ha sempre influenzato, ieri come oggi, il sistema politico nazionale: una logica localistica sostenuta in maniera consociativa. Come dimostrano i volantini e i manifesti distribuiti durante la protesta: sia i neofascisti, sia i comunisti si rivolgono sempre e soltanto ai «cittadini» di Reggio quali tutori degli «interessi della città». La necessità dei partiti di governo di rispondere alle mille rivendicazioni settoriali e territoriali, che subiscono un’accelerazione con la nascita delle Regioni, sarà uno dei principali motivi di ostacolo al funzionamento della programmazione come cabina di regia nazionale a cui è affidato il compito di orientare, nelle diverse aree del Paese, lo sviluppo economico.

Il timore di essere marginalizzati ed esclusi dal benessere diffusosi negli anni boom alimenta un’angosciosa competizione tra territori per assicurarsi i benefici offerti dalla mano pubblica, una lotta ancor più drammatica se si considerano le condizioni di povertà della Calabria. Come ha spiegato il sociologo Piero Fantozzi, il decentramento regionale ha paradossalmente messo in evidenza gli squilibri strutturali interni alle regioni, aggiungendo al tradizionale dualismo Nord-Sud un ulteriore gradiente differenziale nella già complicata “questione meridionale”: la spietata concorrenza delle Regioni meridionali verso lo Stato centrale, e, a seguire, delle province e delle città capoluogo verso le Regioni.

L’autonomia regionale impone la ridefinizione dei meccanismi di brokeraggio tra leader nazionali e capicorrente locali. La tradizionale territorializzazione delle pratiche clientelari, fino ad allora gestite in un rapporto verticale tra centro e periferia, è scaricata sul neonato ente sotto forma di alleanze inter-locali, in virtù di una lotta fratricida tesa all’accaparramento di fondi, che esasperano tensioni già presenti.

La rivolta di Reggio, in definitiva, è il caso più estremo di un problema meridionale che tuttora viviamo: l’incapacità, nonostante le deleghe trasferite e le risorse amministrate, di formare, attraverso il mandato istituzionale, una classe politica regionale slegata, finalmente, dai vizi del localismo.

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