Il sogno di Anna e Vulkan: “Vorrei vivere di musica. Liberato? Ha rilanciato il napoletano come lingua musicale”

Anna and Vulkan, nome d'arte di Anna Scassillo, classe 1996 da Torre Annunziata ma trasferitasi a Vienna ha pubblicato lo scorso 5 luglio 2024 il suo primo Ep Andare, tornare, al cui interno è possibile trovare un pezzo come Scurò. Mentre lo scorso 1° maggio è stata una delle sorprese del Concertone, in cui ha presentato il suo singolo Periodo Particolare. Il suo ultimo singolo, pubblicato il 26 settembre, si intitola Quante lacrime. Vulkan è un chiaro riferimento, in tedesco, al Vesuvio, mentre il dialetto diventa "una risorsa artistica enorme: mi permette di dire cose che in italiano suonerebbero strane, ma che in napoletano risultano naturali. Il legame con Napoli passa molto da lì: dal dialetto come strumento espressivo". Qui l'intervista ad Anna and Vulkan.
Cosa racconta Periodo particolare?
Questo brano rappresenta l’apertura del nuovo album, l’ho pensato proprio come primo approccio, e sono contenta sia stato il primo ad uscire, perché spiana la strada a ciò che verrà dopo. A livello sonoro, ci sono altri pezzi che richiamano questo stesso "periodo particolare", ma anche brani più simili a quelli usciti l’anno scorso, e altri ancora che esplorano sonorità diverse.
C'è un passaggio del brano in cui parli dei trent’anni. Ti stai trovando a fare una sorta di bilancio, sia musicale sia personale? Queste riflessioni entreranno anche nel nuovo progetto?
Sì, decisamente. Nei brani in uscita c’è una maturità diversa rispetto a quelli dell’anno scorso, non solo per una questione d’età, ma proprio a livello di ricerca musicale. Quanto al tema dei trent’anni è qualcosa a cui penso da tanto. Già a 22 anni vedevo quel traguardo come una sorta di passaggio dalla giovinezza all’età adulta. Ora lo vivo meglio, forse perché ho trovato un equilibrio tra ciò che voglio fare e ciò che posso fare. Prima mi sembrava di fare cose che non mi rappresentavano pienamente.
Cosa ha influito maggiormente?
L’ingresso della musica nella mia vita mi ha cambiato: mi sento meglio, sento di vivere qualcosa che è davvero mio, che amo fare, a prescindere dal fatto che sia un lavoro o meno. Credo che molti della nostra generazione si sentano provati da queste tematiche. C’è una forte pressione sociale legata al tempo che passa e agli obiettivi che ci si aspetta da noi — comprare casa, sposarsi, avere figli — tutte cose che spaventano, anche perché quasi nessuno che conosco si sente davvero pronto. La canzone parla anche di questo: della consapevolezza che, secondo la società, dovremmo seguire un percorso lineare, ma oggi non è così semplice. I modelli dei nostri genitori non sono più così applicabili, e siamo tutti un po’ allo sbaraglio, cercando di vivere una vita che ci rappresenti davvero.
Un altro aspetto che mi incuriosisce è come convivano in te il lavoro e la musica. Si influenzano? E il tuo background nel design ha un impatto anche sulla tua comunicazione musicale?
Al momento, da alcuni mesi, mi sto dedicando esclusivamente alla musica. Fino ad ora, per due anni, ho portato avanti entrambe le cose ed è stato piuttosto pesante. Fare un lavoro d’ufficio dalle 9 alle 17 e poi passare alla musica — che invece non ha orari — è impegnativo. Devo dire che la musica mi dà molte più soddisfazioni personali. Sono comunque fortunata: ho avuto un lavoro che mi piaceva, nel campo del design, e vorrei proseguire in quel settore, magari come freelance, perché non amo molto le dinamiche gerarchiche di certe aziende. Sul piano della comunicazione musicale ho sempre tenuto le due sfere separate, ma ovviamente il mio background di design entra in gioco nella cura dei progetti visivi: copertine, visual che accompagnano i brani. Mi piace avere una visione artistica completa e collaborare con fotografi, videomaker, ecc.
Facendo un passo indietro: come ti sei avvicinata alla musica? So che vieni da una famiglia in cui quasi tutti fanno musica. Hai un ricordo del tuo primo approccio?
Sì, mio padre è musicista professionista (Ignazio Scassillo ndr), e anche mio fratello sta seguendo un percorso al Conservatorio. Io mi sono avvicinata alla musica attorno ai 13-14 anni. Mio padre aveva provato a coinvolgermi prima, ma non ho mai studiato seriamente teoria musicale — sto iniziando solo ora. La mia è una conoscenza molto istintiva, “di stomaco”. A 14 anni mi appassionava la batteria, e ho iniziato a suonarla con alcuni compagni di classe, poi ci siamo divisi in un gruppo più ristretto e abbiamo cominciato a scrivere brani nostri: quella è stata la mia prima esperienza con la musica originale. Ero batterista, poi ho iniziato a strimpellare la chitarra e ora la sto studiando seriamente. Mi sto avvicinando anche alla produzione.
Hai un aneddoto legato a quel periodo, un momento in cui hai pensato che la musica potesse essere qualcosa di più di un semplice hobby?
Sì, ricordo il bassista del gruppo, che era un po’ più grande di noi, già all’università. Una sera, uscendo dallo studio, era super entusiasta e disse: "Dai, proviamoci, voi nemmeno ci dovete andare all’università!". (ride ndr) È rimasta una cosa nostra e ci siamo divertiti tanto.
Vieni da Torre Annunziata e volevo chiederti: com’è stato crescere in provincia? Come ha influito questo contesto sulla tua musica?
In realtà la provincia mi è sempre stata stretta. Già al liceo sapevo che all’università sarei andata via. Non mi piaceva stare in un contesto così piccolo, dove si conoscevano tutti. Ho iniziato l’università a Napoli, all’Orientale, poi mi sono trasferita a Trieste. Napoli per me è stata una scoperta: un mondo completamente diverso. Paradossalmente, mi sentivo più a casa lì che a Torre Annunziata, che però negli ultimi anni ho rivalutato. Napoli ha una decadenza che affascina, ma trasmette tantissimo. Forse perché è stato il primo luogo in cui mi sono sentita davvero accolta. La provincia spesso è limitante, e io non vedevo l’ora di andarmene. Ora, invece, Torre è solo il posto dove torno, non ha più un impatto forte sulla mia vita.
Musicalmente parlando, Napoli è un luogo accogliente, un crocevia di culture. Come ti sei rapportata alla scena musicale napoletana?
Quando vivevo lì non ho vissuto granché la scena musicale. L’accoglienza è stata più personale: era la prima volta che vedevo persone coi capelli colorati, dieci anni fa a Torre Annunziata non era comune. Musicalmente ho scoperto qualcosa di più quando ero già a Trieste. Ricordo che ho ascoltato Liberato e all’inizio ero un po’ disorientata: era qualcosa di completamente nuovo. Dopo Pino Daniele, la musica napoletana era andata in direzioni diverse — soul, neomelodico. Liberato invece ha portato un progetto moderno, elettronico, in dialetto. Mi ha colpito tantissimo. Ha anche permesso ad altri di riscoprire il napoletano come lingua musicale. Prima di lui, la musica elettronica in napoletano non era mainstream.
Ti sei allontanata dalla tua città: la musica è diventata un modo per restarne legata? Cantare in napoletano ha un significato in questo senso?
Sì, assolutamente. Dopo essere andata via ho iniziato a sentire molto la mancanza di casa. Credo che ciò che mi lega di più a Napoli sia proprio la lingua. È un’altra lingua, oltre all’italiano, ed è una fortuna poterla usare. A livello metrico è molto diversa e permette espressioni che l’italiano non ha. È una risorsa artistica enorme: mi permette di dire cose che in italiano suonerebbero strane, ma che in napoletano risultano naturali. Il legame con Napoli passa molto da lì: dal dialetto come strumento espressivo.
In questo momento il dialetto sta perforando la barriera della comprensione?
Sì, secondo me è così, anche perché vedo che stanno emergendo tantissimi dialetti, non solo quello napoletano, e lo trovo bellissimo. È vero che la comprensione del testo gioca un ruolo importante quando si ascolta una canzone, ma la musica ha comunque la straordinaria capacità di emozionare anche quando non si capisce nulla di ciò che viene detto. Lo stesso accade con la musica spagnola o francese. Io, per esempio, sono una grandissima fan della musica turca. Non capisco una parola, ma mi piace tantissimo. Trovo positivo anche l’uso dei dialetti nella musica, perché in una canzone esistono diversi livelli di comprensione, non solo quello linguistico. È importante superare lo stigma che in Italia ancora circonda i dialetti e iniziare a considerarli un patrimonio culturale, più che una barriera o un indice di ignoranza.
Volevo tornare è la questione della riconoscibilità. C’è stato un momento, nella tua esperienza musicale, in cui hai sentito di aver fatto un passo avanti?
Sì, Scurò è stata una delle canzoni pubblicate con questo progetto, e sicuramente ha rappresentato un punto di svolta. Le canzoni che avevo pubblicato in precedenza, anche con il mio gruppo, si muovevano su un piano completamente diverso. Sono molto felice che sia stata notata, mi ha dato una grande spinta per continuare. Mi ha motivata tantissimo. Sono contenta che la musica continui a uscire e sono anche molto curiosa di capire quale direzione prenderà in futuro. Penso che sia qualcosa che non si possa prevedere.
Com’è stato interfacciarsi con situazioni come Miami e Concertone per la prima volta?
Non si arriva mai davvero pronti, si arriva e basta. Nel mio caso è stato così: ci sono andata e l’ho fatto. A volte ci sono anche tempi molto lunghi di preparazione, ma sono comunque esperienze bellissime che lasciano ricordi indelebili. Sono momenti importanti, da vivere al massimo.
E l’emozione di stare su quel palco? Hai una data, tra quelle recenti, che ricordi particolarmente?
Il Primo Maggio è stato molto stressante. Ero nervosissima, e anche i ragazzi con cui suonavo lo erano. Abbiamo fatto tantissime prove, eravamo carichi, ma quando ti trovi davanti quel mare di persone è quasi disumanizzante. Nei primi cinque minuti non capivo cosa stesse succedendo. Invece, se penso alla data di Napoli, a giugno, quella è stata la più bella in assoluto. È stata la prima volta in cui ho realizzato davvero dove mi trovavo: sul palco del Palazzo Reale, davanti a un pubblico che conosceva le mie canzoni. Mi sono sentita a casa. C’era meno gente rispetto al Primo Maggio, ma erano persone lì proprio per me, e questo fa una grande differenza. Ovviamente l’importanza e il prestigio del Primo Maggio sono indiscutibili, ma a livello umano un concerto più piccolo può lasciarti qualcosa di altrettanto profondo, se non di più.
In questo momento, hai un desiderio musicale che speri si realizzi nei prossimi mesi o anni? Un piccolo sogno?
Forse il desiderio più grande è riuscire a vivere di musica. Non solo attraverso il mio progetto personale, ma anche collaborando con altri. Non saprei dire esattamente in che modo, ma sì, riuscire a vivere interamente di musica sarebbe il mio sogno.
Restando a Vienna o tornando in Italia?
Questa è una domanda a cui, sinceramente, non so ancora rispondere (ride ndr).