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Giacomo Papi a Fanpage.it: “Ridere della pandemia? È necessario per capire cosa stiamo diventando”

A un anno dalla pandemia lo abbiamo capito, non c’è niente da ridere, proprio perciò bisogna saperlo fare, con umorismo e intelligenza, facendosi domande, senza avere fretta delle risposte: Cosa spinge gli italiani a odiare gli intellettuali? Perché la politica non guarda ai giovani ma li colpevolizza? Possibile che il Ceo di Netflix sia più progressista del Pd? A cosa serve un libro? Lo abbiamo chiesto a Giacomo Papi, autore del romanzo “Happydemia”, che immagina un mondo parallelo (ma non troppo) preda di una strana pandemia, dove a muoversi sono i delivery dei riders, sì, ma degli psicofarmaci.
A cura di Stela Xhunga
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A un anno dalla pandemia lo abbiamo capito, non c’è niente da ridere. Le persone continuano a morire a grappoli, gli ospedali sono periodicamente allo stremo, nei condomini non c’è pace, i tribunali scoppiano di cause civili, i conti correnti hanno sempre meno zeri, la gente si parla con le dita negli occhi, ovunque il conflitto è permanente, la necessità di guadagnarsi il pane è motivo di strazio per molti, ci si azzuffa per farsi il vaccino per primi, ci si azzuffa per non farselo proprio. “Là fuori c’è la morte” ma proprio per questo è necessario saperlo fare: ridere. Con umorismo e intelligenza, demistificando e mai demolendo, facendosi domande, senza avere fretta delle risposte, come ha fatto lo scrittore e giornalista milanese Giacomo Papi nel suo ultimo libro, “Happydemia”, in cui immagina un mondo da anni alle prese con una strana epidemia dove prospera una multinazionale che consegna psicofarmaci. Con i suoi 70milioni di rider che consegnano in 116 nazioni, Happydemia è la più grande “multinazionale di psychodelivery” del globo. Psicofarmaci, inibitori, tranquillanti, sedativi… tenere a bada le persone è complicato in pandemia.

In piena pandemia fare satira sulla pandemia è una scelta coraggiosa. Forse persino provocatoria.

Siamo così abituati all’idea che la satira sia una forma di bullismo sugli altri da avere dimenticato che la satira è uno specchio per vedere sé stessi. Quando Jonathan Swift nel 1729 scrive “Una modesta proposta” in cui esorta a mangiare i bambini poveri per combattere la carestia in realtà sta già dentro le conclusioni logiche della società a lui contemporanea, sta dicendo “guardate che stiamo diventando questa cosa qua”. È un ruolo che durante l’epidemia hanno svolto i meme, che per quanto siano stati fondamentali per tenere in piedi questo sguardo, sono istantanei e in genere non permettono un discorso più stratificato. L’umorismo e la satira sono strumenti di conoscenza e l’epidemia si sta rivelando una lente di ingrandimento per capire quello che stavamo già diventando ma che non riuscivamo a vedere.

Cosa non riuscivamo a vedere?

Per esempio la divisione di classe tra chi per lavorare deve muoversi e chi no. L’assoluta incapacità della politica di parlare dei nostri bisogni profondi, dei corpi, dei baci, dell’amore, della morte, del sonno. Di ciò che è umano e a cui rispondono in maniera vincente i giganti del web. In un certo senso gli algoritmi sono più politici dei politici perché rispondono ai nostri bisogni più della politica. L’altra divisione gigantesca, esplosa con l’epidemia, è quella tra giovani e vecchi. Questa è la prima generazione da 100 anni a cui si mette sulle spalle la responsabilità del mondo e si dice “voi potete uccidere i vostri genitori e i vostri nonni”, che è un messaggio violentissimo. E secondo me i ragazzi hanno risposto meravigliosamente.

E però si continua a colpevolizzarli, perché?

Perché sono il capro espiatorio perfetto. Una cosa che nessuno dice è che da ormai 10 anni l’editoria sta in piedi perché i ragazzi leggono molto più dei vecchi. Li si accusa di stare attaccati al cellulare, invece i vecchi ci stanno quanto i giovani. Si dice che i giovani si rincoglioniscono davanti a Youtube e però il livello della televisione italiana generalista è forse più basso, di sicuro non più alto.

Perché la politica ha smesso di guardare ai giovani?

Perché sono numericamente in minoranza. Una volta i giovani erano tanti e pesavano, ora sono pochi e pesano di meno nelle scelte e nelle decisioni della politica. In questo senso la proposta di abbassare il voto a 16 anni, anche se non cambia sostanzialmente le cose, è un passo in avanti.

Crede che i giovani siano consapevoli di questo?

Da un lato sì, dall’altro non riescono reagire e se lo fanno usano strumenti scivolosi, ad esempio ora su Tik Tok sono convinti di fare una rivoluzione perché ignorano quanto siano usati da Tik Tok, pensano che quel mondo lì sia loro e che ne siano padroni. I giovani si comportano in modo virale e per il marketing sono fondamentali. Mi piacerebbe tornassero a esserlo anche per la politica.

Quando ha scritto “Happydemia” c’era ancora Giuseppe Conte al Governo e nel libro lo troviamo trasfigurato nel “Previdente del Consiglio”. La prima immagine sua è lui che si rimira i piedi nella vasca da bagno. Un Conte un po’ feticista.

La satira ha questo, che basta cambiare nome perché una figura particolare diventi archetipica, un modo di incarnare il potere. Non mi interessava condannare Conte, che per me non ha fatto peggio di altri, anzi, mi interessava capire come il potere può essere gestito e rappresentato oggi.

Le va di fare un piccolo esercizio di scrittura?

Proviamoci.

Nel romanzo come sarebbe stato il “Previdente del Consiglio” se al Governo ci fosse già Mario Draghi?

Mi sembra che l’autorità di Draghi per ora si propaghi dal suo silenzio, dalla capacità di dire poche cose semplici con frasi e parole semplici: soggetto, predicato, complemento. In un mondo in cui tutti urlano e scalpitano per farsi sentire e vedere, mostrare che non se ne sente il bisogno è una forza. Temo che diventerà debolezza se nella realtà non arriveranno risposte, per esempio nella velocità dei vaccini. Sì, forse, lo immaginerei così, come uno che continua a tacere ammaliando tutti, finché tutti si incazzano.

E poi c’è Pitamiz, CEO e Fondatore della multinazionale degli psicofarmaci. A chi si è ispirato per il suo personaggio?

Per chiarirmi il personaggio ho dovuto intervistarlo in un esercizio di scrittura. Ho visto che rispondeva bene e mi faceva fare la figura dello scemo, “questo è molto più intelligente di me” ho pensato. E infatti l’intervista è nel libro. È il cattivo, ma è anche l’unico che ha una visione. Entra nell’unico spazio che è lasciato libero alle persone, l’unico punto che non è commercializzato, il sonno. L’idea della “riforma del sonno” sembra la parte più distopica, ma in realtà già viviamo una riforma del sonno, la stessa alternanza dei cicli di 8 ore di lavoro, 8 di consumo e 8 ore di sonno si sta modificando, il tempo si è polverizzato, si chatta lavorando. Il consumo, la produzione e il riposo si sono completamente fusi, integrati. La frase “il nostro unico competitore è il sonno” è illuminante, ma a pronunciarla è stato il CEO di Netflix, non il capo di un partito progressista. Pazzesco che per la politica non sia un tema. Dobbiamo liberare il lavoro delle donne e anche degli uomini, per permettere di curare i figli e lavorare, ok, esiste il part-time, sì ma è una cosa diversa. Io spero che anche i cosiddetti “padroni” capiscano che se la gente non rimane incatenata alla sedia 8 ore non è che lavora di meno. 

In “Happydemia” la gente pur di ricevere psicofarmaci chiama il delivery, nella realtà la paura dei vaccini sta prendendo la meglio.

Come avevo previsto, nel mondo c'è stato il boom degli psicofarmaci. I vaccini sono una cosa diversa: si basano sull’idea che rimanere sani occorra farsi contaminare dalla malattia. Sono convinto che alla base della paura dei vaccini ci sia una paura più profonda che riguarda il modo in cui pensiamo noi stessi, l’idea che per rimanere al sicuro sia meglio non incontrare il male e il diverso, invece di comprenderlo e ospitarlo. È lo stesso meccanismo del razzismo, se ci pensa.

Attilio, il nonno del protagonista Michele, il diciannovenne che si improvvisa rider di psicofarmaci pur di uscire di casa, per esortarlo a stare a casa gli dice “tanto tu hai il futuro davanti”. Ma c’è futuro in Italia per un ragazzo di 19 anni?

Credo che i giovani non immaginino un futuro migliore, la dimensione del presente è così pervasiva e piena di stimoli che è come se non riuscissero più a desiderare. I giovani come anche i poveri.

I desideri si disperdono tra i tanti stimoli?

Sì, si soddisfano attraverso cose piccole e così si neutralizzano, si anestetizzano.

Il rischio che un giovane a questo punto commenti “ok boomer” è dietro l’angolo.

Certo. Talvolta mi capita di pubblicare un articolo e leggere sotto “ok boomer” scritto da qualcuno che magari nemmeno ha aperto il link. È una forma di razzismo basato sull’anagrafe, però lo capisco, sta dentro una dinamica di opposizione esasperata dalla pandemia. “Voglio vivere, Michele” dice il nonno, “voglio vivere anche io” gli risponde il nipote, solo che per uno vivere significa stare a casa, per l’altro significa uscire di casa. Mi sembra incredibile che di questo problema non se ne siano ancora occupati né la politica né gli intellettuali.

Ah, esistono ancora gli intellettuali in Italia?

Esistono. Ma anche loro spesso tendono a chiudersi in bolle e a parlare dal pulpito come se fossero i sacerdoti di una religione che si sta estinguendo. Sono anche loro vittime della mancanza di immaginazione di un futuro, ma esistono.

Fino almeno agli anni Settanta “intellettuale” era un sostantivo, una parola piena, bastante di per sé, che indicava l’esercizio di una funzione per la collettività, oggi è poco più che un aggettivo dispregiativo. Perché gli intellettuali sono tanto malvisti dagli italiani?

Era il tema del mio libro precedente, “Il censimento dei radical chic”. In parte la responsabilità è degli intellettuali – alcuni – che usano la cultura per comunicare tra loro invece che per comunicare con gli altri. Poi, certo, veniamo da sessant’anni di pace, è normale che anche gli intellettuali si siano acquietati, perdendo la fame e la furia di un tempo. E così sono diventati un altro capro espiatorio. Dietro l’accusa agli intellettuali di essere radical chic c’è un’idea molto di destra: quella per cui chi non ha studiato o è povero non possa apprezzare la bellezza e aspirare alla complessità e che, quindi, vada nutrito con cibo culturale bassissimo. È un’idea miope, e principalmente di destra, anche se l’innamoramento di Nicola Zingaretti per Barbara D’Urso dimostra che dilaga anche a sinistra. Essere popolari non vuol dire essere beceri. Ogni giorno vediamo come le novità sono capite prima dai giovani e dagli ignoranti che dai ricchi. Mio nonno aveva fatto la terza elementare, ma sapeva recitare l’Amleto a memoria.

A costo di risultare banali: A che cosa serve un libro?

Un libro serve a capire che le persone si assomigliano. Ti costringe a vedere che sei in qualche modo fratello e sorella di esseri umani di luoghi ed epoche diverse. E questa è una ricchezza che ti dà la letteratura e poco altro, non è sostituibile, perciò sono convinto che i romanzi non possano lasciare ai meme o alle serie tv tutto il racconto del presente.

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