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Chi è TonyPitony, virale con Culo: “Whoopi Goldberg mi scartò da Sister Act. Rivoluzionario? Sono solo un personaggio”

TonyPitony è una maschera da rincorrere, uno showman prestato alla musica, amante del corpo come stimolo di desiderio e risata, ma anche d’invidia. Qui l’intervista all’autore di Culo, ancora in top 10 della Viral 50 Italia.
A cura di Vincenzo Nasto
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Tony Pitony, 2025
Tony Pitony, 2025

TonyPitony è tutti e nessuno, è la golardia sul palco che depotenzia la retorica emotiva dell'industria discografica, a tal punto da ribaltarla. Il cantante di origini siciliane è da mesi, non solo su molti palchi in Italia, ma anche nella top 10 della classifica Viral 50 Italia con brani come Culo, Giovanni, che appartengono al suo primo progetto TONYPITONY. In quest'intervista racconta il suo amore per il teatro, gli studi londinesi e le avventure con le compagnie teatrali nei castelli scozzesi. Il rifiuto della coerenza, l'amore per il corpo "perché stimola il desiderio e la risata, ma anche l'invidia": il racconto della sua esperienza a X Factor e la scelta della maschera Elvis. Qui l'intervista a TonyPitony.

Chi è TonyPitony?

Non esiste solo un TonyPitony, ma un gruppo di persone attorno a questo progetto.

Come si avvicina la musica alla "maschera" di TonyPitony?

Il primo incontro è stato a un campo estivo: c'era chi cantava, ballava e recitava. Io fui scelto per cantare una canzone molto breve, a mo' di Zecchino D'Oro. Uno degli animatori si accorse che ero portato al canto e mi portò a registrare una sigla per i villaggi di un noto gruppo alberghiero in Italia: non so che fine abbia fatto.

Poi?

Alle medie ebbi un professore che ricorderò per sempre, un grande. Riuscì a farsi stanziare dei fondi dall’Unione Europea per comprare strumenti e dare la possibilità ai ragazzi di fare musica il pomeriggio. Non il flauto, che è una merda.

Quali strumenti allora?

Io ho provato il pianoforte, il violino, l’oboe, il sassofono. Quest'ultimo mi era piaciuto da subito, ha un suono bellissimo.

Prima volta in pubblico?

Ho fatto parte della banda di paese, andavo a tutte le processioni, anche quelle cattoliche. Poi purtroppo l'ho lasciato a Londra in primo superiore e l'ho ripreso a Londra. Poi anche attraverso gli sketch comici mi sono avvicinato al teatro.

Quando hai iniziato?

In realtà abbastanza tardi, tra i 16 e i 17 anni: lì ho imparato a usare il corpo, il fiato e poi c'era tanta musica. Cominciai a fare rappresentazioni teatrali e musical, ma sempre in provincia. Finché vado a fare uno stage vicino a Ostuni, dove vengo notato e mi viene consigliato di entrare in qualche accademia in Italia.

Come ti ritrovi poi a Londra?

Attraverso un ragazzo, Filippo, un fenomeno già a 17 anni. Mi consigliò di andare a Londra ed entrare nell'accademia che frequentava, per non elemosinare lavori in Italia. Non lo ringrazierò mai abbastanza.

Tu conoscevi l'inglese?

Assolutamente no, comincio a studiare ciò che mi serviva per fare il provino: un monologo e una canzone. Arrivo lì e non capisco assolutamente nulla, non avevo mai studiato inglese e impressiono la direttrice dell'accademia. Mi disse che avevo vinto la borsa di studio, senza consultarsi con gli altri, ma io non l'avevo capito. Mi arriva a casa la lettera qualche settimana dopo, con una borsa di studio totale. Non me lo sarei mai potuto permettere.

La prima immagine di Londra?

Il primo incontro con il mio agente lì, un colosso nelle produzioni del West End. Lì ho capito che il teatro, anche se pieno di intuizione e bellezza, è pur sempre un’industria. Mi mandava a fare audizioni senza conoscermi, senza capire davvero cosa volessi fare e cosa no. Incomincia a girare in una compagnia in cui interpretavamo composizioni e arrangiamenti di dischi diversi, però sempre con il canto lirico. Fino alla svolta "particolare".

Particolare?

Quel termine lo utilizzava il mio agente per descrivere un ruolo da macchietta, da italiano all'estero o eccentrico: pensa che mi aveva pagato un corso di dizione per riuscire a ottenere più lavori possibili. Ma questo nuovo tipo di lavoro fu la svolta: una follia vittoriana.

In cosa consisteva?

C’era questa compagnia formata da tre attori e tre attrici, e giravamo per i castelli scozzesi. Gli spettacoli erano riservati esclusivamente all’alta borghesia e alla nobiltà scozzese. Lì ho avuto la possibilità di conoscere anche Arturo Brachetti, ci siamo scambiati delle storie, anche perché si vive una situazione surreale lì, quasi assurda.

Perché?

Lì mi sono reso conto di quanto l’oscenità, per quella categoria di persone, fosse apprezzata. Noi non facevamo altro che parlare di tutto, anche in modo volgare e diretto. Facevano apprezzamenti indesiderati, una volta guardarono il fidanzato nero di una collega e le chiesero se fosse Tom Cruise dello Zimbabwe. Erano persone arricchite, incapaci di contestualizzare, perché non avevano mai vissuto niente.

C'è qualcosa che ti ha convinto a tornare in Italia?

C'è un piccolo episodio e riguarda un'audizione per il musical di Sister Act: tra i giudici per i provini c'era anche Whoopy Goldberg. Faccio la miglior audizione della mia vita, ma dopo due giorni, il mio manager mi dice che non mi prendono perché ero troppo basso. Da lì ho detto basta. So quanto valgo, e da quel momento ho deciso che avrei mostrato solo ciò che sentivo veramente potente. Non credo più a certi amori, a certe retoriche poetiche: io credo nella carne, nel reale. Ho vissuto 6 mesi di lockdown, poi sono ritornato definitivamente.

E perché l'uso della maschera in Italia?

È un prolungamento del mio corpo, una proiezione. Per me il corpo è fondamentale perché stimola il desiderio e la risata, ma anche l'invidia. Poi se ci pensi, il mondo è pieno di cantanti con una voce mediocre ma che intrattengono migliaia di persone col loro modo di stare sul palco, di parlare o di sentire la musica. E allora nasce il personaggio, e io godo quando le persone non capiscono che è solo un personaggio, perché in quel momento diventa tutto reale, si rompe la quarta dimensione.

Quale credi sia stato un elemento per cui TonyPitony è arrivato a essere, con più brani, nella top 10 dei brani più ascoltati in Italia su Spotify?

Essere andato dalla parte opposta: negli scorsi giorni ho letto una recensione con cui sono totalmente d’accordo: diceva che se avessi cantato di "margheritine" non mi avrebbe chiamato nessuno. Non perché non sia bravo, ma perché non sono figo come certi altri. Per me non serve mascherarsi, ma solo creare qualcosa di nostro. Non sono un rivoluzionario, anche perché ho vissuto l'industria e ho capito che è una merda. Ma lo faccio per creare la mia arte, qualcosa che posso condividere con le persone che amo.

Come riesci a gestire, per adesso, il rapporto con il pubblico?

Riesco a conviverci in maniera piena: è capitato più volte di andare a mangiare assieme, di fare tornei di briscola. Credo nel rispetto che hanno nei miei confronti e non li vorrei mai più lontani di quanto siano adesso.

E invece il rapporto con la Sicilia?

Provano la retorica di "figlio del sud", ma li smentisco sempre. L’amore per la propria terra è bellissimo, ma anche limitante. Ogni regione ha la sua merda. Io non sono siciliano per scelta, ci sono nato. Se avessi potuto scegliere, sarei nato alle Hawaii, a pescare nell’oceano.

Mi parli anche della tua apparizione a X Factor?

Ero in Inghilterra, lavoravo all'epoca e un mio amico mi iscrisse alle audizioni. Mi presentai prima con un brano di Piero Ciampi, Adius, in cui mandavo a fan*** i giudici. Poi con Hallelujah. All'epoca non volevo essere riconosciuto, per questo motivo decisi di indossare una maschera. Ma anche quell'esperienza doveva essere una performance teatrale.

Perché Elvis?

Ne ho comprato tre: quella del fantasma dell’Opera, quella bianca e la veneziana. Quella di Elvis era semplicemente il male minore.

Desideri per il futuro?

Attraverso l'intelligenza artificiale, far credere che Elvis non sia mai morto. Ah e mandare altre persone a fare interviste al posto mio. (ride ndr)

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