video suggerito
video suggerito

Charlie Charles: “Ero primo in tutto, ma vuoto dentro. Sfera? Lo sento distante, ma dovevo darci una possibilità”

Charlie Charles, colui che ha dato suono alla trap, racconta La bella confusione, disco nato come ricerca personale: attraverso altri artisti esplora sé stesso, il cambiamento e il dolore, accettando complessità e autenticità. Nell’intervista parla della fama, del rapporto con Sfera Ebbasta e delle loro differenze, del vero sé e di come avere il potere non gli ha mai dato soddisfazione.
A cura di Francesco Raiola
0 CONDIVISIONI
Charlie Charles e la copertina de La bella confusione
Charlie Charles e la copertina de La bella confusione

Charlie Charles è la mosca bianca della trap italiana, un artista che ha scritto la storia della musica italiana di questi ultimi anni. Uno dei produttori più imitati, cercati, invidiati, colui che ha collaborato al successo di tantissimi artisti – i suoi Bimbi, per citare il suo primo album – ma che con Sfera Ebbasta ha rappresentato per la GenZ quello che per i loro genitori hanno rappresentato Battisti e Mogol. La bella confusione è il suo ritorno in formato album, e ritroviamo un Charlie – il cui vero nome è Paolo Alberto Monachetti – molto introspettivo, più "pop" – che non ha alcuna accezione negativa – sicuramente più dark. Parlandogli si coglie il divario che lo separa da un pezzo importante del rap italiano, di quella generazione che ha cambiato le carte del rap e della musica italiana di questi ultimi anni. Non prende le distanze dal passato – che pure gli ha regalato tantissime gioie e anche qualche dolore – ma oggi è cresciuto e forse eravamo noi a non accorgerci che era altro. Spesso abbiamo confuso Paolo con Charlie e Charlie con la sua musica, mentre quest'album è una seduta di analisi. È vero, è una cosa che si sente spesso degli album più introspettivi, eppure questa volta non c'è alcuna retorica. Charlie parla di sé facendosi aiutare da artisti come Ernia, madame, Nayt, Massimo Pericolo, Mahmood, Bresh, Blanco, Elisa e Sfera Ebbasta, che non doveva essere i quest'album – le loro vite, oggi, sono su strade molto diverse pur restando come fratelli – ma ci arriva grazie a Geolier. Parlare con Paolo è confrontarsi con un artista che ha messo le mani nel camnbiamento musicale di questi anni, ma anche con un uomo cambiato, anzi, in costante cambiamento, che non risponde per frasi fatte, ma si prende il tempo di riflettere. E parlando del successo ottenuto risponde schiettamente: "Non me ne frega un cazzo, io volevo solo far la musica".

Ogni ospite del disco canta di sé, ma in qualche modo sembrano parlare pure di te: quanto c'è di Charlie/Paolo in quelle parole?

È un lavoro che nasce prima di tutto da una ricerca, a partire da chi coinvolgere. Non tutti gli artisti – o meglio, non tutte le persone nel mondo artistico – sono vicine a me per sensibilità, per tipo di umanità. Quindi ho fatto una sorta di scrematura e ho pensato: "Ok, questa persona può dire qualcosa che parla anche di me". Quando poi arrivavano in studio, non c’era un momento in cui dicevo: "Adesso per favore parlate di questo tema". Era un processo più sottile, implicito. Io raccontavo cos'era La bella confusione, e da lì ognuno tirava fuori ciò che sentiva giusto. Credo che la magia del disco sia proprio questa: riuscire a raccontare tante sfaccettature di me attraverso le storie degli altri.

Cosa rappresenta quell'equilibrista sulla copertina?

È un tema che torna spesso, anche nel brano Ti chiamo l’amore, con Elisa e Madame: come si fa a vivere con tutte queste complessità? Mantenere quell’equilibrio così sottile è un lavoro continuo, un'attenzione costante verso sé stessi e verso il presente. In quella canzone Elisa e Madame interpretano Paolo e Charlie, non è dato sapere chi dei due è chi, però mi piace pensare che uno dei due personaggi stia male e l’altro lo inviti ad accettarsi per quello che è, a trovare la forma più pura dell’amore: l’accettazione che ti permette di essere libero.

Da cosa?

Dal giudizio, dal male, anche se sembra una cosa di Chiesa.

Parlavi prima del giudizio: quali sono quelli che ti pesano di più? 

Fai bene a parlare al plurale perché c'è quello personale e quello esterno. Sicuramente quello personale è quello che mi flagella di più. Da un lato mi spinge a fare le cose e a farle in grande, ma dall’altro è soffocante, senza fine, a volte straziante. Il giudizio esterno, invece, difficilmente mi tocca. Forse perché il mio è già così pesante. E poi penso che il giudizio degli altri dica molto più di chi lo esprime che di chi lo riceve.

Quando Sfera canta "Ero più felice quando non c’era un motivo", sembra il racconto di uno a cui non manca certo quello che era prima del successo, ma a cui manca un pezzo di quella vita là. Ti ci ritrovi?

No, anzi. Con certezza ti dico che non darei nulla per tornare indietro. Non perché oggi ho successo o soldi, ma perché quella era la felicità di una persona inconsapevole. Oggi il mio obiettivo è stare bene con tutta la mia complessità.

Paolo mi ricorda Dubbi di Marracash, forse mi sbaglio.

Penso che con Fabio ci siano sicuramente delle sensibilità molto simili. C’è un tema umano che, secondo me, è universale: non riguarda solo me o lui, ma un po’ tutti. Per questo dico che, come lui prima di me, ho sentito il bisogno di tirare fuori certe cose e metterle a disposizione, quasi come uno specchio in cui anche gli altri possano riconoscersi. Poi, certo, non è detto che ci si ritrovi sempre, ma credo che sia bello offrire quella possibilità.

Com'è nata in studio Una volta in più, che prima di Sfera era con Geolier?

Incontro Emanuele nel 2022, in studio da me, ma senza aspettative. Era semplicemente un’occasione per fare musica, un incontro conoscitivo. Abbiamo scritto anche diversi brani in quel periodo. In una di quelle volte è uscito proprio questo pezzo, in cui ho cercato un po’ di spronarlo. Quel brano nasce fuori dal racconto del disco, non doveva farne parte. Gli ho detto: "Senti Manu, ma perché non proviamo a spingerci un po’ oltre?". Io ero già molto indirizzato musicalmente verso una cosa più suonata, più acustica. Lui cercava da me qualcosa di diverso: brani più trap, più vicini a quel mondo.

Quindi nasce un po’ come un gioco tra voi?

Esatto. È nato proprio come un gioco, come un esercizio. Gli ho detto: "Senti, proviamo a fare una roba più così". E così nasce "‘Na vota ‘e cchiù" che per me era una poesia. Dopo circa un anno ci ho ripensato e mi sono detto: "Però questo brano parla di me". Anche se la versione che ascoltiamo adesso è interpretata e riadattata da e su Sfera, l’originale parlava proprio dell’appartenenza, dell’amore e della nostalgia per il posto da cui vieni.

Un tema che ti tocca molto da vicino.

Totalmente. È una cosa che fa parte della mia storia, della mia persona. Io sono cresciuto a Settimo Milanese, lì ho lo studio, ho la mia famiglia, i miei amici. Quando vado lontano voglio tornare lì, è proprio casa. Quando ho riascoltato quella canzone ho pensato: "Questa è La bella confusione". È un frammento di me, completamente. Così ho detto a Emanuele: "Permettimi di usarlo", e lui era super contento.

Però lui non è nel disco.

No, perché poco prima che uscisse il disco, lui — per questioni sue di programmazione, perché stava lavorando al suo album — non poteva più pubblicare quel singolo. Mi è dispiaciuto tanto, e mi dispiaceva anche perdere il brano e il suo senso.

Ed è qui che chiami Sfera?

Esatto. In realtà l’ho chiamato un po’ prima, circa un mese e mezzo fa. Mi sono sentito di dirgli la verità, la cosa più sincera da parte mia: che avevo sempre un po’ idealizzato questo disco. Io non lo volevo coinvolgere, non per cattiveria — lui è mio fratello, ci vogliamo bene — ma semplicemente perché in questo momento della mia vita lo sento distante. È una persona con cui è difficile condividere questo tipo di sensibilità. E forse un po' per partito preso mi ero detto: "Non glielo dico neanche".

Perché ti sei ricreduto?

A un certo punto ho pensato: "Forse mi sto escludendo pure la possibilità di provarci. E forse la nostra storia esige almeno un tentativo". Così l’ho chiamato e gli ho detto proprio tutto questo, così com’era. Cinque giorni dopo quella telefonata, Emanuele mi dice: "Senti, mi dispiace, ma non posso fare altre uscite mie". Lì ho pensato: "Cazzo, forse questa cosa accade per un motivo". E così gliel'ho proposto a Sfera.

E lui come ha reagito?

Ha colto subito la cosa. In studio l’ho visto molto spronato, molto curioso di mettersi alla prova. Gli ho detto: "Guarda, sei un po’ come Mastroianni per Fellini. Stai interpretando qualcosa, ma dentro c’è anche la tua verità". Le strofe sono sue, le ha scritte lui, benché siano una revisione del brano originale, ma si sente che parla di lui, dei suoi temi, delle sue cose vere.

Quando gli hai detto che non eravate più nello stesso momento della vita, come l’ha presa?

Lo riconosce completamente. Ma guarda, questo non è un tema che nasce ora: è così da dieci anni. Forse anche nel mio "silenzio" qualcuno ha sempre voluto leggere altro. O magari, giustamente, sono stato un po’ idealizzato. Per molte persone sono sempre sembrato simile a Sfera, perché facevamo musica insieme. In realtà siamo sempre stati un po’ gli opposti. Ed è proprio questa la nostra chiave di volta: io sono andato un po’ verso di lui e lui un po’ verso di me. Forse questo punto d’incontro è stato il nostro connubio perfetto.

Pensi che qualcuno abbia frainteso quello che eri e sentivi?

Io ho sempre vissuto una vita un po’ più riservata, nonostante fossi un personaggio esposto. Non è stato qualcosa che ho cercato. È successo di diventare famoso. E non l'ho mai sofferto eccessivamente, più che altro mi ha sempre disturbato sapere che là fuori ci fosse un'immagine distorta di me. Spesso quando mi conoscono mi dicono: "Non pensavo fossi così". E lo capisco.

Hai mai vissuto il peso delle aspettative?

No, non ho mai vissuto la pressione delle aspettative altrui, ho sempre fatto le cose perché mi piacevano, le volevo: semmai ho vissuto quella verso me stesso. Sono io che voglio sentirmi all'altezza, ma è più faticoso, martoriante.

Quando dici che Emanuele cercava da te altro, vuol dire che cercano da te cose che oggi non puoi più dare? In che modo questa cosa ha influenza su di te successivamente?

Quella cosa non ha un peso diretto su di me. La riconosco, la osservo, mi aspetto sia così, ma non mi dà noia. Ho fatto tutta questa musica di cui sono innamorato, ma è sempre volta a rispecchiare il mio interlocutore. Se io sono in studio con Sfera — e penso che questa sia una delle principali skills di un producer — è chiaro che devo un po’ vestire i suoi panni. Devo fare la cosa più giusta per lui, musicalmente parlando. Ma questa cosa non è detto che sia la mia cosa più giusta. È lì che nasce La bella confusione. Non come un piano, ma come un’esigenza. Un disco che si è fatto da solo, mentre lo realizzavo.

Nel 2023 dicevi di non sentire il bisogno di un producer album. Quando è cambiato qualcosa?

In realtà tutto nasce nel 2019, quando ho iniziato a lavorare a un album – che non è La bella confusione, non è il disco che conosciamo oggi – che poi ho abbandonato più volte. Non trovavo il filo narrativo, riprendevo e mollavo in continuazione. Quando è uscita Obladi Oblada ero convinto di aver chiuso definitivamente quel capitolo, di non volerlo nemmeno riaprire. Eppure avevo già quattro o cinque brani di quelli che oggi sono nel disco, però mi mancava il fil rouge narrativo, il motivo. Poi, piano piano, le cose si sono manifestate da sole. Più facevo il disco, più capivo cosa stava succedendo. Ho solo saputo accogliere ciò che la vita mi stava dando e non posso che rispettare questa cosa, altrimenti il rischio è ricascare nella mania di controllo. Come diceva Fellini: "Ma questa confusione sono io, io come sono, non come vorrei essere adesso". E non mi fa più paura dirlo: è così, qualsiasi cosa accada.

Tony Servillo – che in apertura di album rifà alcune battute di 8½ – come è entrato nel progetto?

Quando quest'album non era ancora La bella confusione, stavamo lavorando a un brano, era solo un'idea musicale. Avevamo inserito uno spezzone del film 8½, ma non abbiamo ottenuto le liberatorie. Mediaset era entusiasta, ma purtroppo Chiara Mastroianni, unica erede di Marcello, non se l’è sentita di concedere l’autorizzazione — scelta che rispetto pienamente. Allora ho pensato: "Chi può incarnare oggi la coppia Fellini-Mastroianni?". La risposta è stata Sorrentino e Servillo. Quindi siamo andati a Roma e abbiamo fatto sentire il disco a Tony, che l’ha capito al volo, ha compreso perfettamente cosa stavo facendo e non era scontato. È stato un incontro bellissimo, mi ha detto di essere contento di far parte di un pezzo d’arte, di qualcosa che ha davvero qualcosa da dire.

Poi parte Ernia e le prime parole sono contro l'industria.

Sono un manifesto, certo. Quel brano ha diversi livelli di lettura. Musicalmente segue un ordine cronologico: sotto il parlato c’è questo carillon che è un suono tipico mio, del "vecchio me", del 2016. Quando entra Ernia rappresenta la mia fase più rap/trap, ancora legata a quel periodo, quando sono iniziati i dubbi. Lui ha interpretato perfettamente quella parte, nel descriversi e nel descrivere me in quel momento in cui stavo mettendo tutto in discussione. Poi il brano cambia: diventa piano solo, entra Madame, e per me quello segna l’inizio del cambiamento, delle prime domande e delle prime risposte, fino alla liberazione finale, che rappresenta il futuro. È quella la parte che ha il sapore del disco vero e proprio.

Mahmood canta "Mi fa paura finire i 20 anni senza più niente da dire": era anche una tua paura?

Assolutamente sì. Intorno al 2019, quando ero all’apice della mia carriera, sembrava che avessi fatto tutto. Avevo i dischi pop più importanti, avevo vinto Sanremo, avevo i singoli più forti in radio, avevo ricevuto un certo tipo di gratificazione, e proprio a quel punto mi sono chiesto: "Perché lo sto facendo? Per cosa?". È nato il bisogno di dire "c’è dell’altro?". Molti direbbero: "Beato te, anche se fosse sempre così!". Ma per me non lo era, e non lo è. Serve rispetto per comprendere questo stato d’animo.

Il rapporto con Ernia mi sembra significativo: il suo disco e il tuo sembrano segnare una svolta nella scena rap, verso un racconto più intimo. Ti senti in parte fotografo di questo cambiamento, nel 2016 e ora nel 2025?

Non so se posso definirmi così, ma credo che il ruolo degli artisti sia di avere le antenne accese. Pensa alla trap, è nata perché ci piaceva quella musica, eravamo in quel mood ed è capitata, tanto quanto quello che sta accadendo oggi. È normale, anche per uno come Matteo, che ha 30 anni, gli è nata una bambina, a quel punto forse ti viene più da fare i conti con te stesso, chiederti a che punto sei, cosa hai veramente da dire. La vita che conduci è diversa. A me non va di vivere nel passato, non c'è cosa più bella del presente, in questo posso dirti che, sì, sono un fotografo delle situazioni, sono molto attento, ma perché ascolto molto me stesso. Non è una scelta strategica: non cambio direzione perché "sento che qualcosa non va". Mi basta ascoltarmi per capire se un linguaggio non mi rappresenta più. E se non parla più a me, non parlerà a nessuno.

Parlavi di Sorrentino: in un'intervista di Eleonora D'Amore per Fanpage, alla domanda se oggi si sentisse libero di fare i film che vuole rispose: "Se dovevo dimostrare qualcosa l'ho dimostrato, adesso non mi resta altro che fare quello che mi diverte fare". Ti ci ritrovi?

Totalmente. Quando questo disco si è manifestato per quello che è, l’ho accolto con consapevolezza. So che qualcuno penserà: "Povero Charlie, ha sbattuto la testa, noi volevamo la trap". Lo capisco, ma è volutamente un disco personale, anche ostico, diretto, a tratti disturbante, e lo dico pensando al dialogo con il "me bambino". Un dialogo che è secco, senza filtri, senza musica. Capisco che possa mettere a disagio, ma era quello che sentivo di fare. Poi c'è da dire che questo disco è stato fatto nell'arco di cinque anni e io mi sento di essere andato anche oltre.

La trap è stata deflagrante, ma anche il genere che si è trasformato più in fretta. Davvero oggi qualcuno ti chiede ancora "Facci la trap"?

Non sai quanti! Per le persone accettare il cambiamento è difficile, disturbante: costringe a esplorare lati di sé scomodi. Io sono sempre stato una certezza per chi mi ascoltava: "Quando c’è Charlie, ottengo quella cosa lì". Capisco che oggi, osservare Charlie che prende posizione, cambia, mostra un lato di sé che non ha mai mostrato, possa spiazzare. Ma non lo giudico: il cambiamento è complesso da accettare, lo è verso noi stessi, figurati verso quello che accade fuori.

Mi incuriosisce il titolo "Superstite": in che cosa ti senti rappresentato da quella parola?

Condivido molto con la storia di Massimo Pericolo, anche se non ho vissuto il carcere, per fortuna, ma tante nostre esperienze si incrociano. Quando dice "Solo te sei te. Solo tu sai la tua storia", ha ragione: ognuno è superstite della propria storia, del proprio dolore. Il dolore è personale, non giudicabile. Non puoi dire a qualcuno: "Come fai a star male per quello?". Ognuno reagisce come può. E credo che "Superstite" significhi proprio questo: sei l’unico testimone di ciò che hai vissuto.

Una curiosità musicale: hai costruito un album molto ampio. Quali sono stati i tuoi ascolti negli ultimi anni?

Negli ultimi anni ho fatto una sorta di detox dall’ascolto. Ho sentito pochissime "canzoni" in senso classico. La mia playlist è piena di brani piano solo, chitarra solo. Spotify Wrapped mi mostra nomi che non conosco, ma che ascolto in loop. E poi ascolto molta della mia musica: passo talmente tanto tempo in studio che finisco per ascoltare più ciò che faccio io che ciò che accade fuori.

Com'è stato avere, per un po' di tempo, il mondo della musica in mano.

Non me ne sono nemmeno accorto. Ho sempre condotto una vita semplice, umana, legata alla musica. Non mi sono mai concesso di credere a quella cosa. Anzi, appena ho percepito quella sensazione, tipo nel 2019, ho capito che non mi interessava. La risposta più sincera che posso darti è che non me ne frega un cazzo, io volevo solo fare musica.

Con la collaborazione di Vincenzo Nasto

0 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views