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Opinioni

Strage della Thyssen: c’è un pezzo di paese che lotta perché non accada di nuovo

Nel 2015 sono cresciuti morti ed infortuni sul lavoro, e una nuova strage è solo dietro l’angolo.
A cura di Michele Azzu
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Le lacrime di commozione ci stavano tutte, alla lettura della sentenza che ha condannato i dirigenti e i responsabili della sicurezza colpevoli della strage avvenuta alla Thyssen di Torino nel 2007, quando 7 operai morirono bruciati vivi. In quella fabbrica si era optato per una scelta, ora possiamo dirlo, criminale in tema di sicurezza sul lavoro: azzerare la prevenzione.

Oggi la Corte di Cassazione ha confermato le condanne emesse in appello un anno fa: la più alta è quella di 9 anni per Harald Espenhahn, all’epoca amministratore dell’azienda, che in primo grado era stato condannato a 16 anni e mezzo per “omicidio volontario”. Era stata, quella prima sentenza, un vero cambio di passo sulla vicenda della Thyssen, che ora anche se ridimensionata a 9 anni manitiene intatta la sua forza.

In tribunale sono scoppiate le lacrime, quelle di chi si è salvato e di chi ha perso un familiare, un amico, un collega. Morti per poter portare a casa il pane e il mese, mentre chi ne doveva garantire la sicurezza ha preferito chiudere un occhio. Sono state confermate anche le condanne per i manager Marco Pucci e Gerald Priegnitz a 6 anni e 3 mesi, il dirigente Daniele Moroni a 7 anni e 6 mesi, Raffaele Salerno a 7 anni e 2 mesi, Cosimo Cafueri a 6 anni e 8 mesi.

E pensare che il procuratore genertale aveva addirittura chiesto al giudice l’istituzione di un terzo processo d’appello per ridurre le pene, richiesta che aveva spevantato i parenti delle vittime. Ma come – si erano chiesti – ancora una volta un rinvio, ancora altre 100 udienze, ancora il rischio e la paura che queste persone possano farla franca?

E invece no, per una volta giustizia è fatta. Ma la parte difficile viene ora. Perché proprio questa sentenza, proprio questa drammatica vicenda che ora si è conclusa dopo quasi 10 anni con una decisione giusta, deve servire a qualcosa di più. A fare sì che non accadono altre stragi come quella della Thyssen, a sensibilizzare, a portare a galla la verità della sicurezza sul lavoro in questo paese.

Su Fanpage.it ne scriviamo ormai da anni: per capire il vero numero dei morti e degli incidenti sul lavoro in Italia si devono considerare non solo i dati dell’Inail, ma più fonti, come ad esempio il grande lavoro svolto dall’Osservatorio Indipendente di Bologna, a cura dell’operaio e artista Carlo Soricelli, che proprio a seguito della strage della Thyssen decise di aprire il suo sito.

Da quasi 10 anni Soricelli riporta anche i numeri dei morti sul lavoro “in itinere”, e cioè di chi muore mentre è in viaggio per lavoro (e sono tanti). E ci sono anche le cifre dei morti non assicurati Inail, come le partite Iva, le forze dell’ordine, i voucheristi, gli anziani che a decine muoiono schiacciati dai trattori – solo quest’ultima una vera e propria strage per cui Soricelli ha più volte chiesto al governo di intervenire con una legge per regolamentare i trattori, senza mai ottenere risposta.

C’è il lavoro di denuncia encomiabile di Marco Bazzoni, operaio di Firenze esperto di sicurezza, che nel 2009 aveva denunciato all’Unione Europea i rischi italiani sulla de-responsabilizzazione del datore di lavoro e sulle tempistiche per redarre il documento sulla valutazione dei rischi (DVR) di una nuova impresa. Grazie a quella denuncia partì una procedura d’infrazione, e il lavoro di Bazzoni è servito anche, fra le tante altre cose fatte, a modificare il testo del “Decreto Fare” del governo Letta in merito alla sicurezza dei cantieri mobili.

Ci sono poi le associazioni dei parenti delle vittime, come quella di Ruggero Toffoluti, o quella di Graziella Marota, cittadini che si battono perché quello che è accaduto ai loro familiari non possa più accadere. Perché a persone come quelle condannate oggi, che per il profitto sono disposte a mettere a rischio la vita di altre persone, non sia più permesso di stare a piede libero.

Insomma, quella di oggi è una sentenza importantissima, non solo perché è giusta, non solo perché si parla di 7 morti, ma perché è anche frutto di un lavoro incredibile che da anni pochi privati cittadini portano avanti da soli, senza l’aiuto di nessuno, nel cercare di portare alla luce una verità: in Italia la sicurezza sul lavoro è un problema, i morti e gli infortuni crescono, anno dopo anno. E nessuno fa nulla.

Non è un caso che solo poche settimane fa l’Inail abbia denunciato che nel 2015 gli infortuni sul lavoro siano cresciuti del 16%: è la prima volta che succede. Non solo: nel 2015 per la prima volta per i dati di tre istituti diversi – Anmil, Osservatorio di Bologna e Osservatorio Vega – i morti sul lavoro sono cresciuti. Sono 510 nel 2015, 1.030 se consideriamo anche quelli in itienere, secondo i numeri raccolti da Carlo Soricelli. Un incremento rispetto all’anno precedente del 4.6% (ma per gli altri due istituti la crescita arriva anche all’8%).

Emblematico il caso dell’Ilva di Taranto, dove la media negli ultimi 4 anni è di un morto all’anno: Claudio Marsella, di 29 anni, morto nel 2012 dopo essere caduto da una motrice. Francesco Zaccaria, di 29 anni, morto nel 2012 quando una tromba d’aria ha causato il crollo della gru che stava manovrando. Ciro Moccia, 43 anni, precipitato da una passerella a 10 metri d’altezza nel 2013. Cosimo Martucci, operaio della ditta in appalto Pitrelli, di 49 anni, schiacciato da un tubo d’acciaio nel reparto nel 2015.

E gli infortuni dello stabilimento tarantino non si contano, con operai che hanno perso anche le gambe. Lo scorso 17 marzo si sono verificati due incidenti sul lavoro nello stabilimento, dovuti a due esplosioni, a distanza di poche ore. Ma questo succede in tutta Italia, e spesso gli incidenti si ripetono uguali identici negli stessi luoghi di lavoro, a distanza di pochi giorni, ore, settimane, mesi e anni. A significare che non è cambiato nulla, anche se ci sono stati i morti.

Insomma, la sentenza di oggi è importantissima, perché deve servire a cambiare qualcosa in questo paese. Perché c’è un pezzo di Italia che è disposto a mettere in gioco la vita dei lavoratori per il profitto: sono le stesse persone che nel 2011 fecero l’applauso proprio ad Harald Espenhahn, oggi condannato, a un assise di Confindustria. In quell’occasione Emma Marcegaglia, allora presidente di Confindustria, disse: “Consideriamo una condanna a 16 anni per omicidio volontario un unicum in Europa”, e poi: “Potrebbe allontanare gli investimenti”.

A queste persone, oggi, va impedito di creare una nuova Thyssen. Perché un’altra strage è solo dietro l’angolo. Lo dicono i dati, lo dicono tutti questi morti sul lavoro. A cui oggi, per la prima volta, è stata resa un po’ di giustizia.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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