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Omicidio Yara Gambirasio: il sottile confine tra giornalismo e voyeurismo

Verbali secretati, i particolari più intimi di un’intera famiglia vengono sbattuti in prima pagina su Repubblica. E così ricomicia il circo mediatico sul caso Gambirasio.
A cura di Charlotte Matteini
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Abbiamo un uomo in carcere da oltre 3 mesi, accusato di omicidio e dileggiato da un Ministro della Repubblica ancor prima che venisse convalidato il fermo, un'istanza di scarcerazione rigettata senza alcuna ragione fondata, gli stessi RIS che in una relazione del 2011 misero in dubbio l'affidabilità della traccia di DNA che inchioderebbe Bossetti, la prova regina su cui si basa praticamente tutto l'impianto d'accusa e non solo: all’apice di questo cortocircuito giudiziario degno della peggior giustizia da avanspettacolo, il baratro si è toccato con l’articolo di Repubblica che ha pubblicato ampissimi stralci dell’interrogatorio di Bossetti del 6 agosto, rivelando informazioni secretate relative alle sue abitudini sessuali e particolari privati della vita della moglie, del fratello, particolari privati dei suoi figli, minori e della madre, già ampiamente irrisa e schernita per le sue frequentazioni sentimentali risalenti a 40 anni prima.

E questo è solamente un quadro parziale e già così mette paura. Mette paura soprattutto perché l’omicidio Gambirasio non è il primo caso giudiziario ad essere affrontato in questa maniera, non è il primo processo popolare ad essere celebrato sui media ancor prima che la prima udienza del vero processo abbia avuto luogo nell’unico luogo deputato: il Tribunale. No, in Italia è normale. In Italia questa è la regola. Abbiamo un problema di malagiustizia e mala informazione, signori. E ce ne accorgiamo ogni qualvolta abbiamo la sfortuna di dover analizzare complessi casi giudiziari di cronaca nera. Da una parte abbiamo magistrati e inquirenti incompetenti o in cerca di un posto al sole, che anziché impedire la fuga di notizie sensibili e teoricamente poste sotto segreto istruttorio, lavorano dietro le quinte e regalano ampi stralci dei verbali degli interrogatori di imputati presunti innocenti e persone a loro vicino, senza alcuna remora. Viene da domandarsi, cosa cercano? Un quarto d’ora di celebrità? Il proprio nome e cognome stampato su tutti i giornali italiani?

Dall’altra abbiamo il fronte dei giornalai che vivono di cruento voyeurismo e che per vendere una copia in più, passerebbero sul cadavere della loro stessa madre. Questo è lo sconfortante quadro che ci mostra il caso Gambirasio, per l’ennesima volta: l’obiettivo non è informare il lettore, raccontare fatti, no. Ciò che davvero interessa nei casi di nera è il gossip, sono i particolari più cruenti, le abitudini più immorali, le amicizie più pruriginose, le corna, le scopate più lussuriose, i gusti sessuali, magari presunti e nemmeno provati. E non ci si limita a scandagliare e infangare la vita degli indagati, no. Si arriva a sbattere sulle prime pagine dei quotidiani anche i particolari più intimi e più privati dei famigliari, degli amici, dei figli, dei minori addirittura. Non ci sono privacy, deontologia e Carta di Trieste che tengano. L’obiettivo è vendere a scapito della qualità dell’informazione e della vita di persone innocenti fino a prova contraria. Si istituiscono processi televisivi, si ricostruiscono le vicende giudiziarie sulla base delle personali intuizioni del giornalista sciacallo di turno, che ad arte vengono spacciate per prove certe della magistratura. Laddove un inquirente si interroga sull’affidabilità degli indizi, là fuori c’è un giornalista pronto a giurarvi che lui sa che quel “biondino con gli occhi di ghiaccio che si fa le lampade” altro non può essere che colpevole.

Si confondono le indagini preliminari e i verbali degli interrogatori per sentenze de facto, si fa credere al lettore che un avviso di garanzia o l’iscrizione nel registro degli indagati siano condanne inappellabili, si fa credere che le sentenze dei casi di nera debbano essere emesse da conduttori tv, giornalisti e tribunali popolari istituiti nei salotti buoni dei media italiani. Nessuno si pone il problema fondamentale, nessuno si pone una banalissima domanda: e se invece questi imputati fossero in realtà innocenti? Chi paga questo sciacallaggio? Ma soprattutto, quale cifra potrebbe risarcire una famiglia, per lo più composta da soggetti non indagati ed estranei ai fatti come nel caso Bossetti, distrutta da giornalai, ministri e inquirenti in cerca di un posto al sole? Sono queste le domande che dovremmo porci ogni volta che ci accingiamo a scrivere articoli che potrebbero rovinare l’esistenza di potenziali innocenti. Sono queste le considerazioni che i tanto antipatici garantisti fanno quando cercano di far capire che no, le indagini preliminari non fanno una sentenza, che i particolari più cruenti e più perversi che nulla hanno a che fare con la cronaca giudiziaria e l’informazione corretta e che le congetture personali non provano la colpevolezza di un imputato.
Soprattutto se le prove di fatto non esistono.

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