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Tragedia sulla Marmolada, crolla ghiacciaio

Marmolada, la tragedia inattesa di un’emergenza annunciata

Il disastro di Punta Rocca non è che l’ultima prova di un’emergenza che abbiamo da anni sotto ai nostri occhi: quella di un cambiamento climatico che sta cambiando il mondo che abbiamo sempre conosciuto. E che continuerà a farlo, se non interveniamo.
A cura di Fabio Deotto
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Tra tutto quello che è stato detto e scritto in queste ore, dopo che un enorme seracco di ghiaccio si è staccato dalla cima della Marmolada provocando una tragedia, c’è una frase che non riesco a levarmi dalla testa: “Quella calotta è lì da centinaia di anni,” hanno detto in molti “nessuno poteva immaginarsi una cosa simile.” È una frase particolarmente sconfortante perché restituisce lo sgomento di chi è abituato a considerare la montagna come un punto di riferimento, una certezza inamovibile, e si trova invece a vederla sgretolarsi di colpo.

Ma se è vero che il fronte di 200 metri che ha ceduto domenica è stato fermo per centinaia di anni, è anche vero che nell’ultimo secolo il ghiacciaio della Marmolada si è ridotto del 90%, e questo con ogni probabilità è stato il fattore più determinante per quello che è successo a Punta Rocca.

Perché una montagna cade a pezzi

A poche ore dal crollo, quando le operazioni di soccorso erano ancora nelle prime fasi, c’era già chi era pronto a insinuare il dubbio che a smuovere il seracco fatale non sia stato solo il caldo anomalo, ma che si possa individuare anche qualche responsabilità umana. Ma si tratta di un falso dilemma. L’abbiamo detto più volte, su queste pagine: la crisi climatica di solito non crea nuovi rischi, ma tende ad aggravare di molto quelli esistenti. Perciò, sebbene non possiamo dire con assoluta certezza che senza il riscaldamento globale degli ultimi decenni la montagna sarebbe ancora integra, il margine di dubbio è minimo. Per rendersene conto basta mettere insieme qualche dato.

Sappiamo, come abbiamo detto, che negli ultimi 100 anni il ghiacciaio della Marmolada ha perso il 90% del suo volume, un terzo del quale solo negli ultimi 10. Sappiamo che da maggio le montagne italiane sono investite da un caldo fuori scala, tanto che in alcuni punti le riserve nevose si sono esaurite in anticipo e molti ghiacciai si sono già ridotti ai livelli di fine estate. Sappiamo che questo weekend faceva particolarmente caldo: domenica il termometro in vetta segnava 10 gradi, un record, e che lo zero termico era collocato a 4.100 metri (ben oltre i 3.343 della Marmolada). Sappiamo che lo scioglimento del ghiaccio in quota innesca circoli viziosi: il ghiaccio disciolto espone la roccia, che assorbe maggiore calore, portando a uno scioglimento ancora più rapido; come sappiamo che l’acqua disciolta tende a scorrere tra il ghiaccio più sottile e la roccia, rendendo più facile un cedimento.

Perciò, se anche era difficile prevedere che una torre di ghiaccio come quella di Punta Rocca si sarebbe staccata provocando una cascata di 300 km/h a valle, è ragionevole aspettarsi che di qui ai prossimi vent’anni le montagne saranno sempre meno stabili. E non solo perché i ghiacciai si stanno ritirando, ma anche perché le alte temperature stanno mettendo a rischio il permafrost alpino.

Disastro inatteso, emergenza annunciata

Nell’estate del 2016, nel Parco naturale delle Dolomiti di Sesto, in Alto Adige, si registrò un crollo senza precedenti: 700mila metri cubi di roccia si erano staccati dalla parete della Piccola Croda Rossa provocando una gigantesca frana. In quel caso era fine agosto, e il crollo non provocò vittime, questo perché nelle settimane precedenti erano state individuate nuove crepe nella roccia e i sentieri erano stati preventivamente chiusi.

Da allora, la frequenza di frane e cedimenti è aumentata vertiginosamente. Stando ai dati del Cnr-Irpi, negli ultimi vent’anni sulle Alpi italiane si sono registrati più di 500 “processi di instabilità naturale”, termine ombrello che include frane, colate detritiche e cedimenti glaciali. Questi eventi si concentrano soprattutto in Valle D’Aosta (42%), Piemonte (18%), Lombardia (16%) e Trentino (15%), e negli ultimi anni hanno letteralmente trasformato il paesaggio alpino: basti pensare alla frana che nel 2021 ha cancellato la Guglia del Corno, sul massiccio del Fumante, a Recoaro; o a quella che nello stesso anno ha sfregiato la Croda del Ros, a San Vito di Cadore.

Cedimenti di questo tipo sono spesso imputabili alla deformazione del permafrost, ossia un tipo di terreno che rimane congelato lungo tutto il corso dell’anno. Le temperature sempre più elevate in quota stanno causando lo scioglimento di queste formazioni, rendendole sempre meno stabili. A questo si aggiunge un altro tipo di erosione, legata al cosiddetto frost cracking, fenomeno che si verifica quando il cambio nel pattern di precipitazioni e l’acqua prodotta dallo scioglimento delle nevi penetrano nelle fessure delle rocce per poi espandersi una volta che le temperature tornano a scendere.

Questa combinazione di fattori, tutti riconducibili al perdurare di temperature insolite a simili altitudini, ha fatto sì che negli ultimi anni le Alpi stiano subendo un processo di erosione costante.

Non chiamiamolo evento eccezionale

Nel frattempo, allo sconcerto incredulo delle persone comuni fa da controcanto il cordoglio rassegnato di glaciologi e climatologi: se infatti è vero che la tragedia della Marmolada è un evento senza precedenti, è anche vero che con ogni probabilità nei prossimi anni sarà seguito da cedimenti strutturali analoghi. Come abbiamo visto, le vette sono sempre meno stabili, e questo non soltanto per colpa delle ondate di caldo che quest’anno hanno sciolto la neve in quota, ma anche per un processo di destabilizzazione che procede da decenni, spinto da un aumento costante delle temperature.

Quello della Marmolada è il più grande ghiacciaio delle Dolomiti, e di qui ai prossimi 20 anni probabilmente scomparirà del tutto. È ragionevole dunque aspettarsi che fenomeni come quello di domenica tenderanno a ripetersi, come è ragionevole aspettarsi che cambierò il nostro rapporto con la montagna. Sentieri che fino a pochi anni fa erano considerati semplici e sicuri, ora lo sono sempre di meno, perciò c’è da aspettarsi che simili escursioni saranno proibite in futuro, e che verranno introdotte le misure cautelative che solitamente accompagnano gli eventi eccezionali.

Ma considerare quello di Punta Rocca come un evento eccezionale è pericoloso, oltre che fuorviante: la tragedia di domenica si colloca in un periodo di diffuse anomalie climatiche: l’Italia sta attraversando una crisi idrica senza precedenti, fiumi e laghi sono al loro minimo storico, il cuneo salino ha risalito il Po per 30 km rovinando i raccolti, il tutto mentre l’ennesima ondata di caldo tiene in ostaggio la Penisola.

Abbiamo la tendenza a percepire questi eventi come isolati e non correlati: colpa della nostra tendenza cognitiva a compartimentare le problematiche e a credere che il mondo che ci circonda non possa cambiare radicalmente; ma anche di un’informazione che in molti casi evita di unire i puntini.

Lo schema però è chiaro: si chiama crisi climatica ed è innescata dall’enorme quantità di gas serra che abbiamo sputato (e continuiamo a sputare) nell’atmosfera e che stanno riscaldando sempre di più il nostro pianeta. È fondamentale tenere conto del quadro generale, e affrontare tragedie come questa con la giusta consapevolezza. Perché se è vero che il seracco di Punta Rocca è rimasto fermo per centinaia di anni, è anche vero che si è formato in condizioni climatiche assai diverse da queste, condizioni di relativa stabilità in cui si poteva vivere nella ragionevole sicurezza che eventi come questo fossero rari e, appunto eccezionali. Ma quella stabilità non esiste più: viviamo in un mondo diverso, trasformato (per certi versi irreversibilmente) da una crisi climatica di cui possiamo individuare molto meglio le cause rispetto alle ricadute. L’unica cosa che possiamo fare, mentre predisponiamo misure che tutelino le persone da queste instabilità, è ridurre al minimo le cause di questa crisi, il che significa decarbonizzare la nostra economia, e tutelare quanto ancora rimane del vecchio mondo.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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