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Opinioni

I poliziotti non vogliono le mascherine rosa perché sono vittime del sessismo, anche se non lo sanno

Non è solo una questione di colore: la nostra società ci insegna che se vuoi essere autorevole devi evitare di sembrare “femminile”, soprattutto se se maschio.
A cura di Maria Cafagna
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Un importate sindacato di Polizia si è lamentato pubblicamente per l’arrivo di una fornitura di mascherine FFP2 rosa. Nel documento inviato al capo della Polizia Lamberto Giannini si chiede "un immediato intervento volto ad assicurare che i colleghi prestino servizio con mascherine di un colore diverso (bianche, azzurre, blu o nere) e comunque coerenti con l’uniforme della Polizia di Stato evitando dispositivi di altri colori o con eventuali decorazioni da ritenere assolutamente inopportuni” perché “Appare altresì chiaro che la rilevanza delle funzioni svolte dalla Polizia di Stato impone all’Amministrazione di preservare il decoro dei propri operatori, evitando che gli stessi siano comandati a svolgere attività istituzionale con dispositivi di protezione di un colore che risulta eccentrico rispetto all’uniforme e rischia di pregiudicare l’immagine dell’Istituzione”.

In molti hanno evidenziato che il problema non fosse tanto il colore delle mascherine in sé, quanto il fatto che il rosa è un associato alle donne, più precisamente al femminile, o per essere ancora più precisi a certi stereotipi come leziosità, fragilità e una certa leggerezza sciocca, tutti stereotipi che ancora oggi affliggono le donne. Va da sé che tutte caratteristiche che non si sposano con l’immagine che vorrebbe dare di sé una persona che deve garantire l’ordine pubblico. Dico che il rosa è tradizionalmente e non storicamente un colore da donne perché fino a qualche decennio fa il colore associato al femminile era l’azzurro, il colore del velo della Madonna: l’azzurro era il colore dell’innocenza, della purezza, della rettitudine e della sottomissione, quella che la moglie rispettosa e devota doveva al marito. Al contrario il rosa era un colore maschile perché era associato al rosso, colore della guerra, del sangue, della virilità.

I colori sono colori, i significati che portano glieli attribuisce la società in base a criteri totalmente arbitrari. Possiamo quindi farci scivolare addosso la questione delle mascherine rosa e farci una bella risata oppure possiamo cogliere l’occasione per chiederci perché questi uomini siano inorriditi davanti a quel carico di FFP2.

Certi condizionamenti vengono quando non solo siamo in grado di decidere in autonomia ma addirittura quando non siamo in grado di vivere in autonomia: certi condizionamenti avvengono quando ancora siamo nell’utero di nostra madre. Intorno al terzo mese è possibile farsi un’idea della conformazione dei genitali del feto; ancora oggi molte coppie scelgono di conoscere il sesso del bambino o della bambina non tanto e non solo per semplice curiosità, ma per iniziare fin da subito a impostare le loro vite in base alle conformazioni dei loro genitali. Se nascerà una bambina è facile che la sua stanza sia rosa e piena di ninnoli, bambole e leziosità; se nascerà un bambino, lo aspettano una cameretta azzurra, orsetti, qualche macchinina e magari i gadget della squadra del cuore del papà. Già nel modo in cui accogliamo una vita operiamo delle distinzioni basate sul sesso biologico, distinzioni che diventano sempre più marcate man mano che andiamo avanti con gli anni e che spesso non tengono conto delle caratteristiche e delle naturali inclinazioni dell’individuo.

Tutto questo può portare a delle conseguenze anche gravi: pensate a un ragazzo a cui fin dalla più tenera età viene impedito di esprimere le sue emozioni, a cui vengono precluse delle attività solo perché è un maschio e un maschio certe cose non le fa – ma chi lo ha deciso? – a cui viene detto che un “vero uomo” non deve piangere e che non deve permettere alla “sua donna” di andare in giro con la minigonna, frequentare le amiche, andare in palestra perché tutti la guardano e così via. E sopratutto che un “vero uomo” non fa le cose “da femmine” come cucinare, stirare, cambiare i pannolini e, appunto, indossare il rosa.

Su questo fronte le giovani generazioni fanno sperare: ricorderete il caso degli alunni di un liceo milanese che hanno scelto di indossare la gonna in segno di protesta contro un docente che aveva intimato a un ragazzo di non indossarla più in classe. Ma prima di fare della facile ironia chiediamoci se quanti uomini abbiamo visto indossare gonne, trucco o un capo rosa. Dopo aver fatto anche io delle battute sulla notizia delle mascherine ho cercato di fare mente locale e devo ammettere che al netto di qualche eccezione, nella mia vita ho incontrato pochissimi uomini che indossassero il rosa. Mentre le donne possono indossare più o meno qualsiasi colore, l’abbigliamento maschile ha ancora tantissime limitazioni che spesso ne precludono la praticità: pensate ad esempio quanto sarebbe più comodo se tutte e tutti d’estate potessimo indossare le gonne, un capo d’abbigliamento infinitamente più comodo e fresco dei pantaloni. Davanti all’inesorabile aumento delle temperature, sarebbe un toccasana, eppure la stragrande maggioranza degli uomini inorridisce solo all’idea.

La verità è che chi ha scritto quel comunicato ha ragione, un poliziotto con la mascherina rosa è un bersaglio, è meno autorevole perché meno “maschile” e l’autorevolezza è ancora oggi una caratteristica che attribuiamo più facilmente a un uomo che a una donna. Una donna che vuole essere autorevole essere meno “femminile”, come ci insegna la storia dei rigorosi tailleur pantalone di Angela Merkel. Per lo stesso principio, un uomo che vuole farsi rispettare deve stare lontano da tutti quello che richiami la femminilità come il colore rosa, ma anche come le lacrime, e le emozioni. A leggerlo sembra una follia ma si delle norme non scritte che regolano la nostra società e a cui tutte e tutti dobbiamo sottostare pena lo scherno e l’esclusione.

La soluzione non è ritirare le mascherine rosa, non è nemmeno indossarle, ma aiutare gli uomini a comprendere che la battaglia per la parità di genere riguarda anche loro perché sebbene in forme molto minori rispetto alle donne, alle minoranze, e alla comunità LGBTQI+, anche loro sono vittime degli stereotipi. Questa è una battaglia che dovremmo fare tutti e tutte insieme, affinché ognuno e ognuna di noi possa indossare ciò che meglio crede e soprattutto possa essere ciò che vuole senza per questo sentirsi meno autorevole, meno attraente, meno libero.

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Maria Cafagna è nata in Argentina ed è cresciuta in Puglia. È stata redattrice per il Grande Fratello, FuoriRoma di Concita De Gregorio, Che ci faccio qui di Domenico Iannacone ed è stata analista di TvTalk su Rai Tre. Collabora con diverse testate, ha una newsletter in cui si occupa di tematiche di genere, lavora come consulente politica e autrice televisiva. -- Maria Cafagna   Skype maria_cafagna
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