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Opinioni

COP26, perché non possiamo fermare la crisi climatica senza risarcire i paesi in sviluppo

La Cop26 è stato un mezzo fallimento, e ci ha fatto capire che è impossibile rispondere alla crisi climatica senza risarcire i nuovi paesi in via di sviluppo.
A cura di Fabio Deotto
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Ph by Christopher Furlong/Getty Images
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Due settimane fa a Glasgow si è riunito un mondo frammentato. L’obiettivo era trovare un tessuto connettivo, o quanto meno un collante, che potesse consolidare lo sforzo internazionale necessario ad affrontare una minaccia esistenziale globale come la crisi climatica. Oggi, nonostante gli slogan, gli impegni presi (pochi) e le promesse fatte (molte), dalla COP26 il mondo esce frammentato quanto prima, se non peggio. E la spaccatura non segue le previste dorsali tra oriente occidente, tra USA e Cina, o tra UE e Russia, ma la ben più antica linea di demarcazione tra il Nord e il Sud del mondo.

Alla COP21 del 2015 di Parigi, oggi ricordata come un parziale trionfo, le nazioni più ricche e industrializzate si erano impegnate a stanziare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 per consentire alle nazioni più povere del sud del mondo di adattarsi alle ricadute sempre più violente della crisi climatica. Le nazioni del G77, la coalizione ONU che riunisce 134 paesi in via di sviluppo, si sono presentate a Glasgow per chiedere non solo che quei 100 miliardi fossero stanziati, ma che si stanziassero ulteriori fondi per sopperire ai danni che la crisi climatica già sta infliggendo alle nazioni più povere. Le loro richieste, per quanto ragionevoli e accorate, hanno sbattuto contro un muro di sostanziale indifferenza.

Era un risultato prevedibile, considerando che all’inizio dei lavori, le 10 nazioni più inquinanti (tra cui USA, Brasile e Russia) contavano quasi il doppio dei delegati rispetto alle 38 nazioni insulari più a rischio per gli effetti del riscaldamento globale.

Intendiamoci: COP26 non è stato un completo fallimento. Qualche debole risultato è stato portato a casa, ad esempio il fatto che per la prima volta si parli dell’importanza di ridurre anche le emissioni di metano, che si faccia riferimento (anche parziale) allo stop ai sussidi all’industria fossile e alla necessità di una transizione giusta, e la richiesta di aggiornare e migliorare le promesse di riduzione di emissioni già entro il 2022. Fossimo ancora alla COP15 di Copenhagen, potremmo parlare di un meeting interlocutorio ma promettente. Ma non siamo più nel 2009, e se l’obbiettivo doveva essere predisporre le misure per mantenere il riscaldamento globale al di sotto degli 1,5 gradi oltre i livelli pre-industriali, allora il bersaglio è stato mancato, e pure di tanto. Anche perché per centrarlo era fondamentale abbattere le disparità tra i paesi più industrializzati (storicamente responsabili delle emissioni che oggi riscaldano il pianeta) e quelli meno industrializzati (che oggi subiscono le ricadute peggiori della crisi climatica). E come vedremo, questo aspetto non è mai stato in cima alle priorità della conferenza.

Un divario geopolitico vecchio 500 anni

Ancora una volta, nel racconto della conferenza che avrebbe dovuto mettere un punto fermo alla crisi climatica sono emersi termini come “paesi in via di sviluppo” o “nazioni svantaggiate”. Sono locuzioni problematiche, perché rinforzano l’idea sbagliata secondo cui se i paesi del Sud del mondo hanno economie meno floride rispetto al Nord del mondo sia per via di fattori imponderabili, legati magari alla loro posizione, a una minore disponibilità di risorse o addirittura a un’incapacità culturale a mettersi su un binario di crescita e progresso.

La realtà è che se queste nazioni oggi si trovano in una condizione di minore sviluppo economico (tanto che il reddito pro-capite medio nei paesi africani è di 13 volte inferiore rispetto a quelli europei), è colpa di secoli di colonialismo. Per dirla con George Monbiot, autore di "Riprendere il controllo" (bellissimo saggio uscito per Treccani nel 2019): "La storia degli ultimi 500 anni può essere crudamente riassunta così: una manciata di nazioni europee, che avevano appreso l’arte della violenza e sviluppato una tecnologia marittima avanzata, hanno utilizzato queste facoltà per invadere territori altrui, impossessarsi delle loro terre, della loro forza lavoro e delle loro risorse".

La subalternità imposta in epoca coloniale è stata poi nei secoli consolidata e riconvertita in salsa finanziaria facendo leva sul debito internazionale, sui paradisi fiscali, sugli strumenti di transfer pricing che consentono di massimizzare i profitti sfruttando le vulnerabilità giuridica e fiscali dei paesi più poveri, quando non addirittura attraverso manovre politiche come colpi di stato volti a instaurare governi più controllabili.

Una transizione ecologica globale, a diverse velocità

Il gap economico tra Nord e Sud del mondo era già stato preso in considerazione nella storica COP3 di Kyoto, nel 1997, tanto che il grosso delle riduzioni menzionate nel Protocollo veniva allora addossato ai paesi più industrializzati. Da Copenaghen in avanti, nel 2009, si decise però di includere anche paesi come la Cina, l’India e il Brasile nel novero dei “grandi emettitori” che dovevano impegnarsi in prima persona per arginare l’emissione di gas serra. Ma i paesi in questione non erano esattamente entusiasti di questo cambio di etichetta, perché se era vero che le loro economie nel frattempo erano cresciute, e il loro impatto sul bilancio di emissioni moltiplicato, era anche vero che paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Germania avevano goduto di due secoli di crescita non regolamentata, e quindi non potevano essere posti sul loro stesso piano.

Oggi la Cina è la nazione responsabile delle maggiori emissioni annue, solo nel 2020 ha prodotto l’equivalente di 10,67 miliardi di tonnellate di carbonio. È un primato difficilmente contestabile, ma va messo in prospettiva. Innanzitutto dobbiamo tenere conto del fatto che la quota di emissioni pro-capite della Cina non è così alta: parliamo di 7 tonnellate di carbonio per ogni cittadino (al 45° posto nella classifica delle popolazioni più inquinanti), contro le 14 tonnellate degli Stati Uniti (al 14° posto). Ma soprattutto dobbiamo considerare che il riscaldamento globale che oggi sta flagellando molti luoghi del globo è dovuto a quasi 250 anni di emissioni, che sono in larghissima parte imputabili agli Stati Uniti (416 miliardi di tonnellate, contro i 235 miliardi della Cina).

Alla COP di Glasgow le parti si sono riunite con l’obiettivo principale trovare il modo di eliminare i combustibili fossili dall’equazione energetica. Ma se questo per paesi come la Cina e l’India significa interrompere la crescita iperbolica degli ultimi 20 anni, per le nazioni più povere può significare non avere modo di garantire il funzionamento del macchinario statale, e in alcuni casi il sostentamento della propria popolazione.

Dobbiamo tenere conto che molti paesi africani si trovano già a dover fronteggiare costi ingenti per sviluppare infrastrutture e reti elettriche più estese, un’assistenza sanitaria migliore, per consolidare un sistema educativo e un sistema di produzione e distribuzione alimentare ancora pesantemente fallati. Questo percorso in salita viene ulteriormente complicato dal fatto che i paesi del Sud del mondo sono quelli che già oggi stanno subendo le ricadute peggiori della crisi climatica (in questo caso, sì, anche per colpa della loro posizione geografica), e dunque sono costretti a usare buona parte delle proprie risorse economiche

Le tecnologie rinnovabili sono costose, in alcuni casi troppo costose per essere implementate in modo massiccio; allo stesso tempo, molte di queste nazioni dispongono sul loro territorio di un’abbondanza di combustibili fossili. Basti pensare che nel continente africano ci sono riserve per 100 miliardi di barili petrolio; non solo, Nigeria, Algeria e Mozambico detengono il 6% delle riserve mondiali di gas.

Stipulare un accordo che vieti a questi paesi l’estrazione e utilizzo di combustibili fossili, senza un’adeguata compensazione per una disparità che di fatto le nazioni più ricche hanno creato (sia in termini di emissioni che di sfruttamento), significherebbe perpetuare una logica coloniale spacciandola per strategia di salvezza globale.

Risarcimenti o prestiti? C’è una bella differenza

Per illustrare questa prospettiva qualcuno ha fatto ricorso a un’immagine curiosa: è come se i paesi industrializzati avessero usato una scala per scavalcare un muro, e ora decidessero di levarla prima che altri la usino per arrivare allo stesso punto. È una metafora efficace, ma anche fuorviante, perché già il solo descrivere il nostro modello economico come il frutto di un ostacolo superato significa rinforzare l'idea per cui la direzione migliore che una nazione può seguire sia quella di una crescita analoga a quella che ha portato le emissioni a crescere e la crisi climatica a incombere sulle nostre vite.

Ma volendo comunque lavorare su questa immagine, allora la soluzione più sensata non consiste nel lasciare la scala dov'è e aspettare che tutti la percorrano, quanto piuttosto sbarazzarsi della scala e impegnarsi a rendere un mondo senza scale vivibile per tutti. Il punto è che chi non ha "scavalcato il muro” non ha accumulato la ricchezza necessaria a operare una transizione energetica, nonché ad adattarsi alle conseguenze di una crisi climatica che chi invece ha scavalcato quel muro ha contribuito a generare. C’è un dislivello da colmare, ci sono delle chiare responsabilità, eppure il termine “risarcimento” è ancora tabù nei meeting internazionali.

L’articolo VI del documento è intitolato “Loss and damage” (in italiano: “perdita e danno”), locuzione che va a indicare conseguenze catastrofiche del cambiamento climatico a cui non è possibile prepararsi o adattarsi. Nell’accordo si prende atto esplicitamente del fatto che la crisi climatica aumenterà l’intensità e la frequenza di queste ricadute; non solo, ribadisce anche l’urgenza “di intensificare l'azione e il sostegno, a seconda dei casi, anche attraverso strumenti finanziari, trasferimento di tecnologia e sviluppo di capacità, per l'attuazione di approcci atti a prevenire, ridurre al minimo e affrontare perdite e danni associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo che sono particolarmente vulnerabili a questi effetti".

Sarebbe un notevole passo in avanti, se solo ci fosse anche un riferimento esplicito e vincolante a come e quando si dovrebbe “intensificare l’azione e il sostegno” ai paesi meno industrializzati, e soprattutto, su chi dovrebbe stanziare fondi e in quale misura.

Il dibattito sulle cosiddette “climate reparations” (traducibile in italiano con “risarcimenti climatici”) affonda le radici in profondità nella storia coloniale. Prendiamo un dato di partenza: gli USA non sarebbero così ricchi e sviluppati se non avessero saccheggiato la terra dei nativi americani e se non avessero sfruttato per 400 anni la manodopera gratuita degli schiavi afroamericani. Oggi queste due comunità vivono portano ancora addosso il peso di questa eredità, sia in termini di reddito, che di opportunità lavorative (per avere una misura del problema, è sufficiente pensare che al ritmo attuale di crescita economica una famiglia afroamericana impiegherebbe 228 anni per accumulare la ricchezza media di una famiglia bianca). Ragion per cui si sta discutendo da tempo di un risarcimento monetario per compensare un dislivello altrimenti destinato a perdurare (a chi fosse interessato ad approfondire la questione consiglio di leggere Un conto ancora aperto di Ta-Nehisi Coates, pubblicato da Codice nel 2016).

Come abbiamo visto, un dislivello simile esiste anche a livello climatico. E considerando che le Nazioni Unite hanno più volte sostenuto la necessità di risarcire le comunità afroamericane, native e aborigene, ci si aspetterebbe che un simile discorso compaia tra i punti cardine in una conferenza come la COP, che proprio all’ONU fa capo.

A quanto ammonterebbe un risarcimento climatico?

Ma volendo immaginare un vero e proprio risarcimento: come possiamo calcolarlo? Di recente, l’autore e giornalista americano David Wallace-Wells ha proposto di utilizzare il costo che dovremmo sostenere se, una volta che fossero disponibili le tecnologie necessarie, decidessimo di sequestrare il carbonio in eccesso dall’atmosfera. Combinando diverse stime (tutte proiettate, è il caso di dirlo, in uno scenario successivo al 2050), Wallace-Wells ha calcolato che questo processo di “ripulitura dell’atmosfera” arriverebbe a costare circa 100 dollari a tonnellata. Considerando che dal XIX secolo a oggi gli Stati Uniti hanno prodotto l’equivalente di 500.000 tonnellate di CO2, il risarcimento che dovrebbero pagare ammonterebbe a 50.000 miliardi di dollari, alla Cina toccherebbero 30.000 miliardi, alla Gran Bretagna 8.000, e così via fino a un totale di 250.000 miliardi di dollari. Praticamente la metà di tutta la ricchezza economica presente oggi sul pianeta.

È una prospettiva intenzionalmente provocatoria, ma è anche rischiosa, perché finisce per virare nuovamente l’attenzione su strumenti di “risoluzione” del problema che non sono impiegabili nel breve termine, e quindi rischiano di distogliere dal vero obiettivo di queste conferenze: trovare un modo equo e giusto di ridurre al minimo le emissioni serra. Il calcolo di Wallace-Wells aiuta però a farsi un’idea dell’ulteriore fardello che i paesi più ricchi hanno addossato sulle spalle di quelli più poveri e di quanto gli obiettivi fissati a Glasgow siano inaccettabilmente insufficienti.

Alla COP26, i rappresentanti dei paesi meno industrializzati hanno avanzato richieste di tutt’altra caratura, mantenendosi in un range che va dai 750 miliardi di dollari ai 1.300 miliardi. Le loro argomentazioni sono cadute nel vuoto. C’era da aspettarselo, considerando che allo stato attuale non si è parlato di fondi per compensare le perdite e i danni prodotti dal cambiamento climatico, e ancora si fatica a superare l’asticella degli 80 miliardi all’anno per quanto riguarda il sostegno per la transizione energetica e l’adattamento. Ma anche si arrivasse ai 100 miliardi previsti dall’Accordo di Parigi, si tratterebbe di una cifra così inadeguata da risultare quasi simbolica. La scorsa settimana l’UNEP ha calcolato che, soltanto per i costi di adattamento, i paesi più poveri avrebbero bisogno di 300 miliardi all’anno entro il 2030, e di 500 miliardi all’anno entro il 2050. Degli 80 miliardi stanziati finora, solo il 25% è stato dedicato all’adattamento; non solo, la maggior parte di questi fondi sono stati forniti in forma di prestito, andando a creare nuovo debito e, in sostanza, rinforzando una subalternità che resiste dall’epoca coloniale.

Il mondo esce da Glasgow frammentato, e senza un vero accordo che fornisca una vera protezione alle nazioni più vulnerabili. Questo però non significa che questo fronte vada abbandonato. L’abbiamo detto: è una battaglia cruciale. Parafrasando David Wallace-Wells, dobbiamo decidere se consideriamo le persone che vivono nei paesi più vulnerabili come esseri umani. Se la risposta è affermativa, arroccarsi sul muro che abbiamo scavalcato sarebbe una scelta disumana. E purtroppo è quello che stiamo facendo.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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