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backstair / Shalom, la comunità degli orrori

Comunità Shalom, nuove testimonianze: “Volevano darmi in adozione all’insaputa di tutti”

Le segnalazioni di ex ospiti della Shalom e dei loro genitori raccontano altri particolari sulla gestione della comunità da parte di Suor Rosalina Ravasio.
A cura di Backstair
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Dopo l’inchiesta di Fanpage.it sulle violenze perpetrate all’interno della comunità di recupero Shalom in provincia di  Brescia, molte persone si sono fatte avanti per raccontare le vessazioni che avrebbero subito dalla responsabile Suor Rosalina Ravasio.

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Una di queste è Serena Rentoni, oggi 21enne, che insieme ad altre decine e decine di ex ospiti ha deciso di farsi avanti: “Ho vissuto un'esperienza molto difficile che mi ha portato ad allontanarmi dalla comunità. Vorrei portare la mia testimonianza per condividere con gli altri quello che mi è successo”.

Quando Serena ha 11 anni, nel 2011, la madre, su suggerimento di un prete, decide di portarla nella comunità a 250 chilometri da casa. “Ero ritenuta ingestibile, ero molto agitata. Mia madre ha deciso che mi serviva un posto che mi raddrizzasse”. Quando ripensa a quel periodo, la sensazione che ha è quella dell’angoscia. Il clima che si respirava dentro la comunità era di “paura e sottomissione” e la suora era “lodata da tutti come se fosse Dio”. Ma non c’era alternativa, spiega ancora Serena: “Se non facevi come dicevano loro, finiva veramente male”. Anche lei a 11 anni sarebbe finita in punizione, ma la situazione che avrebbe sofferto di più sarebbe stata quella di non poter incontrare la sua famiglia.

Gli episodi dell’inchiesta

Mia madre veniva in comunità, anche fuori dagli incontri prestabiliti, ma non poteva vedermi. Le dicevano che ero a scuola o ammalata e mai una volta che sia riuscita a vedermi”. Anche durante gli incontri con i familiari, una volta al mese, Serena non avrebbe potuto incontrare la madre: “Ero in punizione in laboratorio, quindi non potevo incontrare nessuno. Nemmeno i miei genitori, non me li facevano vedere e addirittura mi dicevano che non mi cercavano nemmeno”.

La violenza psicologica più forte che avrebbe subito Serena è quella di una lettera da parte della madre. “Mi ricordo che ero nel letto e una ragazza quasi con aria di soddisfazione mi passò questa lettera. Io mi ricordo benissimo la parola ‘amareggiata’ che mia madre ha usato in quella lettera. Non lo dimenticherò mai, perché mi ha segnato a vita. Sono rimasta destabilizzata, perché sapevo che ero una bambina di soli 11 anni”. Quella lettera sarebbe stata consigliata dagli stessi responsabili della comunità, come raccontano altri genitori di ospiti della Shalom.  “Ero seguita dallo psicologo della comunità. Lui diceva che per farmi stare meglio mia madre avrebbe dovuto inviarmi una lettera in cui mi diceva che il mio comportamento non mi avrebbe permesso di vedere i miei genitori”, ci spiega ancora Serena.

La denuncia: "Volevano darmi in adozione"

“Mia madre non mi vedeva mai, le dicevano che ero ammalata o che ero a scuola, e gli incontri diventavano sempre meno frequenti. Nel frattempo loro mi facevano vedere un’altra famiglia, che era la famiglia a cui mi stavano per dare in adozione. Tutto all’insaputa di mia madre”, ci racconta ancora Serena. L’ex ospite ricorda la confusione di quel momento: “Non mi dicevano che sarebbero diventati i miei genitori, non avevo ancora realizzato il tutto. Si presentavano e stavano con me, mi riempivano di regali. Ho ancora una sciarpa che mi ha regalato quella donna bionda. Mi sentivo al centro”. Dei piani di Suor Rosalina la madre di Serena non sarebbe stata a conoscenza, come le spiegherà anni dopo: “Quando l'ha scoperto, è venuta a prendermi dopo scuola. Rosalina ha chiamato giorni dopo e ha minacciato mia madre, dicendole che si sarebbe pentita di avermi portato via".

Anche la storia di Martina – nome di fantasia – assomiglia a quella di Serena, ma stavolta la madre a cui stava per essere sottratta la figlia è lei. Martina è entrata in comunità incinta di qualche mese: “Avevo meno di vent’anni e mi sentivo persa, non sapevo che cosa significasse essere madre”. Era il 2014, la sorella di Martina era in comunità in quel periodo e, vedendo Martina in difficoltà, le suggerisce di parlare con lo psicologo della Shalom. “Sono entrata per fare un colloquio e non mi hanno più fatto uscire. Mi hanno detto che sarei dovuta restare lì”. All’inizio sembrava tutto bello, dice Martina, finché non incontra suor Rosalina: “Cambiati, perché sembri una puttana”.

Il calvario di una ragazza madre

La gravidanza prosegue in comunità e la suora sposta Martina in un distaccamento della comunità, a Villa D’Adda: “Lì facevo quello che facevano tutte le ospiti, quindi tagliavo l’erba in ginocchio con le forbici, dovevo svegliarmi di notte per pregare”. I problemi veri sarebbero arrivati, però, con l’avanzare della gravidanza: “Ero al sesto mese e non mi sentivo bene, non potevo lavorare in quel modo. Lì è iniziato il calvario”. Martina avrebbe continuato a lavorare nonostante la gravidanza, fino al giorno del parto: “Ero una ragazza madre, ero sola e ho chiesto che con me in quel momento ci fosse mia madre. Mi hanno risposto che i miei genitori non volevano venire. Ci sono rimasta malissimo”. I genitori di Martina vedranno la nipotina solo 14 giorni dopo: “Qualche mese prima ero finita in punizione e così per tutta la fine della mia gravidanza sono stata costretta a lavorare alle guarnizioni, in piedi. Quando sono venuti i miei per conoscere la bambina, io ero ancora in punizione e così mi hanno fatto stare in una stanza mentre una consacrata faceva vedere per la prima volta la mia bambina ai nonni".

L’ex ospite ci racconta che i primi mesi da madre sarebbero stati molto duri, soprattutto per via delle condizioni in cui lei e la sua bambina erano costrette a vivere: “Faceva molto freddo e non c’era il riscaldamento. Coprivo mia figlia con sei coperte, ma si è ammalata, ha avuto una polmonite”. Martina, come si legge anche nei documenti di cui Backstair è entrato in possesso, non sopporta le difficili condizioni di vita dentro la Shalom e vuole più libertà per accudire la bambina, così sceglierebbe di uscire. Ma la responsabile e gli operatori della comunità avrebbero fatto pressioni e osteggiato la sua decisione. I genitori di Martina, come ci racconta l’ex ospite, iniziano a capire che qualcosa non va e vogliono a tutti i costi riportare a casa figlia e nipote: “Un giorno si presentano alla Shalom, ma nessuno mi dice niente. Verso sera, mi chiama la psicoterapeuta della comunità e mi dice: ‘Hai due opzioni, o vai a casa con i tuoi genitori, che sono qui fuori, oppure resti qui dentro. Io volevo andare a casa, il problema è che avevano portato via mia figlia. Allora le ho detto che non avrei deciso finché non mi avrebbero riportato la bambina”.

Quando Martina va via con sua figlia, la vita sembra riprendere. “Arriva il giorno della festa della mamma, mi chiamano dalla caserma del mio paese – racconta l'ex ospite di Shalom – Vado e mi dicono che c’era una denuncia a mio carico. La suora, a nome degli psichiatri della comunità, chiedeva l’adozione immediata di mia figlia e l’allontanamento dalla famiglia, perché io non ero in grado di intendere e di volere e la mia famiglia non sarebbe stata capace di prendersi cura di mia figlia”. L’appuntamento in tribunale era fissato per il 3 settembre e quella mattina Martina riceve una chiamata: “Era il giudice per i minori, voleva vedermi nel suo ufficio. Quando arrivo, si scusa con me e dice che questa procedura non sarebbe dovuta essere aperta perché in tribunale c’erano già delle cause aperte contro la comunità per via dei minorenni”. Negli atti prodotti dal Tribunale di Brescia si leggono stralci della relazione dei servizi sociali, in cui si attesta che Martina si trova "in un buon momento evolutivo ed è in grado di svolgere adeguatamente il proprio ruolo genitoriale". La piccola, si legge ancora, "non versa in stato di abbandono" e dunque non si configurano i criteri di adottabilità cui si erano appellati Suor Rosalina e la comunità.

La disperazione di Martina è tanta in quel momento che sarebbe stata disposta a tutto: “Ero pronta a fare una valigia e ad andare via con la bambina. Perché devo subire tutto questo a causa di una persona che mi vuole portare via mia figlia e mi vuole far passare per una malata psichiatrica, quando io sono entrata in quel posto senza nessun problema di dipendenza né altro?”. Il ricordo di quel momento è ancora doloroso per Martina: “Si è permessa di non far assistere al parto mia madre, mi ha fatto credere che i miei genitori non volevano essere con me in quel momento”. Martina ci racconta che quando è entrata in comunità aveva sentito di altre storie simili, ma non aveva mai voluto crederci.

"Rosalina aveva programmato tutto: mi ha tolto mio figlio"

Tra le numerose storie arrivate alla redazione di Fanpage.it c'è anche quella di un'altra donna, Roberta, che in comunità è rimasta per nove anni. “Non ho parole per descrivere tutto quello che ho sofferto”, ci dice. Roberta ci racconta che sarebbe entrata in comunità perché il suo compagno era una persona molto violenta e l'unica sua preoccupazione era quella di tutelare il figlio che portava in grembo: “L’ho fatto contro la mia volontà”. Questa ex ospite arriva in comunità già al nono mese, partorisce e da lì inizia la sua discesa agli inferi. Non sapeva ancora, Roberta, che i piani della suora per lei e suo figlio sarebbero stati altri: “Era già tutto programmato. Nonostante io abbia dato il cognome a mio figlio riconoscendolo al 100%, la suora me l’ha portato via”. Secondo il racconto di Roberta, Rosalina l’avrebbe raggirata, facendo leva sulle sue fragilità: “Mi hanno messo davanti un foglio e mi hanno detto di firmarlo, altrimenti non avrei più rivisto mio figlio. Era il documento di adozione”. Il bambino sarebbe rimasto con Roberta in comunità per i primi nove mesi: “Poi sono venuti a prenderlo. Mi hanno detto che avrei potuto vederlo ogni due settimane, tramite gli assistenti sociali". Ma le cose non sarebbero andate proprio così: "Quando lo vedevo era sempre per poco tempo e da lontano, come se fossi una criminale. Poi ho smesso di vederlo, faceva troppo male”, ci racconta l’ex ospite. “Rosalina mi aveva ritenuta incapace di crescere mio figlio, per questo me l’aveva tolto. Ma sapete il colmo qual è? Per anni io ho badato ai figli delle altre donne della comunità, con l’illusione di poter vedere tornare mio figlio. Sono passati tanti anni e non l’ho più rivisto”. Roberta parla di un “capitolo chiuso” con la Shalom, ma la sua vita è segnata: “Mi ha portato via la sola cosa bella che Dio mi avesse dato, mio figlio”.

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