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Alex, come Samuele e Loris: come e perché una mamma si trasforma in un’assassina

Negli ultimi anni vent’anni l’opinione pubblica ha assunto la sconcertante consapevolezza che le madri possono uccidere i loro figli. Anna Maria Franzoni, Veronica Panerello, Viviana Parisi, Erzsebet Bradacs. Che cosa alberga nelle menti delle madri assassine? Che cosa le spinge a togliere la vita alle loro creature dopo avergliela donata?
A cura di Anna Vagli
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Niente è più innaturale del togliere la vita ad un bambino che ancora non ne ha esperito le gioie ed i sapori. Ancor più innaturale è quando un simile gesto è compiuto da chi, quella vita, gliel’ha donata: la madre. È stato così per Samuele Lorenzi, ucciso mentre dormiva nella villetta di Cogne dove abitava. Sua madre era Anna Maria Franzoni. È stato così per Loris Stival, assassinato con delle fascette da elettricista. Sua madre era Veronica Panarello.

Ed è successo ancora. È successo, a Città della Pieve, nel perugino, ove una donna di 43 anni è entrata in un supermercato con il figlio insanguinato in braccio e ne ha adagiato il cadavere sul nastro trasportatore della cassa. Si chiamava Alex, aveva poco più di due anni, e il suo corpicino esamine presentava ferite d’arma da taglio. Stando alle prime ricostruzioni Erzsebet Katalin Bradacs, di origini ungheresi, avrebbe inveito ferocemente contro il figlio prediligendo la zona del collo e del torace. L’arma del delitto, un coltello, sarebbe già stata rinvenuta dagli inquirenti.

Madri assassine

Negli ultimi anni vent’anni l’opinione pubblica ha assunto la sconcertante consapevolezza che le madri possono uccidere i loro figli. Un dato che desta preoccupazione vista l’inconcepibilità del gesto: a privare i figli delle loro esistenze sono proprio coloro che li generano, che se ne prendono cura e che dovrebbero accompagnarli nella crescita e nell’ingresso nella società adulta. Ed è di fronte a questa presa di coscienza che la collettività si spinge nella ricerca di una presunta follia della madre assassina. Una ricerca che trova conforto nella richiesta di perizia psichiatrica, avanzata nella quasi totalità dei casi di infanticidio.

Ciò è facilmente spiegabile. L’intento di rinvenire qualcosa di patologico nelle madri sanguinarie ha la funzione di appagare il senso di ansia ed irrequietudine delle altre donne. Pensare chi si macchia di un simile crimine come affetto da disturbi di matrice psichiatrica rinforza infatti la credenza (e la speranza) per la quale, ove non vi siano patologie, questo non possa concretizzarsi. “L’ha ucciso perché in preda alla follia. Io non sono pazza quindi non può succedermi niente di analogo”.

Perché le madri uccidono?

Non è semplice delineare una traiettoria univoca per quel che attiene le dinamiche dei figlicidi.  In gioco possono esserci infatti molteplici fattori, personali e culturali.  In alcuni casi, forse i più frequenti, le madri uccidono per vendetta. Per vendicarsi di un torto, reale o presunto, subìto dal partner o ex partner.

Così è successo ad Erzsebet, la madre del piccolo Alex che, per non lasciare il figlio al padre affidatario, è prima scappata in un Paese straniero e poi lo ha ucciso. Ma neppure questo, nell’immediatezza, le sembrava sufficiente a riparare il demerito inflittole dal Tribunale ungherese. Subito dopo l’omicidio, difatti, la donna avrebbe inviato la foto del corpo esamine all’altro suo figlio 18enne. Foto che arrecava la seguente didascalia: “Così non lo avrà nessuno”. Il messaggio, completo di allegato, sarebbe poi stato inoltrato all’ex compagno. Dal carcere, dove si trova in regime di custodia cautelare, però, la donna ora professa la propria innocenza. E lo fa coerentemente con gli scenari criminologici che si delineano in questi casi.

Le madri Medea, difatti, cercano di allontanare da sé qualunque sospetto, mettendo in piedi vere e proprie attività di depistaggio. Così aveva fatto Veronica Panarello, prima gettando Loris in un canalone senza le mutandine e poi fingendo serenità e collaborazione al corso di cucina. Chiaro il tentativo di simularne il rapimento da parte di un predatore sessuale.

Ma non finisce qui. Spesso le madri possono volutamente alterare la scena del crimine per cercare di attribuire la colpa ad altre persone vicine alla famiglia o per simulare un incidente domestico.

Se l’istinto è quello di uccidere

Fortemente radicato è lo stereotipo secondo il quale le madri sono biologicamente predisposte all’amore e all’annullamento della propria persona in favore della vita che hanno generato. Di conseguenza, è consolidato il mito opposto: la donna che non ha queste caratteristiche è mostruosa o malata. Nel mezzo, però, c’è la realtà. Realtà fatta di donne che troppo spesso tentano di dissimulare le loro ansie adeguandosi alle aspettative sociali. Aspettative che si fondano sulla convinzione sin troppo radicata per la quale: sei donna quindi sei fisiologicamente predisposta per essere una buona madre.

Ma le cose stanno diversamente. L’esperienza della maternità può assumere i connotati di una sofferenza e ansia invasiva.  Ansia che rischia di sfociare in uno stato di depressione, capace di generare pulsioni aggressive incontrollabili che si traducono nell’uccisione del figlio. In tale casistica rientrano anche quelle madri che, in preda ad una patologia non curata, non vedono prospettive per il proprio futuro. Al contrario, identificano come unica via d’uscita la chiusura della loro stessa vita insieme al loro bene più grande. Casi in cui le donne si suicidano con i propri figli. Come è successo per Viviana e Gioele. Ciò conferma che, quell’istinto materno di cui tanto si parla, secondo gran parte della letteratura scientifica, non esiste.

Come uccidono le madri?

Solitamente le modalità predilette sono quelle che richiedono l’uso di armi da punta e taglio o di un oggetto contundente. Ma anche quelle dell’annegamento e della defenestrazione. Talvolta, ancora in stato confusionale, le madri arrivano a confessare l’omicidio o tentano di togliersi la vita.  In altri casi, verosimilmente per non perdere la vicinanza della famiglia, negheranno per sempre. Come Anna Maria Franzoni.

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