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Un anno dopo la scomparsa di Giulio Regeni non vogliamo una “verità di comodo”

Dopo 365 giorni di bugie e depistaggi, il rischio secondo Amnesty International è che ci si fermi a “qualche tassello di verità” che “non sia incredibile come tutto quello che ci hanno propinato dall’Egitto, ma non sia neanche quella verità vera, completa e dunque scomoda che noi chiediamo”.
A cura di Claudia Torrisi
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Senato, la conferenza stampa dei genitori di Giulio Regeni

Giulio Regeni è sparito nel nulla il 25 gennaio di un anno fa, nel giorno del quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir, fra le 19.30 e le 20. Si trovava in Egitto da pochi mesi, per scrivere una tesi di dottorato per l'Università di Cambridge sui sindacati indipendenti. Nove giorni dopo la scomparsa, il suo corpo è stato rinvenuto seminudo, al lato di una strada in una zona periferica del Cairo. Qualche ora prima della notizia del ritrovamento, l'allora ministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi, che era al Cairo per una missione imprenditoriale, aveva fatto sapere che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi aveva assicurato la propria "personale attenzione" sul caso Regeni. Trascorso un anno, però, si può dire che le cose siano andate diversamente.

Sin dal giorno dopo il ritrovamento del corpo, se da un lato il procuratore egiziano ha subito parlato di "segni di tortura" sul cadavere del ricercatore ventottenne, dall'altro è partito un can can di versioni, bugie e depistaggi. Il direttore dell'Amministrazione generale delle indagini di Giza, ad esempio, si è subito affrettato a dire che non c'era "alcun sospetto crimine dietro la morte del giovane italiano Giulio Regeni", paventando l'ipotesi dell'incidente stradale. L'allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha chiesto "verità" sul caso, e ha convocato con urgenza l'ambasciatore egiziano Amr Mostafa Kamal Helmy, che gli ha assicurato che l’Egitto avrebbe fornito "la massima collaborazione per individuare i responsabili di questo atto criminale"; mentre il presidente del Consiglio Matteo Renzi si è messo in contatto con al Sisi che ha – di nuovo – ribadito la sua piena disponibilità. Nel frattempo la Procura di Roma ha aperto un'indagine per il reato di omicidio, e ha inviato i suoi investigatori al Cairo.

"La sensazione è quella di aver cercato sin dall'inizio una via negoziale, il che è comprensibile. La strategia, però, è stata complessivamente debole, con tanti momenti di pausa, d'inerzia, con un muoversi un po' da equilibristi", ha spiegato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. "A me – ha aggiunto – viene sempre in mente l'acrobata che cammina su un filo sottile e ha in mano una sbarra orizzontale. A un'estremità c'è scritto ‘Verità per Giulio', all'altra ‘Buon rapporti con l'Egitto'. Quest'immagine ha fatto sì che alla fine l'unico gesto rilevante sia stato il richiamo temporaneo dell'ambasciatore. Erano stati annunciati altri passi, quello sarebbe dovuto essere solo il primo se le cose non fossero cambiate. Questo rilasciare piccoli pezzi di informazione ogni tanto, questo dare disponibilità a fare qualcosa, io non lo definirei un motivo sufficiente per mandare nuovamente un ambasciatore al Cairo".

Una volta rientrata in Italia, la salma di Giulio Regeni è stata sottoposta ad autopsia, che ha mostrato come la morte sia stata causata da una frattura della vertebra cervicale, provocata da un violento colpo al collo. L'esame ha confermato anche che sul corpo ci fossero evidenti segni di tortura: bruciature di sigaretta, ferite da coltello e diversi indicatori di una "morte lenta". "Sul volto del cadavere di mio figlio ho visto tutto il male del mondo. L'unica cosa che ho ritrovato di Giulio è stata la punta del suo naso. Mai avrei immaginato di riconoscerlo da quel dettaglio", hanno detto poi in conferenza stampa la madre e il padre di Giulio, raccontando la prima volta in cui hanno visto la salma del figlio.

Nel corso di questi mesi dall'Egitto sono arrivate le ipotesi più disparate sulla sorte del ricercatore: incidente stradale, omicidio a sfondo omosessuale, uccisione per mano di spie dei Fratelli Musulmani per danneggiare il governo di Al Sisi, vendetta personale. Tra i depistaggi rientra anche l'annuncio dell'uccisione dei presunti sequestratori di Regeni: una gruppo di cinque uomini a casa dei quali erano stati fatti ritrovare i documeni del ricercatore friulano, poi risultati del tutto estranei. Tutto questo è stato accompagnato da reticenze, ritardi e da una collaborazione davvero scarsa da parte dell'Egitto – quando non inesistente, tra verbali mancanti, dati e video richiesti dalla Procura non consegnati. Mentre iniziava a delinearsi l'ipotesi che Regeni fosse stato arrestato quel pomeriggio del 25 gennaio, il ministro dell’Interno egiziano, Magdi Abdel Ghaffar, si affrettava a respingere lle accuse di un coinvolgimento della polizia nell'omicidio: le "diverse voci che si ripetono sulle pagine dei giornali che insinuano che possano esserci le forze di sicurezza dietro all’incidente" erano da considerarsi "inaccettabili".

Durante il suo discorso di fine anno, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha riferito di aver visto "segnali di cooperazione molto utili" da parte dell'Egitto, "dopo alcuni mesi caratterizzati da un proliferare di depistaggi". Secondo Noury, però, dichiarazioni come queste sono più che altro "frutto di un desiderio di normalizzare quanto prima possibile la situazione, attraverso un gesto pratico come quello del ritorno dell'ambasciatore al Cairo e soprattutto attraverso la ricerca di una verità che non sia incredibile come tutte quelle che ci hanno propinato dall'Egitto in questi mesi, ma non sia neanche quella verità vera, completa e dunque scomoda che noi chiediamo".

L'ultimo elemento emerso in questa vicenda è un video inedito che mostra il ricercatore friulano ripreso a sua insaputa mentre parla con il presidente del sindacato dei venditori ambulanti egiziani, Mohamed Abdallah, l'uomo che lo scorso dicembre ha dichiarato di avere denunciato Regeni al ministero degli Interni egiziano, perché "faceva domande strane e stava con gli ambulanti per le strade, interrogandoli su questioni che riguardano la sicurezza nazionale". Nel video Abdallah chiede ripetutamente a Regeni dei soldi da utilizzare per fini personali, ma il ricercatore nega la possibilità di consegnargeli: "Questi soldi non sono i miei. Io non posso utilizzarli a mio piacimento perché sono un accademico e non posso comunicare all’istituto britannico che intendo usare i soldi per fini personali. Si creerebbe un grande problema per i britannici".

https://www.youtube.com/watch?v=6xacPADEJ_s

Le immagini sono state girate il 6 gennaio del 2016, con una microcamera nascosta nascosta in un bottone della camicia: un'apparecchiatura in dotazione alla polizia del Cairo. Secondo Noury, mentre sui media egiziani il video è stato tagliato e montato ad arte per screditare il ricercatore, la versione integrale "in una situazione in cui Giulio è stato ingannato e ripreso di nascosto, ha mostrato di nuovo come sempre la sua limpidezza la sua onestà la sua trasparenza"- con buona pace di chi in questi mesi ha tirato fuori anche l'eventualità che fosse stato ucciso perché era una spia. Il video, ha spiegato il portavoce di Amnesty, va certamente nella direzione della definizione di "un ruolo di Abdallah come deus ex machina che produce allarme, attenzione, agitazione nella polizia, e un ruolo dei funzionari dello Stato che evidentemente su quella attività di denuncia si muovono con la loro azione di pedinamento".

In questa ricostruzione, però, c'è un punto debole: "Fin quando il protagonista di questa ricostruzione sarà Abdallah, si potrà avere un quadro abbastanza completo di quello che è accaduto dal 25 gennaio. Ma dal giorno della sparizione in poi evidentemente Abdallah non c'è più. Perché non è lui che arresta Giulio, che lo fa sparire, che lo tortura e lo uccide".

In una recente intervista, i genitori di Regeni hanno detto di essere in attesa dell'analisi del materiale avuto dalla Procura di Roma durante la visita al Cairo lo scorso dicembre: "Questo rappresenterà un banco di prova, se esiste una reale volontà di cooperazione. Noi da parte nostra non ci siamo mai sottratti a nulla, pur di ottenere la verità e dunque giustizia. Sappiamo essere pazienti ma siamo inarrestabili: vogliamo la verità e la vogliamo tutta".

Noury è convinto che sicuramente si potrà avere "qualche tassello di verità", considerato che è "inequivocabile oramai che in questa grave vicenda di violazione dei diritti umani siano coinvolti funzionari dello Stato egiziano. Qualcosa che per mesi e mesi la procura del Cairo ha evitato in tutti i modi di riconoscere". Dato per assodato questo, il rischio, secondo il portavoce di Amnesty, è che si arrivi a una "verità di comodo": quella secondo cui dietro questa storia "c'è qualche persona in divisa, ma rappresenta una manciata di mele marce in un cesto sano".

Invece, il coinvolgimento della polizia deve essere solo un punto di partenza, non di arrivo. In Egitto la tortura preceduta da sparizione è un fatto più che quotidiano e impunito, e in questi casi è assodato sia il ruolo dei servizi dell'agenzia per la sicurezza nazionale, che del ministro dell'Interno. "L'idea che l'unico caso in cui sia stato tutto frutto del lavoro di  mele marce sia quello di Giulio è inverosimile", ha proseguito Noury. Per questo motivo, per avere una verità che sia "reale" non basta stabilire il coinvolgimento di persone in divisa, bisogna "risalire la catena di comando" che ha portato alla morte di Regeni: "Se non sarà così, avremo solo una verità storica e politica che ci dice che c'è stata una gravissima violazione dei diritti umani di un cittadino italiano in un gruppo di migliaia di egiziani".

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