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Opinioni

La crisi fa paura, Moody’s taglia il rating di 26 banche italiane

La Grecia rischia l’uscita dall’euro, ma i mercati temono soprattutto un contagio che porti all’uscita anche di Portogallo, Grecia e Italia. Intanto Moody’s taglia il rating di 26 banche tricolori. Ed ora che si fa?
A cura di Luca Spoldi
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Moodys

La crisi torna ad essere sistemica, le borse vanno a rotoli. Il timore di un’eventuale uscita della Grecia dall’euro, dei relativi costi (sono a rischio almeno 400 miliardi di euro di debito pubblico) e del possibile “contagio” ad altri paesi come Portogallo (il cui default al 70% costerebbe sui 135 miliardi), Spagna (già alle prese coi postumi della crisi dello scoppio della bolla immobiliare, se subisse un default attorno al 35% costerebbe almeno altri 225 miliardi) e persino dell’Italia (per la quale a inizio anno non si escludeva, sia pure solo come ipotesi di studio, una ristrutturazione del debito pubblico del 20% che brucerebbe quasi altri 400 miliardi) ora fa paura davvero. Non solo perché si è ormai capito che la ricreazione sui mercati è finita da un pezzo e che il rally degli asset a rischio ha nuovamente lasciato spazio alla corsa degli “orsi” che di quegli stessi asset si stanno sbarazzando rapidamente, non solo perché si vede come il problema non riguardi solo la piccola Grecia o l’insignificante Portogallo, entrambi “sacrificabilii” sull’altare della “realpolitik” tedesca che ha egemonizzato da tempo l’azione politica europea cercando di risolvere a suon di austerity la crisi (proposta in teoria accattivante e da sottoscrivere a piè di lista per la sua portata culturalmente “rivoluzionaria”, se non fosse che è giunta nel tempo e nel modo peggiore, aggravando la crisi anziché risolvendola). No: la crisi ora fa paura perché torna ad essere vista come una crisi sistemica in grado di mettere fine all’esperimento dell’euro, un esperimento che non ha saputo in undici anni trasformarsi da puramente economico e di mercato in un’identità politica forte che potesse andare gradualmente a colmare le discrepanze tra singole economie dei Diciassette, i gap culturali delle rispettive classi dirigenti, le contrastanti interpretazione di cosa significasse essere “europei” da parte delle singole popolazioni nazionali. Ma se la crisi torna ad essere sistemica non bastano più neppure le due operazioni di rifinanziamento a lungo termine della Bce, che dopo aver “gettato nella fornace” oltre mille miliardi di euro rischia di dover tagliare nuovamente i tassi a giugno sperando che questo non induca le banche a congelare ancor di più il credito cercando di recuperare soldi vuoi attraverso continue operazioni di carry trade (ossia parcheggiando i capitali ricevuti in titoli di stato per lucrare la differenza tra interessi pagati sulla liquidità ricevuta a prestito e interessi ricevuti sui titoli di stato medesimi), mentre le misure a favore della crescita invocate da più parti rischiano di rimanere un lontano miraggio dai confini indefiniti sia come reale impatto sull’economia (e in particolare sul mercato del lavoro) sia come tempi necessari al loro manifestarsi.

Moody’s taglia il rating di 26 banche italiane. Finché il problema resta l’assenza di fiducia la liquidità è una leva preziosa ma insufficiente così come sono insufficienti per quanto importanti i “firewall” europei, visto che i fondi Efsf/Esm dispongono al massimo di 800 miliardi di euro (in parte già impegnati), per lo più da reperire sul mercato attraverso emissioni obbligazionarie, che esattamente come quelle dei singoli emittenti sovrani rischiano di subire negativamente la sfiducia e i timori dei mercati, specie alla luce di risultati elettorali che hanno chiarito una volta per tutte che gli europei sono stanchi di come sia stata sinora gestita la crisi e non ne vorrebbero pagare oltre il prezzo, ma rischiano di farlo: uno studio di Ubs ha spiegato che in caso di uscita di Grecia, Spagna, Portogallo e Italia dall’euro, con conseguente ritorno alle valute nazionali, svalutazioni, inflazioni in accelerazione, disoccupazioni stabilmente sopra il 20% e quant’altro, gli stati più deboli del Sud Europa finirebbero col subire tra i 9.500 e gli 11.500 euro di maggiori costi all’anno per almeno un decennio per ciascun contribuente (per l’Italia il costo sarebbe attorno a 10 mila euro in più all’anno per ogni contribuente), mentre i cittadini degli satti più “virtuosi” come la Germania dovrebbero pagare sugli 8 mila euro di maggiori oneri il primo anno, 4.500 il secondo e poco meno di 4 mila negli anni successivi fino al decimo. Di certo a rasserenare gli animi non contribuiscono le agenzie di rating che in questo caso come da calendario stanno già riducendo il rating dei soggetti più a rischio, ossia dei gruppi finanziari europei, partendo proprio dall’Italia. Moody’s infatti (che aveva peraltro preannunciato questa mossa sin dallo scorso febbraio) ha tagliato il merito di credito di 26 istituti italiani, citando la debolezza del mercato dovuta al piano di austerità, l’aumento delle sofferenze e delle rettifiche. Tra gli istituti colpiti dalla decisione vi sono anche UniCredit, Intesa Sanpaolo, Mps, Banco Popolare, Ubi Banca, ma anche Bpm, Carige, BancApulia, Popolare di Spoleto, Banca Sella, Credem, Credito Valtellinese e Iccrea.

E adesso che si fa? A rischiare sono oggi non solo i titoli azionari e obbligazionari degli istituti colpiti dal provvedimento, ma anche i titoli di stato dei paesi periferici (ieri il Btp decennale italiano ha visto il rendimento risalire sino a sfiorare il 5,70%, vale a dire il 4,24% in più di un Bund decennale) e più in generale tutti i maggiori mercati finanziari europei e mondiali (anche se in serata da Atene sono giunti alcuni flebili segnali di speranza in una composizione della crisi politica che eviti nuove elezioni e confermi la Grecia nell'euro a fronte di modifiche “marginali” dei propri impegni). In realtà quello che ora servirebbe sarebbe un attimo di calma e la capacità di ragionare a mente fredda. I mercati chiedono chiarezza, vogliono essere rassicurati del fatto che i soldi che sono stati (e verranno in futuro) prestati torneranno regolarmente indietro, che non ci saranno altri coinvolgimenti “volontari” degli investitori privati nella gestione della crisi. I politici greci chiedono dal canto loro ulteriori sconti, un ennesimo “salvataggio” o almeno una nuova modifica degli impegni sottoscritti poco più di un mese e mezzo fa. Il Portogallo potrebbe cercare di ottenere a sua volta qualche concessione, la Spagna già ora spera che Bruxelles non ficchi troppo il naso nella sua gestione della crisi immobiliare e del credito e conceda un po’ più tempo di quanto finora richiesto per varare le misure di austerity e le riforme necessarie a far rientrare i parametri deficit/Pil e debito/Pil in sicurezza, l’Italia fa capire che è pronta a sostenere la Francia di Hollande nella richiesta di un “ammorbidimento” dell’austerity europea. In buona parte ciascuno ha le sue ragioni ma pure non pochi torti. Il problema sembra allora diventare squisitamente culturale ed anzi di narrazione: serve chi sappia raccontare una storia di rinnovata energia positiva, di crescita, di fiducia, di voglia di riscatto. Altrimenti prevarrà la narrazione negativa di chi imputerà a uno strumento (l’euro) la colpa del fallimento di un’intera classe politica e imprenditoriale (e in ultima analisi del corpo elettorale nel suo insieme). La storia siamo noi, nel bene e nel male: sapremo raccontarla (ai mercati e a noi stessi) in un modo sufficientemente avvincente da permetterci di ripartire?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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