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Opinioni

Trump: meno tasse e meno norme per le auto made in Usa, funzionerà?

Trump chiama a raccolta i vertici dell’auto Usa e promette sgravi fiscali e minori vincoli ambientali per chi produrrà negli Usa. Fiat Chrysler Automobiles corre in borsa, ma davvero la ricetta di Trump può porre fine alla globalizzazione e far bene all’economia a stelle e strisce?
A cura di Luca Spoldi
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Trump chiama a raccolta i vertici dell’auto Usa a partire da Ford, General Motors e Fiat Chrysler Automobiles e propone, riassumendo poi la sua idea in un tweet: “nuove fabbriche costruite qui per auto costruite qui” in cambio di minori tasse e di una deregulation sul fronte delle norme anti inquinamento. La borsa festeggia, col titolo Fca che chiude la giornata in rialzo del 6%. Ma davvero stanno così le cose e, soprattutto, la Trumpnomics può davvero funzionare?

Andiamo con ordine: nel caso di Fca sicuramente l’idea di una deregulation e di minori tasse in cambio di investimenti produttivi negli Usa può fare bene, perché da un lato il gruppo può sperare di ridurre al minimo l’impatto dell’inchiesta dell’Epa che poche settimane fa ha proposto al produttore di pagare 4,6 miliardi di dollari per chiudere ogni pendenza relativa al nuovo capitolo del “dieselgate”.

In più Marchionne ha già promesso di investire 1 miliardo di dollari per riportare negli Usa alcune produzioni in precedenza effettuate in Messico, mossa magistrale del numero uno di Fca che dopo aver sborsato meno di 4 miliardi di dollari per rilevare la malconcia Chrylsler ha così “venduto” al meglio una decisione già preannunciata nella revisione del piano strategico 2014-2018, in cui si parlava di “riallineamento della capacità produttiva” per Jeep (in particolare i pickup Wrangler e Ram e la Grand Cherokee) e la possibilità di avviare la produzione di nuovi modelli negli Usa, dove la domanda di “utility vehicle” e truck appariva destinata a mantenersi forte.

La borsa fa dunque bene a festeggiare, ma questo significa anche che la Trumpnomics può davvero avere successo e porre la parola fine alla globalizzazione? Questo è molto meno probabile: Ford, General Motors e Fca continueranno comunque a produrre nei loro impianti messicani (e del resto del mondo) in base a un semplice calcolo di convenienza che già agli inizi dell’Ottocento l’economista inglese David Ricardo aveva illustrato con la sua teoria della distribuzione del valore (o dei vantaggi comparati) che decenni di osservazione sul campo hanno poi comprovato essere corretta.

In sostanza quando un paese passa da un’economia chiusa, a cui sembrano sognare di poter tornare i sostenitori di molti esponenti populisti come Trump, ad un’economia aperta gli attori economici (non importa se singoli professionisti o aziende) rinunciano a produrre beni e servizi di minor valore per poter concentrare i loro sforzi nella produzione di beni e servizi a più elevato valore aggiunto, migliorando così la loro produttività e consentendo ad altri soggetti, non nazionali, di fornire quei beni e servizi che essi hanno rinunciato a produrre.

Aggregando questa tendenza naturale e storicamente verificata a livello di stati, aprendosi al commercio internazionale (la “globalizzazione”, appunto) uno stato ha la possibilità di specializzarsi in settori a maggior valore aggiunto, incrementando la ricchezze prodotta (Pil), l’occupazione complessiva (ossia non unicamente quella all’interno del singolo paese ma di tutti i paesi che partecipano agli scambi commerciali) e i salari dei lavoratori dipendenti, nella misura in cui questi ultimi siano legati alla produttività, crescente.

La riprova per l’Italia si è avuta due volte: la prima, durante “l’autarchia” voluta dal Fascismo, quando la produttività crollò e con essa la crescita economica del paese, la seconda col “boom” degli anni Sessanta, quando l’ingresso nella Ceca prima e nella Cee poi consentì l’apertura agli scambi internazionali facendo volare le esportazioni (e le importazioni, essendo l’Italia un paese trasformatore sostanzialmente privo di materie prime) e l’economia tutta.

Cosa non ha funzionato se ora Trump propone il ritorno a dazi commerciali e ad altre misure protezionistiche? Anche in questo caso la verità è davanti agli occhi di tutti, se la si sa vedere: aziende e stati hanno rinunciato, volontariamente o a seguito del sopraggiungere di crisi economico-finanziarie, a specializzarsi in settori a più elevato valore aggiunto, non sono stati in grado di compensare la perdita di produzioni di basso valore con nuove produzioni a più elevata marginalità, non hanno investito per tempo nell’educazione dei giovani lavoratori, hanno puntato a tutelare più chi operava in settori maturi e “a rischio” rispetto ad accelerare lo sviluppo di nuovi settori.

La produttività è così gradualmente calata, in Italia in modo particolare, proprio mentre economie emergenti in Asia come in America Latina o in Est Europa facevano a gara a investire in produzioni e settori a marginalità progressivamente più elevata (valga l’esempio di Singapore, passata in meno di una generazione da essere un produttore di fiori di carta a centro di eccellenza per la produzione di semiconduttori e componenti per computer).

Così ben venga per Fiat Chrysler Automobiles la possibilità di ottenere il massimo dei vantaggi col minimo sforzo, ma no, la Trumpnomics non segnerà la fine della globalizzazione e se anche lo facesse non porterà ad alcun vantaggio, tanto più se malauguratamente altri stati dovessero “prendere esempio” e rimettere le lancette della storia indietro di una settantina d’anni. Perché non è vero che si stava meglio quando si stava peggio, è solo che ci siamo dimenticati quanto peggio stavamo.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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