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Andrea Pellegrino racconta la vita di un tennista: “Rinunce e sacrifici, ho pensato di mollare”

Andrea Pellegrino, tennista italiano numero 155 al mondo, a Fanpage.it ha parlato della sua carriera, dei retroscena della vita sui campi e del momento d’oro del tennis azzurro.
A cura di Marco Beltrami
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È un momento particolare per la carriera di Andrea Pellegrino, ottimista e pronto per un ulteriore salto di qualità. Il tennista pugliese, che purtroppo è stato frenato in questo avvio di stagione da alcuni problemi fisici e ora si sta disimpegnando in terra sudamericana, ha sensazioni molto positive e spera di giovare del momento d’oro del tennis azzurro, certificato in primis dai successi di Sinner e della squadra di Davis ma anche dai tanti buoni risultati dei nostri atleti.

Attualmente numero 155 al mondo, con un best Ranking di 136, il classe 1997 reduce dalle qualificazioni agli Australian Open e dai tornei di Buenos Aires e Rio, vuole proseguire sulla scia del buon finale 2023, quando ha ottenuto la terza vittoria della sua carriera in un torneo Challenger a Bad Waltersdorf. Non solo singolare per Pellegrino che si è rivelato uno stimato doppista formando una coppia ben assortita con Vavassori (finalista agli Australian Open con Bolelli) capace nella scorsa annata di trionfare in Cile nel torneo di Santiago.

Ai microfoni di Fanpage, Andrea Pellegrino ha parlato in primis della sua carriera, offrendo poi diversi spunti sul dietro le quinte della vita dei tennisti, non tutta rose e fiori come sembra ma ricca di sacrifici. Nel suo percorso non sono mancati momenti bui in cui ha pensato di gettare la spugna. Inevitabile anche un parere su Sinner contro il quale ha perso una finale di un torneo giovanile.

Andrea, ti senti pronto per un ulteriore salto di qualità per la tua carriera?
"L’anno non è iniziato proprio come volevo perché avevo fatto una buona preparazione e stavo giocando molto bene, ma mi sono fatto male a metà dicembre al tallone e ho ancora un po’ di dolore. Sono arrivato in Australia mezzo infortunato e ho giocato al 50% delle mie potenzialità. Un po’ mi è dispiaciuto perché mi sentivo pronto, stavo bene fisicamente e mentalmente per fare un buon risultato. È ancora presto però, e per questo sono fiducioso: rispetto agli ultimi anni nel circuito e nei tornei mi sento più maturo e tranquillo quando devo affrontare le partite, ho una maggiore sicurezza. Ovviamente non dipende solo da me, perché ci sono avversari, infortuni e imprevisti che uno non può controllare".

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Puoi far capire ai nostri lettori quanto è difficile la vita del tennista, quanto sia duro comunque mantenersi su alti livelli tutti i giorni?
"Non è per niente semplice. Ci sono diversi fattori che non dipendono da te stesso. Tu puoi controllare l'impegno massimo negli allenamenti e nei tornei, puoi cercare sempre di spingerti oltre. Poi ci sono infortuni, avversari, tanti aspetti che possono influire dal punto di vista mentale, come la famiglia e tante altre situazioni. È uno sport che si gioca tutti i giorni e non è che tutti i giorni uno sta bene, è positivo, ha voglia di allenarsi e giocare la partita. Questo aspetto presenta risvolti sia positivi che negativi: da un lato fare le sempre le cose bene non è facile, dall'altro, però, quando le cose vanno male hai tante possibilità di rifarti. Perdi una partita o un torneo e pochi giorni dopo hai la possibilità di rifarti. È una macchina che va molto veloce".

Dall'esterno dunque è facile commentare e giudicare, si pensa agli atleti come dei personaggi dei videogame con caratteristiche fisse.
"Per chi non l'ha provato sulla propria pelle è difficile da capire. Guardo le partite di calcio ed esprimo dei commenti stupidi tipo ‘quello non corre'… poi quando ci sei dentro ti accorgi che ci sono mille componenti che possono influire su prestazione o risultato. Non è facile. Dietro c'è una preparazione e una quantità di ore di allenamento con tensione, sempre difficile da metterci costantemente per 3-4 ore di fila. Ci sono giorni diversi: una volta ci sono 40°, l'altra 20°, poi il sole, poi il vento. Bisogna essere bravi ad adattarsi a tutto quello che ci circonda e fare il massimo".

Comunque è un momento d'oro per il tennis italiano. Atmosfera contagiosa, non credi?
"Quando ci sono determinati traguardi, e vedi che giocatori del nostro livello o con cui ti sei allenato fanno risultati, dici ‘allora posso farlo anche io'. È uno stimolo che fa da traino, tutti ormai dicono ‘se lo fa lui posso farlo anche io'. Quindi ci credi di più, hai più voglia, ci metti ancora più impegno e fai le cose meglio, ed è il motivo per cui ci sono tanti giocatori nei primi 200. Basta vedere anche le qualificazioni degli Australian Open. Più i ragazzi ottengono risultati e più quelli che sono dietro in classifica ci credono".

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Ti aspettavi questi risultati da parte dei tuoi colleghi, più o meno importanti?
"Chi più, chi meno. Per quanto riguarda Sinner non c'è bisogno di capire molto di tennis per rendersi conto che è un fenomeno. Lo sanno anche i muri. Non sono sorpreso che abbia vinto uno Slam. Vedendo il livello che aveva già due anni fa, le partite che ha giocato e i risultati che ha ottenuto, sapevo che sarebbe arrivato. Ci sono alcuni invece dai quali ti aspetti meno, perché hanno fatto un salto velocissimo, ma non mi sorprende niente perché al giorno d'oggi il tennis è diventato talmente veloce, potente.. si è evoluto tanto e tutti possono vincere con tutti".

C'è stata una rivoluzione, l'hai sentita anche sulla tua pelle?
"L'ho notato negli ultimi sei anni, anche a livello alto. È diventato un tennis molto fisico, con tutti gli atleti che sono super preparati e seguiti. Si badava molto di più alla tattica prima, ma ora si gioca talmente forte che è più difficile giocare tatticamente su ogni punto. Servono tutti a 230 e tirano pallate fortissime, quindi spesso la tattica va a farsi benedire. Si è sviluppata la parte atletica, anche con i preparatori. Anche come ci si allena oggi fisicamente è completamente diverso, si è evoluto tutto tantissimo".

Soffermandoci su Sinner, contro il quale hai giocato una finale, c'è un aspetto particolare che ti ha colpito?
"Quello che più mi colpisce di lui e fa la differenza è l’aspetto mentale. Parliamo di un ragazzo che ha 22 anni, molto semplice e umile. Anche il modo che ha di parlare nelle interviste e come affronta le cose fa capire che è un ragazzo con la testa sulle spalle. Non è facile a 22 anni fare quei risultati, guadagnare una valanga di soldi, avere quel successo e mantenere la testa sulle spalle senza montarsi la testa. Anche l'invito rifiutato a Sanremo, non è affatto facile non farsi coinvolgere da questo contorno. In Italia quando si ottengono dei risultati ti portano a diventare un personaggio famoso e ti invitano ovunque. Starne fuori e ragionare in questo modo è importante. Sicuramente ha delle persone intorno che sono giuste e lo aiutano, ma anche lui con i suoi ragionamenti fa la differenza per la sua carriera".

A proposito, continuerà il fortunato sodalizio in doppio con Vavassori dopo la sua finale agli Australian Open?
"Lui quest’anno giocherà più con Bolelli, abbiamo anche una classifica diversa. Penso che comunque quando non sarà con Simone, la prima persona a cui lo chiederà sono io".

Quali sono gli amici veri che hai nel circuito?
"Ho rapporti di vera amicizia nel tennis solo con due persone, col resto siamo amici ma non ci vado a cena o a casa. Sono molto legato a Vavassori e Berrettini, perché ci conosciamo da una vita e usciamo insieme".

Un aspetto che sembra contraddistingua tutti i tennisti italiani oggi è quello di essere bravi ragazzi, puliti, con atteggiamento positivo in campo e fuori. Sei d'accordo?
"Sono tutti, al di là del campo e a livello personale, bravissimi ragazzi. Non c’è uno che è cattivo o eccessivo. Sono tutti ragazzi perbene che vengono da famiglie perbene. Tutta gente assolutamente normale, poi ovviamente nel campo la competizione ti può portare ad avere qualche atteggiamento oltre le righe, ma ci sta. La gente tende a vedere sempre le cose negative e non guarda mai quelle positive. Anche quando gioca Djokovic per esempio, tutti non vedono l’ora che faccia qualcosa di male per commentare e poi non vedono tutto quello di bello che fa in campo".

C'è un po' di accanimento sulle situazioni meno legate al gioco?
"È un peccato perché si tende sempre a guardare l’atteggiamento sbagliato invece del gesto atletico, della tattica, della forza mentale. Soprattutto in Italia c’è questa tendenza a non vedere l’ora che una persona faccia qualcosa di sbagliato, come la racchetta rotta o una parolaccia. Siamo persone normali che vivono di stress, di tanti sbalzi d’umore e uno non può controllare tutto quello che fa. Il problema si avverte soprattutto in Italia, perché in altre nazioni si tende a valorizzare il giocatore e non si sfocia in cose che non hanno niente a che fare col tennis".

Mi aggancio a questo per chiederti del tuo rapporto con gli haters, mi è sembrato dai commenti ai tuoi post social che anche tu debba fare i conti con gli scommettitori.
"Sono tanti anni che è così: la gente scommette, perde soldi e ti insulta. Ma succede anche se vinci, perché quelli che avevano giocato contro di te ti insultano perché hai vinto. È un circo che non finisce mai, per quanto mi riguarda non do importanza e solo ogni tanto leggo qualche messaggio per farmi due risate. Non me ne frega niente. Alcuni però ci prestano più attenzione e ci rimangono male, soprattutto i più giovani. Si ritrovano in questo vortice pesante. Il problema è che non c’è una soluzione, l’unica cosa è far finta di niente perché sennò non ne vieni fuori. Bisogna farci l’abitudine e non farsi contagiare da tutto. Poi quando magari rispondi a qualcuno, capita che ti vedono al torneo e ti chiedono anche la foto. A quel punto capisci che sono persone frustrate che non sanno cosa fare nella propria vita".

Qquanto è difficile passare da essere un giocatore forte a livello juniores a fare il professionista?
"Sono due cose diverse. Se sei stato molto forte nel livello juniores poi non è detto che tu riesca a diventare professionista, ci sono mille esempi di gente che è stata numero uno junior e poi non ha mai fatto il professionista. Comunque ti abitua a un determinato ambiente, alla pressione e ai palcoscenici. Se sei stato molto forte a livello giovanile puoi giocare tornei importanti con tanta gente che ti guarda e quella è una cosa che può fare la differenza. Perché non è così facile: tanti giocano bene i tornei dove non c’è nessuno e poi quando giocano in uno stadio con tanta gente si bloccano e si inibiscono andando in difficoltà. Per questo puoi prepararti meglio al professionismo".

Diverso ovviamente il caso della gavetta nei Futures e nei Challenger.
"A livello di risultati e del resto però sono cose diverse, perché quando passi ai Futures e ai Challenger trovi ambienti difficili, perché a 17-18 anni affronti gente molto più grande che magari ti rompe nel campo e ti dice determinate cose. Lì, tranne i fenomeni che passano velocemente sfruttando magari anche wild card, si fanno step formativi importanti. Impari a gestire determinate situazioni, ad affrontare gente con più esperienza".

Un argomento molto caldo è quello legato alla differenza di guadagni tra i primi 100 giocatori al mondo e il resto, cosa puoi dirci in merito?
"Ad oggi penso che guadagnino i primi 250 del mondo, il resto fa fatica e ci rimette. Non dico che ci perdi, ma vai a pari. Quelli che riescono a giocare Slam e tornei importanti guadagnano e si possono permettere un team più ampio, con più gente che fa la differenza. Più uno è su di classifica e più si può permettere un determinato staff e altre cose che poi influiscono anche nelle prestazioni".

Parliamo di te e del rapporto con tuo padre che è un maestro e tecnico federale molto stimato. Com'è stato crescere e poi affermarsi con un genitore che "mastica" tennis?
"Ho iniziato a giocare grazie a lui e sono stato con lui fino a 14 anni, mi ha insegnato tanto. I principi, la dedizione al sacrificio, mi ha sempre inculcato il fatto di dover lavorare e allenarmi tanto. Poi sono andato via di casa a 14 anni perché un rapporto padre-figlio in campo e nel lavoro non è facile. Quando una cosa la dice un padre a un figlio non viene ascoltato, mentre se la dice un altro ci si mette più attenzione. Mio padre anche oggi mi aiuta tanto, ed è sempre presente: dall’iscrizione ai tornei, alla gestione dei rapporti con allenatori e preparatori, anche se ovviamente non c’è più quel rapporto di campo, dove lui viene e vede gli allenamenti.  Tutto si è ridotto al più al fatto di venirmi a vedere, perché gli fa piacere e anche a me".

Quando hai capito che il tennis sarebbe diventato la tua professione?
"Sin da subito, perché quando sono andato via da casa a 14 anni avevo le idee chiare. C’ho sempre creduto e sono andato avanti per la mia strada, poi a 18 anni ho capito che potevo farlo come professione perché ho ottenuto dei risultati".

Chiudiamo con una domanda particolare, c'è mai stato un momento in cui hai pensato di smettere?
"Momenti difficili sono tantissimi, anche oggi. Mi è successo di pensare di smettere di giocare, di non essere felice, di chiedermi se stavo facendo la cosa giusta e se mi rendeva felice. Tante volte ho avuto dubbi e mi sono sentito debole, ma mi sono sempre reso conto che quando mi sono allontanato dal tennis, il tennis poi mi mancava. Quando ci sei dentro vorresti avere più spazi e fare la vita di una persona normale, fare cose che noi non possiamo fare perché hai un determinato stile di vita con tante rinunce e sacrifici. Quando sono stato lontano mi è sempre mancata la vita frenetica, l’adrenalina dei tornei e delle partite, non dormire per l’ansia, la delusione e la felicità per una vittoria, il viaggiare ogni tre giorni. Il tennis, insomma".

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