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Cigarini, ex meccanico Ferrari: “Seguano Hamilton anche se Leclerc va più forte. Come con Schumacher”

Nell’intervista esclusiva a Fanpage, l’ex meccanico di Schumacher in Ferrari, Francesco Cigarini, spiega perché oggi la scuderia F1 di Maranello dovrebbe continuare a puntare su Lewis Hamilton nonostante stia perdendo il confronto diretto con Charles Leclerc: “Anche con Micheal e Todt all’inizio ci volle pazienza”.
A cura di Michele Mazzeo
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Il Mondiale della Formula 1 2025 ha messo la Ferrari davanti a una crisi tecnica che sta frenando in modo evidente il potenziale della SF-25. Problemi di gestione termica, freni, sospensioni e un equilibrio aerodinamico mai pienamente trovato hanno reso difficile il lavoro di Frederic Vasseur, costretto a gestire un doppio fronte interno: quello del rendimento in calo e quello delle gerarchie tra Lewis Hamilton e Charles Leclerc. In un momento in cui la McLaren detta il passo e Verstappen resta il punto di riferimento tra i piloti, la Ferrari si interroga sul proprio futuro tecnico e umano. Per capire cosa sta succedendo davvero a Maranello, Fanpage.it ha intervistato Francesco Cigarini, ex meccanico storico della Scuderia e figura chiave nell'era Schumacher, testimone diretto di un modello di squadra che oggi sembra lontano.

Cigarini ha trascorso oltre vent'anni nei box Ferrari, dal periodo d'oro con Michael Schumacher fino alle stagioni più turbolente dell'era post-Todt. Meccanico esperto e uomo di pista abituato a lavorare sotto pressione, è stato protagonista di momenti simbolici della storia recente della Scuderia, dai pit-stop decisivi (uno dei quali gli costò anche la frattura di tibia e perone, quando nel GP del Bahrain del 2018 fu investito dalla monoposto di Raikkonen) ai test che hanno cambiato il corso delle stagioni. Oggi, dopo aver lasciato Maranello, è una delle voci più lucide nel leggere le dinamiche interne della Formula 1 moderna: conosce la Ferrari dal suo lato più umano, quello delle persone che costruiscono la vittoria un dado alla volta.

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Nell'intervista esclusiva a Fanpage.it, Cigarini spiega perché "sbloccare le idee" è la vera chiave per risalire la china e perché la Ferrari dovrebbe avere il coraggio di seguire Hamilton anche quando il cronometro dà ragione a Leclerc: "È successo anche con Schumacher e Todt, all'inizio servì pazienza". Parla della necessità di stabilità interna, di una leadership che non viva di rivoluzioni e dell'importanza di chi, in pista, sa ancora "sporcarsi le mani" per risolvere i problemi. Racconta retroscena inediti, dai test di Valencia 2013 alla vittoria di Monza 2010, e spiega cosa significhi davvero "essere Ferrari": lavorare non per sé, ma per mantenere vivo un mito.

Cosa significa per una squadra come la Ferrari entrare in una fase, come quella attuale, in cui fatica a sfruttare la macchina?

"Questa fatica è probabilmente frutto di un progetto ambizioso che però non ha dato i suoi frutti. Quando provi a vincere, sperimenti soluzioni che magari alla fine non portano il risultato sperato. Bisogna sempre tenere conto che oggi si è sotto budget cap, quindi lo sviluppo è qualcosa di molto più limitato, soprattutto se le modifiche da fare sono invasive. Va quindi inteso quanto lo siano e quanto incidano".

Come si può uscire oggi da questa situazione?

"In ogni caso, è sempre utile apportare modifiche per comprendere cosa non è andato bene: serve sia per il progetto 2026 sia per cercare di sbloccare quello attuale. E per farlo bisogna sbloccare le idee: a tutti i livelli, bisogna cominciare a focalizzarsi su quali possono essere le soluzioni, metterle sul tavolo e poi la direzione prende i provvedimenti e detta la linea. Ma prima di tutto devi sbloccare le idee. Se non sbaglio anche in McLaren è successa una cosa del genere: hanno rotto contratti con persone che bloccavano la libertà delle idee. Io non dico che bisogna fare lo stesso, ma serve un contesto dove tutti possano proporre. Poi si valuta quale idea è la migliore".

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Ci racconti un episodio in cui un intervento tecnico in pista ha fatto la differenza?

"Mi viene subito in mente il 2013, durante un test a Valencia con gli scarichi soffiati che puntavano troppo verso le gomme. Il primo giorno girò Felipe Massa e dichiarò subito che le posteriori andavano in overheating. Il giorno dopo toccò ad Alonso, che confermò lo stesso problema. Ci fu una reazione immediata: un collega saldò gli scarichi già sul posto, non in modo approssimativo ma preciso, modificando l'angolazione per farli ‘bruciare' meno. Questo risolse il problema e permise di proseguire i test".

Quale fu la reazione degli ingegneri?

"La direzione tecnica, che all'epoca era inglese (il dt era Pat Fry, ndr), mi sembrò un po' troppo calma, mentre io ero dispiaciuto perché ci tenevo a far bene. Ho imparato che gli inglesi non vanno in iper-reattività come noi italiani. Più tardi sentii che la soluzione definitiva sarebbe arrivata solo alla prima gara e questo mi portò un po' di sconforto: invece di reagire subito come la Ferrari sapeva fare, si preferì un approccio più cauto".

La soluzione improvvisata però funzionò…

"Per fortuna quella soluzione provvisoria in pista si rivelò migliorativa. Avere persone capaci di ‘arrangiarsi' – nel senso buono – è fondamentale: la pista ti impone spesso soluzioni immediate. All'epoca fu una decisione ‘all'italiana', ma funzionò. E ci servì anche ad avere chiaro che ogni direzione tecnica ha la sua velocità di reazione".

Sotto questo aspetto vedi delle analogie o delle divergenze con quanto accade oggi?

"Nelle squadre di Formula 1 c'è sempre una componente tecnica e una politica. Se regoli bene queste due dinamiche ottieni risultati. Bisogna capire se in Ferrari oggi qualcosa si è bloccato, se le decisioni le prende solo una persona e chi sta sotto si sente inascoltato. In questi casi la gente smette di proporre. Non parlo solo della Ferrari: è una dinamica che può verificarsi ovunque. Se le idee dal basso non vengono ascoltate, la creatività si spegne. Sbloccare le idee è sempre fondamentale perché porta movimento".

Ti è mai capitato di proporre qualcosa di tuo nei 22 anni passati in Ferrari?

"Sì. Una volta avevo un concetto per il pit-stop: un sensore ‘con tastatore' all'interno della pistola per rendersi conto se avevi avvitato fino in fondo o stavi per spannare. Lo proposi come idea embrionale, senza progetto completo: dissi solo ‘questo è l'obiettivo, poi voi sapete se è valido e come svilupparlo'. Alla fine andò a buon fine".

Che tipo di leadership faceva la differenza ai tempi di Schumacher? 

"Ai tempi di Schumacher la leadership nasceva da una fiducia totale tra pilota e team: Michael era puntiglioso e trainante, ma non si scontrava con Ross Brawn. Se Ross gli diceva ‘Michael, keep your head down and push', lui eseguiva. Era una fiducia costruita negli anni, basata sulla consapevolezza che tutti lavoravano con un obiettivo comune. Ognuno si assumeva le proprie responsabilità e, se si perdeva, si perdeva insieme".

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La Ferrari oggi può ricostruire qualcosa di simile intorno a Hamilton?

"Hamilton porta una conoscenza e un'organizzazione tipica dei team inglesi, molto strutturata e diversa da quella Ferrari. Oggi si può ricostruire qualcosa del genere con Lewis: prendere un pluricampione del mondo è stata una scelta giusta, non solo per marketing ma per l'esperienza che porta. La questione è quanto la squadra pesi davvero quello che dice. Se lui propone qualcosa e non viene ascoltato perché ‘Leclerc va più forte', si entra in un loop: il pilota non si sente parte della direzione tecnica".

Quindi serve fidarsi di lui anche oltre il cronometro?

"Leclerc è velocissimo ed è più abituato a guidare ‘sulle uova'. Hamilton va forte, ma ha bisogno di una macchina più solida. Se lo ascolti, puoi migliorare anche a lungo termine. Serve tempo, come accadde con Schumacher e Todt: all'inizio ci volle pazienza, ma poi arrivarono i risultati. Io darei piena fiducia a Lewis, anche se il cronometro oggi non lo premia. E ne trarrà beneficio anche Leclerc".

Cosa accomuna i grandi campioni come Verstappen, Hamilton e Schumacher?

"Il grande pilota si riconosce dall'impegno e dall'atteggiamento. Anche quando è in difficoltà, non molla mai. Questo è un segnale fortissimo per il team: mantiene alta la concentrazione e fissa l'obiettivo. Un campione trascina la squadra, come faceva Michael. Quando vedi che il pilota lavora tanto, lavori tanto anche tu. Se lui ha fiducia in te, ti restituisce entusiasmo".

Micheal Schumacher come vi trasmetteva l'entusiasmo?

"Schumacher era un traino silenzioso: maniacale in tutto, restava fino a tardi, non lasciava nulla di intentato. Analizzava telemetria, modo di guidare, tutto. Coinvolgeva sempre il team nella ricerca della prestazione. Non imponeva nulla, ma il suo modo di fare obbligava tutti a dare di più. Aveva un'aura che faceva reagire positivamente chiunque lavorasse con lui".

Cosa accade dentro una squadra come la Ferrari quando si sbaglia un'esecuzione?

"Oggi in Ferrari ci sono persone molto competenti. Quando succedono queste cose però all'interno c'è sempre tristezza e rabbia perché certe cose non dovrebbero succedere. La prima reazione è quella di chiedersi come evitare che accada di nuovo: si analizza, si cambiano procedure, si alza il livello d'attenzione.
Un pit-stop lento può capitare, ma se sei la Ferrari è amplificato".

Hai vissuto situazioni simili nei box?

"Ci sono stati momenti in cui sapevamo che la meccanica non era favorevole – parlo di sistemi tra dado e mozzo – e si andava ai pit-stop con la paura di sbagliare. Non lavoravi con la testa libera. Chi toglieva la ruota cercava di non intralciare, chi metteva la ruota faceva attenzione a inserirla dritta e dare il colpo giusto, per evitare che il dado si bloccasse di traverso e l'uomo addetto alla pistola spannasse. Non facevi il pit-stop con aggressività ma con prudenza, e questo genera tensione. C'erano anche voci e critiche assurde, tipo che ‘i meccanici mangiano la pasta asciutta prima della gara', cose ridicole. La verità è che davamo tutto, ma in quei periodi era molto facile fare errori meccanici, e la pressione era altissima".

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C'è un reparto tecnico che in passato era un'eccellenza Ferrari e oggi sembra scoperto?

"Non saprei indicarne uno. Ogni scelta tecnica è un compromesso: il disegno della sospensione dipende anche dall'aerodinamica. Dire che un reparto era ‘più forte' di un altro sarebbe ingiusto. È tutto collegato, come nella vita: è sempre un grande compromesso".

Dopo 22 anni in Ferrari cosa significa per te "essere Ferrari"?

"Per me ‘essere Ferrari' è lavorare sapendo che non sei la Ferrari, ma sei al servizio del mito. Da bambino avevo sul comodino un quadretto di Enzo Ferrari: era il mio punto di riferimento. Sapere che un uomo di novant'anni può muovere l'anima di un ragazzino di otto anni dice tutto. ‘Essere Ferrari' è far sì che quel mito continui".

Quel patrimonio culturale oggi può aiutare la squadra a risalire?

"Viviamo un periodo storico diverso da quello di allora. Una volta non c'era il budget cap e si poteva lavorare di più in pista. C'era una cultura del lavoro fortissima: per essere Ferrari dovevi lavorare, punto. I ritmi erano duri, ma ti formavano. Oggi non puoi più fare tutti quei test, quindi anche la preparazione del personale è diversa. Penso però che ritrovare la vittoria riporti entusiasmo, impegno e voglia di fare. Avere una macchina vincente trascina tutti".

Puoi raccontarci un aneddoto che spieghi come, in Formula 1, un dettaglio può cambiare tutto?

"Monza 2010. Nei test pre-gara sapevamo di avere poca velocità di punta. Provammo un'ala posteriore nuova e cominciammo a vedere segnali positivi. In gara la macchina andava forte: vincemmo con Alonso. Ricordo quel pit-stop: Button rientrò un giro prima, noi quello dopo. Lo facemmo più veloce della McLaren. Realizzammo che Alonso era uscito davanti solo dal boato dell'autodromo. Ancora oggi ho la pelle d'oca".

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Quanto conta oggi la continuità di gestione in Ferrari?

"La stabilità crea le basi per vincere. Se continui a cambiare chi è a capo, ognuno deve comprendere la situazione da zero e servono mesi prima di diventare operativo. La stabilità, anche nello sport, è fondamentale. Servono persone che dicano la verità e non si raccontino bugie per nascondere i fallimenti. Riconoscere un errore è già puntare il dito dove non si è fatto abbastanza e lavorare per irrobustire quel reparto".

Quindi cambiare il team principal non è la soluzione?

"Quando si parlava di Horner in Ferrari, io pensavo che uno come lui avrebbe voluto pieni poteri, forse oltre il ruolo di team principal. Dopo vent'anni in Red Bull vincendo tutto è difficile che voglia fare lo stesso ruolo altrove. E anche se fosse arrivato, avrebbe dovuto prima rendersi conto di come funziona la Ferrari, portare i suoi uomini, creare il suo sistema: ci sarebbe voluto tempo. Lo stesso discorso vale per Toto Wolff".

E dunque cosa servirebbe oggi alla Ferrari per svoltare?

"Preferirei prendere tecnici con idee, non un nome. Serve un comparto tecnico che spinga, e un team principal che metta le persone in condizione di lavorare al meglio. Se cambi continuamente la leadership e mescoli tutto, puoi anche vincere una volta, ma non costruirai mai una base solida".

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