Alex De Angelis: “C’è un vuoto di piloti italiani in MotoGP dopo quelli dell’Academy. Costa troppo”

C’è una serenità che traspare subito, nelle parole di Alex De Angelis. “Sto molto bene, sia come persona che come professionista. Questo nuovo ruolo mi ha dato un’energia diversa. È un momento felice della mia vita”, racconta. Da pilota a team manager nel team Yamaha di Moto2, De Angelis ha trovato una seconda giovinezza dentro il paddock. “È come tornare a scuola, ma con un po’ d’esperienza sulle spalle. Dopo anni in cui ho avuto il mio team nel campionato italiano, adesso è come dare l’esame di maturità nel mondiale”.
Il salto da pilota a team manager, in una squadra reduce da un titolo MotoGP: che impatto ha avuto?
È come tornare a scuola, ma con un po’ di esperienza in più. È il mio primo anno da team manager nel Mondiale, ma dopo cinque anni con un mio team nel campionato italiano avevo già fatto un buon percorso. La chiamata è arrivata da Gino Borsoi, mio compagno e capo nel 2003: ci conosciamo da sempre e credo che quella telefonata non sia arrivata per caso.
Quali sono state le qualità che ti hanno aiutato di più nel nuovo ruolo?
Non si smette mai di imparare, ma avere Gino al mio fianco è una fortuna enorme. Ogni volta che c’è un problema serio posso contare su di lui. Il team manager deve capire un po’ tutto: parlare con tecnici, ingegneri, responsabili Yamaha. Da Gino sto imparando molto. Quando entra in un discorso lo fa con grande competenza e serietà e tutti lo ascoltano con interesse.
E cosa hai dovuto imparare da zero?
La capacità di relazionarsi a tutti i livelli. Gino è un maestro in questo. Io invece porto in dote la mia capacità di andare d’accordo con molte persone. Siamo una famiglia: passiamo più tempo tra noi che con i nostri cari. Tenere tutto insieme è la parte più delicata.

Che bilancio dai alla tua prima stagione in Moto2?
Tutti si aspettavano di più, soprattutto i piloti. Non voglio darmi un voto, sarebbe poco oggettivo. Eravamo una squadra piena di persone con curriculum incredibili, ma tutte nuove. All’inizio è stato complicato, ma ora sono molto contento. Tant’è che il team resta identico anche per il 2026 e questo sarà importante per migliorarsi.
Quanto hanno inciso i pochi test?
Tantissimo. Le gare sono aumentate ma i test sono diminuiti. Due test in inverno, uno praticamente saltato per la pioggia. È difficile conoscere moto e piloti così, secondo me qualcosa deve cambiare. Anche in generale durante il weekend.
Non ti convince il format attuale?
Il venerdì non è più un giorno di lavoro: è già una prequalifica. Così si perde tempo per lo sviluppo. Per lo spettacolo ha funzionato, ma serve equilibrio. Non puoi penalizzare troppo team e piloti.
La proposta di togliere i titoli alle categorie minori ha fatto discutere. Cosa ne pensi?
Una grande cavolata. Spero sia stato un errore di comunicazione. Togliere qualcosa già guadagnato, con sudore e cicatrici vere, non ha senso. Se cambi le regole da oggi in poi, ok. Ma non puoi cancellare il passato.
Il motociclismo italiano ha davvero vissuto un rallentamento nei vivai? Tu che hai vissuto il CIV anche con un team, che futuro vedi?
È in dubbio che ci sia stato un buco. Diciamo che da quando i piloti dell'Academy sono arrivati in MotoGP, c'è stato un grosso rallentamento, purtroppo, ma adesso si sta muovendo di nuovo qualcosa. La Federazione ha reagito bene: nuove categorie, pre-Moto3 a 13 anni, più opportunità, costi – per quel che si riesce – un po' più contenuti. I talenti ci sono, i costi sono il problema, ma bisogna lavorare per rendere tutto più accessibile.

La Spagna continua a dominare il vivaio mondiale. L’Italia può ispirarsi al loro modello?
Le nazioni si osservano sempre. La Spagna ha fatto bene due cose: far girare i giovani nelle piste grandi e avere costi più bassi. In Italia servono aiuti continui da istituzioni, case motociclistiche e produttori. Qualcosa si muove e sono convinto che continueremo a migliorare.
Facciamo un bel passo indietro: com’è nata la tua passione per le moto.
Mio padre aveva un’officina di auto da corsa, anzi, ce l'ha ancora, e io stavo sempre lì. Tornando da scuola vedevo sempre una pista di minimoto e un giorno gli chiesi di portarmi. Qualche tempo dopo, trovai una minimoto nuova in salotto: una soltanto, da dividere con mio fratello. Era un inizio, eravamo felicissimi. È lì che è cominciato tutto.
Qual è il tuo primo ricordo del Mondiale 125?
Imola 1999. Riuscimmo ad entrare come wildcard e si realizzò il sogno. Entro in pitlane e accanto a me ci sono i piloti che vedevo solo in TV. In quel momento ho capito di essere uno di loro. E' stato strano e bellissimo allo stesso tempo.
Chi era il tuo riferimento da giovane?
Non ho avuto idoli veri, ma ho sempre avuto una passione speciale per Loris Capirossi. Forte, simpatico, disponibile. Mi ci sono sempre un po’ rivisto. E poi un giorno ci siamo pure scontrati in pista!

Il 2003 resta il tuo anno più importante?
Sì, è stata la stagione migliore. Squadra nuova, tanti problemi al motore, tante rotture… ma siamo arrivati secondi dietro Pedrosa. È stato il massimo che potessimo fare. Peccato per i tanti errori, ma quell'anno il secondo posto era il massimo a cui potessimo ambire.
Cosa significava rappresentare San Marino nel Mondiale?
Un orgoglio enorme. La Federazione, i tifosi, i fan club… tutto l’aiuto arrivava da San Marino. Portare quella bandiera sui podi del mondo è stato speciale.
Il tuo podio MotoGP a Indianapolis 2009: che ricordo hai?
Che finalmente era arrivato. Riuscire a portare la bandiera del mio paesi fino agli Stati Uniti è stato qualcosa di incredibile. Un giorno perfetto. Nicky Hayden mi ha inseguito per tutta la gara, non potevo mollare un metro. Una gara intensissima, una soddisfazione enorme. Il momento più alto della mia carriera. Quel podio in MotoGP lo avevo sfiorato tante volte, ma quella gara fu pazzesca. Quando ho tagliato il traguardo, ho capito che tutti i sacrifici avevano avuto un senso.