Sergio Volpi: “Ho smesso per colpa delle scommesse. Mi sono sentito preso per il culo da 4 ragazzini”

“Capitano o mio Capitano”, ripetevano gli studenti della Welton Academy nella pellicola “Carpe Diem”. La congrega dei poeti estinti si era legata indissolubilmente al professore John Keating (una delle più belle interpretazioni di Robin Williams) e ne seguiva il verbo. Nella sua carriera, Sergio Volpi è stato il professor Keating degli spogliatoi che ha avuto l’onore di frequentare e l’onere di rappresentare. Bari, Sampdoria e Piacenza, tra le altre, sempre con la fascia al braccio. Neanche lui sa spiegarci perché: “Forse perché sono un tipo tranquillo – ci dice in esclusiva per Fanpage.it – difficilmente perdo la calma. Riesco a rimanere freddo in campo e fuori e, per questo, per me era più semplice parlare con l’arbitro”. Per altro, si dà il caso che Tranquillo sia anche il curioso secondo nome di Sergio, che deve ad un cognato della nonna. Mai l’antico adagio “Nomen Omen” è stato più appropriato. Eppure, anche lui qualche volta ha perso la calma, in campo e nello spogliatoio: “Certo che è successo, è capitato, ma non vi racconterò il motivo… (sorride, n.d.r.)”. Questa, però, è l’unica reticenza del Capitano in questa lunga e suggestiva intervista che attraversa tutta la sua carriera, ma che si affaccia anche sul presente e sul futuro di un Signore del nostro Calcio.
Allora, Sergio, nasci nella provincia bresciana e nel tuo Brescia come calciatore: che ricordi hai di quella prima esperienza?
“Ricordi splendidi, ovviamente, per me – bresciano – riuscire a giocare nella squadra della mia città, di cui per altro sono tifoso da sempre, è stato come toccare il cielo come un dito. E, poi, quello era un Brescia davvero forte, con giocatori eccezionali…”.
Nella prima stagione (1994-1995) parliamo di Serie B, ma con il Maestro Lucescu al comando e un certo Hagi in campo…
“Non solo. Lui, certamente, era un fuoriclasse che c’entrava poco con la categoria. Ho giocato con tanti campioni nella mia carriera, e tanti altri li ho incontrati come avversari, ma uno che trattava la palla come lui, non l’ho più visto. Aveva un sinistro eccezionale. Non a caso lo chiamavano il Maradona dei Carpazi. Comunque, nel Brescia ho fatto anche la stagione 1995/1996 e in quelle squadre c’era gente come i gemelli Filippini, Maurizio Neri, Gabriele Ambrosetti, Salvatore Giunta e tanti altri. È stata un’esperienza molto formativa per un giovane e, come dicevo prima, entusiasmante per uno che aveva sempre sognato di vestire quella maglia”.
E che impressione ti fa vedere il Brescia oggi?
“Strana. Sinceramente non mi sarei mai aspettato di vedere una società così importante nelle condizioni in cui versava questa estate. Adesso, conto che questa nuova società riesca a riprendere il marchio e a far tornare il vero Brescia laddove merita. Spero di rivedere presto quella splendida maglia con la V bianca sul petto sui campi della Serie A…”.
Dopo il Brescia, un’altra esperienza in una squadra eccezionale per la Serie B di quell’epoca…
“Sì, quel Bari davanti aveva Di Vaio, Flachi e Ventola, a centrocampo Ingesson, Doll, De Ascentis. E parliamo di Serie B!”.

Diciamo che se, oggi, Gattuso avesse un parco attaccanti con Di Vaio, Flachi e Ventola, forse sarebbe già al Mondiale…
“Sicuramente sarebbero tre giocatori importantissimi per la nazionale, ma paragonare squadre e giocatori di epoche diverse è sempre difficile. Tuttavia, ho la sensazione che la qualità media di quel calcio fosse decisamente superiore. Ogni domenica affrontavi squadre di altissimo livello, e non solo in Serie A. Parliamo dell’epoca delle “Sette Sorelle”, con tantissime squadre che potevano competere per lo Scudetto. Non solo le “solite”, ma anche Parma, Lazio, Fiorentina, Sampdoria. Anche le “piccole” riuscivano ad attirare giocatori di altissimo livello. Oggi, invece, non è più così: a parte le grandi, le altre non riescono ad avere lo stesso appeal. Io ricordo la Sampdoria con Seedorf, Veron, Montella, Mancini… altri tempi e altra categoria!”.
Tornando a quel Bari, in panchina c’era un allenatore come Fascetti, che in molti hanno definito un “precursore”: era effettivamente così?
“Assolutamente sì: il calcio uomo contro uomo di Gasperini, che poi oggi tutti copiano, noi lo facevamo quasi trent’anni fa a Bari. Il mister era avanti dal punto di vista tattico, ma era anche un secondo padre per tutti noi. Quella era una squadra di giovani, ma lui non ha avuto nessuna remora a farci giocare. Ai tempi si condivideva molto tempo insieme, i rapporti umani erano fondamentali: lui da fuori sembrava molto scontroso, ma per i suoi ragazzi si sarebbe buttato nel fuoco”.
A Bari il Presidente era il focoso Matarrese: qualche aneddoto?
“Diciamo che non ci faceva annoiare, ma la vivevamo più che altro da fuori, perché non c’erano tante occasioni per interagire con i presidenti di allora. Poi c’erano le eccezioni, naturalmente, come Zamparini, che ho avuto a Venezia…”.
Ci saremmo arrivati, ma anticipiamo: via agli aneddoti…
“Ce ne sarebbero davvero troppi, diciamo che lui – a differenza di Matarrese – era uno che negli spogliatoi veniva spesso. Forse pure troppo (ride, n.d.r.). Ricordo una volta che perdevamo 0-2 in casa contro l’Empoli in inferiorità numerica e. a fine primo tempo, è sceso all’intervallo e ce ne ha dette di tutti i colori, ma davvero pesante, con l’allenatore (Novellino, n.d.r.) che sembrava avesse i minuti contati. Nel secondo tempo abbiamo ribaltato tutto e vinto 3-2. Dopo la partita è sceso nuovamente negli spogliatoi ed eravamo diventati fenomeni (sorride, n.d.r.). Ma lui era così, decisamente umorale, un minuto prima scherzava, uno dopo era capace di sbranarti”.
A proposito di quello che dicevamo prima, in quel Venezia c’era un certo Recoba: il giocatore più forte con il quale tu abbia giocato?
“Dopo Hagi, forse. Ho giocato anche con Cassano, che a livello tecnico era una roba fuori dall’ordinario. Tuttavia, devo dire che come Gheorghe, nessuno, il rumeno era davvero di un’altra categoria. Come dicevo prima, ai tempi ce n’erano talmente tanti che diventa tosta sceglierne solo uno o fare le classifiche”.

Al Venezia, il primo anno (1998-1999), la tua strada s’è incrociata con quella di Mister Novellino, con il quale si è creato un legame speciale…
“Sì, è così. Quello è stato il primo anno, ma poi il mister ovunque andasse mi chiamava per seguirlo. Non so esattamente cosa ci legasse così tanto, ma probabilmente lui sapeva di potersi fidare di me e io sapevo di avere a che fare con un allenatore leale, che per me era una dote imprescindibile. Così, dopo Venezia ci siamo ritrovati a Genova alla Samp, ma anche a Piacenza”.
Nella seconda stagione a Venezia hai avuto anche Spalletti: era già maniacale allora come lo descrivono oggi?
“L’ho avuto solo per qualche partita, perché con Zamparini se ne sbagliavi due di fila, alla terza non eri più in panchina (ride, n.d.r.). Diciamo che il mister arrivava da una brutta stagione alla Sampdoria e, forse, non aveva ancora smaltito la delusione, il che non lo faceva lavorare sereno. Poi, la pressione che metteva il Presidente, di certo non agevolava. Comunque, sì, ho conosciuto un tecnico molto preparato e che curava ogni dettaglio, con grandissima passione e il resto della sua carriera l’ha dimostrato”.
Fascetti, Novellino, Spalletti: oggi – da collega – a chi ti ispiri di più?
“Collega mi sembra un parolone (sorride, n.d.r.). Io alleno il Castiglione in Eccellenza (squadra di Castiglione delle Stiviere, provincia di Mantova, n.d.r.), la mia esperienza – dunque – non è paragonabile ai nomi che mi hai fatto. Diciamo che in queste categorie la tattica non è l’aspetto fondamentale del gioco, anche perché i ragazzi vengono ad allenarsi dopo il lavoro e non è il caso di annoiarli. Ad ogni modo, il calcio va talmente veloce che sarebbe comunque impossibile riportare ad oggi le tecniche di allenamento o le tattiche di gioco dei miei tempi”.
L’esperienza più duratura da calciatore (dal 2002 al 2008) l’hai trascorsa – anche in questo caso da capitano – con la maglia blucerchiata della Sampdoria indosso: che effetto ti fa vederla oggi così in difficoltà?
“Mi fa un’enorme tristezza. Alla Sampdoria ho trascorso gran parte della mia carriera e ho vissuto momenti eccezionali, insieme ad una tifoseria che definire da Serie A è addirittura riduttivo. Il popolo blucerchiato si merita una chiarezza che non vedo. Anzi, vedo tutt’altro che trasparenza nel modo in cui la società gestisce il club. Spero proprio che la situazione migliori velocemente e che la Sampdoria possa tornare in fretta a calcare i palcoscenici che competono ad un ambiente con tanta passione e storia come quello blucerchiato. In generale, comunque, faccio fatica a vedere club come Sampdoria, Brescia ma anche Bari, Venezia e Piacenza in Serie B o, addirittura, in categoria inferiori…”.
Terminata l’esperienza a Genova, una stagione a Bologna con Mihajlovic allenatore: anche in questo caso non sei cascato male…
“Sinisa allenatore era bravo, ma il Sinisa uomo molto di più. Aveva un carattere, una determinazione, una passione, indescrivibili. E, poi, col gruppo, una persona eccezionale. Ricordo quando, dopo una brutta sconfitta in casa, ha affrontato da solo la contestazione. C’erano i tifosi inferociti, lui è uscito, da solo, senza scorta: “Prendetevela con me – ha detto – è colpa mia. Lasciate stare i ragazzi: chi li tocca, dovrà vedersela con me”. Queste sono cose che i giocatori non dimenticano, si crea un legame indissolubile. Andresti in battaglia a mani nude con uno così. Che uomo Sinisa, manca tanto a questo calcio”.
Dopo quell’esperienza in Emilia, ancora due stagioni tra Reggio Calabria, Bergamo e ancora Piacenza, dove dai l’addio al calcio nel 2016: eri preparato o è stata dura?
“Ero preparato perché ormai avevo 37 anni, dal calcio avevo ricevuto anche più di quello che mi aspettassi, ma è stata dura per come ho chiuso (il Piacenza del 2011 è stato coinvolto nello scandalo del calcioscommesse, n.d.r.). Mi sono sentito preso per il culo da ragazzini che hanno infangato la cosa che amavo di più in assoluto. Quello è stata dura da accettare, anzi non l’ho mai accettato e mai lo accetterò”.

Con tanta esperienza sui campi da calcio, possibile non accorgersi di nulla?
“Possibile, posso confermarlo, perché a me è successo proprio così. La squadra stava andando bene, poi ha cominciato a perdere, anche per situazioni casuali, che poi ovviamente così casuali non erano. Al momento, però, ho pensato a sfortuna, i classici momenti in cui gira tutto storto. Solo dopo, quando è uscita la notizia, ho messo insieme tutte le tessere del puzzle. Dopo quell’esperienza, non è stato difficile lasciare, perché quello non era più il mio calcio. Ho capito che era arrivato il momento giusto. Certo, avrei preferito chiudere in modo diverso una carriera in cui io avevo dato tutto e sempre in modo corretto e leale. Io – almeno – avevo la coscienza pulita”.
Di recente, è scoppiato anche il caso di giocatori importanti come Tonali e Fagioli che scommettevano anche sul calcio: secondo te, qual è il motivo che porta ragazzi che hanno tutto a rischiare di rovinarsi la carriera e la vita?
“Guarda, non lo so, dopo l’esperienza di Piacenza me lo sono chiesto spesso. Non so se sia bisogno di adrenalina, ma qualsiasi sia la ragione, faccio davvero fatica a giustificarli”.
C’è, però, qualche sfizio che ti sei tolto da calciatore?
“Sono sempre stato molto pacato anche in quello. Sono cresciuto in una famiglia con quattro fratelli e nella quale lavorava solo mio papà. Si doveva rigare dritto. Per questo, ho sempre avuto grande rispetto per i soldi, non mi sono fatto mancare niente, ma non ho mai esagerato”.
C’è stato, però, un regalo che ti sei concesso quando sei diventato professionista?
“In realtà, l’ho fatto ai miei genitori. Quando c’è stata l’opportunità, ho comprato casa per loro. Mi sembrava il minimo dopo tutti i sacrifici che avevano fatto per me e per tutta la nostra famiglia. Ricordo le parole di mio papà quando ha visto il mio primo stipendio da professionista: “Io neanche in tre anni guadagno quella cifra”. E quando me l’ha detto aveva quasi le lacrime agli occhi…”.
Guardandoti indietro, hai un rimpianto nella tua carriera?
“In generale ti direi di no, perché ho fatto il mio percorso e, forse, neanche sognavo di arrivare a fare quello che ho fatto. Non essere riuscito a giocare in squadre che lottavano per lo Scudetto, potrebbe essere un rimpianto, ma non era così semplice, perché il livello era molto alto. E, poi, come dicevo in precedenza, avrei voluto chiudere la carriera in maniera diversa…”.
Nonostante questo, sei comunque rimasto nel mondo del calcio…
“Sì, ma nel mio mondo. All’inizio, quello dei giovan: ho allenato nel vivaio del Piacenza e del Brescia. Oggi, invece, seguo i ragazzi del Castiglione in Eccellenza. Questo calcio è puro, c’è gente che arriva ad allenarsi dopo il lavoro, con pioggia, vento e neve, non mancano mai. Tutti i giorni con lo stesso entusiasmo e la stessa passione. Questi ragazzi, lo so, non mi tradiranno mai”.