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Pippo Maniero oggi: “Non lavoro perché ho gestito bene i soldi, sono capitato nel Milan più brutto”

Filippo Maniero a Fanpage.it si racconta e ripercorre gli aneddoti della sua carriera, parla dei ‘bomber di provincia’, degli attaccanti italiani di oggi e del suo feeling innato con Recoba ai tempi del Venezia.
A cura di Vito Lamorte
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Filippo Maniero faceva gol in tutti i modi. Di piede, di testa, in acrobazia e di rapina. Ne ha segnati di tutti i tipi. L'attaccante nato a Padova è stato un riferimento per chi è cresciuto guardando la Serie A negli anni '90 e 2000 perché il suo nome nella classifica marcatori entrava sempre nelle posizioni più nobili.

Ha girato tanto Maniero ma ovunque è andato ha lasciato un ottimo ricordo e il motivo lo spiega lui stesso: "Ho sempre lavorato tanto per mettermi a disposizione della squadra per cui ho giocato. Ho vissuto spogliatoi con tanti campioni diversi e ognuno di loro ho rubato qualcosa che mi è servita nella mia carriera. Ringrazio sempre Dio per avermi fatto fare questa carriera e alcuni insegnamenti del campo nella vita tornano, non c’è nulla da fare". 

A Fanpage.it Pippo Maniero, così ribattezzato dai suoi tifosi, racconta la sua carriera, parla dei ‘bomber di provincia’, degli attaccanti italiani di oggi e del suo feeling innato con Recoba ai tempi del Venezia.

Cosa fa oggi Filippo Maniero?
"Ho il patentino di allenatore di base, ho allenato per una decina d’anni in categorie dilettantistische e ora sono un paio d’anni che sono fermo. Vivo alla giornata, mi godo la mia famiglia. Non ho un lavoro vero e proprio perché sono riuscito a gestire bene i miei guadagni. Ho sempre rispettato gli insegnamenti dei miei genitori e non ho mai fatto il passo più lungo della gamba".

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Tutto parte da Padova.
"Io sono nato a Padova e vivo in provincia, ho fatto tutta la trafila delle giovanili e una volta arrivato in prima squadra mi sono ritagliato pian piano il mio spazio. Gli inizi sono tutti di marca biancoscudata fino alla promozione del ’94 in Serie A, coronando un sogno perché il Padova mancava da più di trent’anni. Una soddisfazione non da poco".

Alla prima esperienza con continuità in Serie A trova quasi la doppia cifra col Padova (9).
"Avevo 22 anni e sono riuscito a fare un anno importante perché oltre ad essere capocannoniere della squadra ci siamo salvati. Eravamo dati per spacciati e ci salvammo nello spareggio di Firenze col Genoa".

Ad Ascoli il primo gol in A e l’esperienza con l’Atalanta.
"Sono state due esperienze molto importanti. A Bergamo dividevo lo spogliatoio con dei giocatori formidabili come Stromberg, Evair e Caniggia, gente da cui potevi solo apprendere. Non avevo ancora la patente ai tempi dell’Atalanta e per me era davvero una cosa incredibile. L’anno dopo ad Ascoli ho avuto più spazio e sono arrivati i primi gol in Serie A".

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Il passaggio alla Sampdoria cosa rappresentò per lei?
"Lì ho assaporato la Serie A delle grandi squadre. C’era Mancini, Karembeu, Zenga e tanti altri campioni allenati da un grandissimo allenatore come Eriksson. Potevo solo imparare da gente così e sono sicuro che molte cose le ho apprese in quei primi anni".

Prima volta oltre i 10 gol col Verona e la doppietta alla Juventus che i tifosi dell’Hellas non hanno mai dimenticato.
"Fu il trampolino definitivo per la mia carriera perché ho avuto la possibilità di giocare con continuità, quindi di dimostrare il mio valore. Ho travato questa disponibilità di società e allenatore, saltando pochissime partite e riuscendo ad andare in doppia cifra. La doppietta me la ricordo e me la ricordano in tanti ma sarebbe stato più bello non perderla quella partita. Ho sempre messo avanti la squadra ai miei gol, se dovevo scegliere tra una vittoria senza gol o una sconfitta con gol miei non ho mai avuto dubbi. Fu annata importante che mi permise di fare il salto in una grande squadra come il Parma".

Ecco, come arrivò la chiamata del Parma e che squadra era quella?
"Uno squadra fortissima allenata da Carlo Ancelotti, che non ha bisogno di presentazioni. Gruppo fantastico, con calciatori che non facevano mai pesare il loro status e ti facevano sentire a tuo agio. Gente che negli anni successivi avrebbe vinto tutto ma che era fantastica dal punto di vista umano".

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Ad un certo punto, il Milan.
"Un fulmine a ciel sereno perché era una chiamata completamente inaspettata. A Parma giocavo poco ma stavo bene. È arrivata quell’occasione e l’ho colta al balzo. Ho beccato l’anno più brutto del Milan di quel periodo. All’esordio feci anche gol al Piacenza e quella è una settimana che ricorderà per tutta la vita. Era una squadra che stava per chiudere un ciclo: Weah e Savicevic avevano molti problemi fisici, Boban lo stesso e i senatori avevano accusato un po’ il colpo dopo anni di grandi successi".

A Venezia, invece, ha dato il meglio del suo repertorio. 
"Insieme a Padova le esperienze più belle della mia vita calcistica. Tanti anni tra Serie A e B con molti gol e ancora adesso sono il capocannoniere della storia del club. Lottavamo sempre per non retrocedere ma son stati anni davvero indimenticabili".

Che presidente era Maurizio Zamparini?
"È il presidente che tutti i calciatori vorrebbero avere. Non faceva mai mancare niente, cercava sempre di mettere i calciatori a proprio agio. Una persona intelligente, colta, simpatica… per stare bene lui doveva vedere che tutti intorno lui dovevano stare bene. Ho fatto cinque anni con lui e avevamo un grande rapporto. Quando veniva in ritiro, e si fermava più di qualche giorno, vedevi la differenza tra l’uomo e il presidente".

Torniamo al campo… se le dico Recoba, cosa mi risponde?
"Ci fu feeling da subito. Non ci conoscevamo ma sin dai primi allenamenti sembrava che fossimo insieme da anni. Bastava uno sguardo e la palla arrivava perfetta. Non so spiegarti il motivo ma era così. So solo che da quando arrivò lui, io feci 12 gol e il Chino ne fece 11. Ogni domenica era un divertimento ed era bellissimo giocare con lui. Negli allenamenti si divertiva un sacco, anche se odiava la parte atletica: quando c’era da toccare il pallone sembrava un bimbo di 5 anni. Era un calciatore incredibile ed è stato uno dei più forti che ho visto giocare. Probabilmente la sua poca attitudine al sacrificio lo ha frenato un po’ ed è un peccato perché forse avrebbe avuto un altro tipo di carriera ma era un giocatore davvero forte".

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Poi ci fu la migrazione del Venezia a Palermo, corretto?
"Facemmo questo trasloco in blocco e per noi professionisti non cambiava niente. Andammo lì sperammo di fare un buon campionato, visto che le aspettative erano tante. Ci giocammo la promozione fino all’ultimo e fu una buona stagione complessivamente".

Lo scambio con Toni la portò a Brescia.
"Arrivai a Brescia con qualche problema fisico ed è una cosa che mi dispiace. A 32 anni queste cose le accusi molto di più e per questo non ho fatto l’annata che avrei voluto. Avevo la fortuna di allenarmi con Roberto Baggio e mi sarebbe piaciuto essere fisicamente integro per giocarci insieme in maniera costante".

È Baggio il calciatore più forte con cui ha giocato?
"Sì, senza dubbio. In quell’annata lì era alla fine ma allenarmi con lui e vederlo da vicino era qualcosa di mai visto".

E quello che l'ha più impressionato da vicino?
"Ronaldo il Fenomeno. Pensavo venisse da un altro pianeta, una roba stratosferica. Quando io ero al Parma lo vidi per la prima volta da vicino e pensai ‘Io non c’entro niente con questi qui’".

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La sua unica esperienza all'estero non andò bene. Cosa accadde con i Rangers di Glasgow?
"Non ho ancora una spiegazione per tanti motivi. Io ero a casa dopo il fallimento del Torino, con cui avevamo centrato la promozione dalla Serie B alla A, ed ero senza squadra. Mi chiama il mio procuratore (Andrea D’Amico) e mi dice che c’è questo interesse dei Rangers ma avevo due giorni per rispondere perché dovevano chiudere la lista UEFA. Accettai, dopo una certa insistenza anche da parte loro, ma io alcune cose non le ho capite: mi allenavo, facevo tutto quello che dovevo ma non sono mai stato convocato. Alla prima sosta ho chiesto spiegazioni e mi dissero che ‘non ero adatto al campionato’. Me ne andai, ma non capisco come avessero capito alcune cose visto che non ho mai giocato. Davvero inspiegabile ancora oggi, sono sincero".

Esistono ancora i ‘bomber di provincia’?
"Non saprei dirti, ma non ne vedo. A quei tempi ogni squadra aveva un attaccante di riferimento forte che andava spesso in doppia cifra. C’era gente come Protti, Tovalieri, Hubner e tanti altri… alcuni sono partiti dalla provincia, come Vieri, Inzaghi e Montella, e hanno spiccato il volo. Adesso non credo sia più così".

Era più difficile fare l’attaccante qualche anno fa in Serie A?
"Difficile da dire perché è cambiato molto, dal modo di giocare ad alcuni regolamenti. Ci sono meno calciatori con le mie caratteristiche, non c’è più quello che veniva definito ‘centravanti’. La generazione di calciatori che c’era ai miei tempi, però, non c’è adesso. Di questo sono sicuro. Per andare in Nazionale una volta dovevi fare qualcosa di straordinario: io un anno ho fatto 18 gol e ci speravo, ma niente. Adesso sarebbe il primo nome della lista".

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Il gol più bello e quello che ha più significato per lei.
"Ne dico tre. Il gol di tacco contro l'Empoli, ad esempio, è uno a cui sono molto legato. È uno di quei classici gesti istintivi, senza ragionarci troppo. Ho avuto fortuna per come l’ho colpita e per dove è finita la palla. In quel momento lì ho pensato che fosse la cosa più giusta da fare ma avessi preso la traversa, ovvero 10 cm più su, mi sarei beccato critiche e insulti. Va così e lo sapevo bene. È un gol che ricordo sempre con grande piacere ma ci sono diverse componenti in un gol così. Se non avessimo vinto avrebbero mandato via il mister e da lì ci sbloccammo per fare il finale di campionato. Poi ci sono quelli contro Milan e Inter che di fortuna, però, hanno poco. Col Milan ho pensato esattamente cosa dovevo fare e come colpire. La palla era alta e io stavo andando all’indietro. Anche quello fu un grande gol, ma quello contro l’Inter è ancora più bello. A mio parere, è questione di gusti. Perché la palla arriva da dietro e devi calcolare tutto: pallone, avversari e distanza dalla porta".

130 gol tra A e B cosa rappresentano per Maniero?
"Aver superato i 100 gol tra i professionisti è qualcosa a cui spesso penso e poi ritorno con la mente ai sacrifici fatti quando ero ragazzino per poter diventare calciatore. In cameretta dai miei avevo il poster di Gullit e van Basten, perché sono sempre stato tifoso del Milan, e il mio sogno è sempre stato quello di poter giocare negli stadi che vedevo alla Domenica Sportiva. Tante volte si vede più dove è arrivato un calciatore ma bisognerebbe veder da dove arriva, il percorso che ha fatto. Si pensa solo che i calciatori sono strapagati ma spesso c’è molto altro dietro. Da par mio, non sono mai cambiato ed è una cosa che quando la dicono i miei amici mi rende ancora più orgoglioso".

C’è oggi un Filippo Maniero in Serie A?
"Difficile da dire per molti motivi, ma se devo fare un nome dico Milan Djuric del Monza".

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