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Michele Paolucci: “Del Piero bussava in camera a notte fonda. Grosso a New York disse: siete pazzi”

Michele Paolucci si racconta a Fanpage.it. Dalle storie sul suo periodo alla Juventus (“Ricordo la partita a carte con Del Piero in strada a New York”) alle nuove sfide da direttore sportivo, tra ricordi, lezioni e rimpianti.
A cura di Sergio Stanco
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“Io credo che il 90% dei bambini della mia generazione sognasse di diventare calciatore. Uscivamo da scuola, buttavamo la cartella per terra per fare i pali e cominciavamo a giocare finché le nostre mamme non ci venivano a recuperare per andare a cenare. E – dopo cena -continuavamo fino a quando si vedeva qualcosa. Oggi, se passeggio per Civitanova, di bambini che giocano a calcio in strada o nei giardini, non se ne vedono più. E questo mi fa stringere il cuore”. Michele Paolucci, marchigiano D.O.C. classo 1986, è cresciuto proprio a Civitanova imitando il suo idolo Del Piero e sognando di giocarci a fianco. Solo che lui il sogno lo ha realizzato: “Quel ragazzo con la maglia numero 10 mi faceva fantasticare da bambino. Io ho sempre tifato Juve, guardavo la partita sul divano con la sciarpa al collo e soffrendo come un disperato. Quando mi è capitato di giocare insieme a lui, devo dire che ho faticato a realizzare, l’emozione è stata forte. Dopo, però, siamo entrati in sintonia e si è creata un bel rapporto. Ricordo ancora quando ci siamo messi a giocare a carte sul marciapiede della 5th Avenue a New York…”. Ma questa è un’altra storia (che comunque vi racconteremo dopo).

Michele ha cominciato dall’alto, passando dal Tolentino al settore giovanile della Juve a 14 anni, per poi continuare la carriera, che prometteva molto bene, in giro per l’Italia, dalla Toscana (Siena) fino alla Sicilia (Palermo e Catania), passando nuovamente per la Juve e fino ad arrivare a Malta e in Canada. Oggi, a 39 anni, è iniziata una nuova carriera, quella da Direttore Sportivo, cominciata a casa (alla Fermana), ma con l’obiettivo di allargare gli orizzonti. Ecco a voi la storia del Van Basten di Ascoli (citazione Sonetti, n.d.r.).

Allora Michele, cominciamo proprio da questa citazione…
“Eh, ero ad Ascoli, avevo fatto due ottime partite, segnando tre gol e il Mister Sonetti forse si è lasciato un po’ trasportare dall’entusiasmo, diciamo così (ride, n.d.r.). Disse: “Ma chi è questo ragazzo, Van Basten?”. Il paragone era sicuramente esagerato, ma l’intento era quello di sottolineare l’ottimo momento che stavo attraversando”.

Curiosità smarcata, ora ricominciamo veramente dall’inizio: chi ti ha trasmesso la passione per il calcio?
“Io sono il classico bambino che andava a dormire col pallone, ma ai miei tempi eravamo tutti così. Non c’era bisogno che qualcuno ci trasmettesse nulla, perché la passione si respirava per strada. Giocavamo a calcio tutto il giorno, in ogni luogo, con ogni cosa che potesse in qualche modo rotolare. Altri tempi…”.

In molti dicono che giocare per strada affinasse la tecnica…
“E’ assolutamente vero. Innanzitutto, ti forgiava caratterialmente, perché non c’erano categorie e te la dovevi vedere anche con quelli più grandi. E, poi, giocare sulla terra, sulla ghiaia e finanche sul cemento irregolare, ti costringeva a prevedere rimbalzi strani, ti permetteva di migliorare il controllo di palla. Non è un caso che De Rossi nel centro sportivo dell’Ostia Mare abbia fatto costruire un campo in ghiaia. Ci vorrebbero più ginocchia sbucciate nei ragazzi di oggi (sorride, n.d.r.)”.

Paolucci durante l’esperienza con la Juventus.
Paolucci durante l’esperienza con la Juventus.

Com’era il ragazzino Michele? I tuoi genitori hanno fatto fatica a contenerti?
“Ero un ragazzo della mia epoca, cresciuto giocando a pallone tutto il giorno. A parte questo, non avevo grandi pretese. Mio padre e mia madre erano impegnati, papà era ambulanta e mamma lavorava in banca, ma mi hanno sempre seguito. Più che altro, per loro è stata dura quando a 14 anni mi sono trasferito per andare a Torino…”.

Già, perché era arrivata la chiamata della Juve: è stata dura lasciare casa e gli amici?
“Scherzi? Quando me lo hanno detto, ho risposto: “Quando si parte?”. Ovviamente era il sogno che si realizzava, io ero entusiasta. Mia mamma un po’ meno (sorride, n.d.r.), ma devo ringraziarla perché mi ha lasciato andare. Non è scontato per un genitore separarsi dai propri figli a quell’età e saperli lontani. Tuttavia, ha capito che per me era un’occasione troppo importante e, pur con grande sofferenza, ma con altrettanto altruismo, mi ha assecondato”.

Cresciuto nel settore giovanile, fino ad affacciarti alla Prima Squadra: qual è la prima fotografia di quel periodo che ti viene in mente?
“Ricordo quando Capello ogni tanto ci chiamava per fare le partitelle. Quella era la Juve di Del Piero, Trezeguet, Buffon, Vieira, Ibrahimovic. Hai presente? Puoi immaginare cosa significasse per un ragazzino poter giocare con questi “marziani”? Fai conto che mi marcavano Cannavaro e Thuram, sto ancora cercando palla (ride, n.d.r.)”.

Quella era la Juve che a fine anno fu spazzata via da Calciopoli: che idea ti sei fatto?
“Non vivevo lo spogliatoio, non ero aggregato alla Prima Squadra, ma posso dirti che quella era una Juve fortissima, che non aveva alcun bisogno di aiuti per vincere. Secondo me – per qualità e personalità – è stata una delle squadre più forti della storia bianconera”.

E come accoglievano un ragazzino che arrivava dalle giovanili? Con un po’ di sano “nonnismo” o con spirito collaborativo?
“Con grandissima disponibilità. Parliamo di campioni anche di umiltà. Ricordo un episodio che mi è capitato durante una partitella: mi arriva un lancio, io alzo la gamba per stoppare e i miei tacchetti finiscono sulla testa di Zambrotta. Puoi immaginare il mio terrore. Ero mortificato, anche perché ho visto il sangue cominciare a sgorgare. Non sapevo più come scusarmi, ma Zambro mi ha subito tranquillizzato: “Non ti preoccupare – mi ha detto – Sono cose che capitano”. Mi sarei aspettato ben altra reazione, invece anche quella è stata una lezione”.

Piuttosto, come è stato giocare al fianco del proprio idolo?
“All’inizio non ti nascondo che c’era un po’ di soggezione, ma poi anche Alex si è rivelato un ragazzo di un’umiltà e di una disponibilità rare. Ci si potrebbe anche aspettare un po’ di sufficienza da parte di un campione del Mondo nei confronti di un ragazzino della Primavera, ho visto altri tirarsela per molto meno. Invece, lui non ha mai meso barriere. Anzi, ricordo che ad un certo punto eravamo entrati in sintonia, a tal punto che in una tournée negli Stati Uniti e Canada eravamo sempre insieme. Abbiamo cominciato a giocare a carte, a scopa in particolare, fin dall’aereo. Poi, una volta lì, entrambi non riuscivamo a dormire per il fuso orario e, allora, andavamo avanti giorno e notte. Io ero in camera con Marchisio e Alex veniva a bussare a notte fonda per giocare.  Una volta ci siamo messi a giocare sul marciapiede della 5th Avenue in attesa dei compagni che erano andati a fare shopping. Ricordo Grosso che ci guardava e rideva: “Voi siete pazzi”, ci diceva”.

Paolucci con Chiellini alla Juventus.
Paolucci con Chiellini alla Juventus.

C’è qualcuno che invece ti ha davvero impressionato nella Juve?
“Quando sono rientrato da prestiti e comproprietà (2009/2010 n.d.r.), ho trovato un Chiellini giovanissimo ma già estremamente focalizzato. Una macchina, non mollava nulla, viveva l’allenamento con la stessa identica intensità della partita. E menava pure come in partita (ride, n.d.r.). A parte gli scherzi, mi aveva colpito la sua voglia, il suo spirito di sacrificio e desiderio di arrivare. Ecco, ai giovani di oggi che si sentono fenomeni dopo qualche minuto fatto bene, farei vedere un video degli allenamenti del Chiello. E, poi, un ragazzo intelligentissimo: non mi stupisce che la sua carriera da dirigente stia progredendo velocemente, anzi sono sicuro che presto diventerà il Presidente della Juve”.

Prima e dopo quell’esperienza in una Juve in ricostruzione, un lungo girovagare tra prestiti ed esperienze esotiche: a quali sei rimasto più legato?
“Vincere il derby con il Catania, sul campo del Palermo, per 0-4, segnando anche un gol, è un momento che non puoi proprio dimenticare. Purtroppo, Mascara si è inventato il pallonetto da Catania e quindi nessuno si ricorda del mio gol, ma fa niente (ride, n.d.r.). Nella storia del Catania ci sono anche io e questo è l’importante. In quel Palermo c’erano Pastore, Cavani, Miccoli e tanti altri giocatori top, vincere è stata una gioia incontenibile per noi, ma soprattutto per i tifosi. Ricordo che al ritorno i tifosi rossazzurri avevano bloccato l’autostrada e siamo stati costretti a scendere dal pullman. Abbiamo festeggiato lì in mezzo a loro, saranno state duemila persone. Saltavano con noi pure i poliziotti di pattuglia, non sto scherzando (ride, n.d.r.). Per quanto riguarda le altre esperienze, ricordo con piacere quella in Canada, perché sono arrivato in un campionato praticamente appena nato (l’USL2, n.d.r.): sono stato il primo italiano a giocarci e a segnare. Nel mio piccolo, ho contribuito a farne la storia, ma da Catania non me ne sarei mai andato, ci ho lasciato il cuore…”.

E poi cos’è successo?
“Ho letto di recente un’intervista di Zenga, che ha chiarito i motivi per i quali verso la fine della stagione (2008/2009 n.d.r.) abbia deciso di lasciare. Ha detto che, ad un certo punto, a salvezza acquisita, gli hanno imposto di far giocare determinati giocatori e lui si è rifiutato. Ora mi spiego perché io, che ero in prestito dalla Juve, ad un certo punto abbia smesso di giocare. Evidentemente, quella vecchia volpe di Lo Monaco ha pensato che fosse meglio valorizzare i giocatori di proprietà (sorride, n.d.r.). Vista quella situazione, a fine stagione ho deciso di andare via, ma questa è una delle decisioni del mio passato che ancora rimpiango”.

Ci sono stati momenti di sconforto in cui hai detto “ma chi me lo fa fare”? Come si superano?
“Sì, ci sono stati, anche per motivi personali che non ho mai reso pubblici e che forse un giorno racconterò in un libro – o forse no, chissà – e li ho superati come sempre si superano certi periodi, cioè con la passione, l’affetto e la presenza delle persone che ti vogliono bene. I miei genitori e i miei amici Luca, Nello, Diego e Stefanino c’erano quando giocavo nella Juve, ma anche quando son tornato alla Civitanovese a fine carriera. Sempre con lo stesso entusiasmo e la stessa passione, senza mai chiedere nulla in cambio. Ogni giorno ringrazio di aver avuto, e di avere ancora oggi, persone così al mio fianco. Mio papà è sempre venuto alle partite, fin da quando ero piccolo, da San Siro in Serie A, a Marina Palmense in Promozione. Sempre lì, sugli spalti, in disparte, senza interferire, ma supportandomi anche solo con uno sguardo o un applauso. Così come i miei amici di infanzia, che mi hanno sempre seguito e aiutato nei momenti bui”.

Paolucci in azione nel Siena di Antonio Conte.
Paolucci in azione nel Siena di Antonio Conte.

Nel 2010/2011 hai tenuto a battesimo il primo Antonio Conte, che poi l’anno successivo è andato alla Juve ad aprire il ciclo vincente: era già così tosto come lo conosciamo oggi?
“Forse anche di più (ride, n.d.r.), anche perché era ancora agli inizi e quindi spingeva sull’acceleratore. Si vedeva subito che aveva grandissima voglia di emergere e, comunque, i metodi erano già quelli: allenamenti massacranti e la capacità di entrare nella testa dei giocatori. Quando capivi che ascoltarlo ti avrebbe portato lontano, lo seguivi senza titubanze. E infatti in campo volavamo. E a lui quell’esperienza è servita per guadagnarsi la Juve, che ha riportato alla vittoria e poi ha messo le basi per la squadra vincente che Allegri è stato bravissimo a capitalizzare”.

Ora che di mestiere sei direttore sportivo, se fossi in una big e potessi scegliere il tuo allenatore ideale, chi prenderesti?
“Se avessi budget illimitato, sicuramente Antonio Conte, perché è garanzia di successo. Se, invece, fossi chiamato a “costruire”, allora chiamerei Paolo Zanetti. Credo che al Verona stia facendo grandi cose e, probabilmente, il suo lavoro non è stato adeguatamente valorizzato e considerato. Mi piace la sua sfrontatezza, il suo coraggio e il suo modo di gestire il gruppo, oltre che la sua grinta in panchina”.

A proposito della tua seconda carriera: dopo l’esperienza dello scorso anno alla Fermana, qual è il tuo obiettivo nel prossimo futuro?
“Questo è quello che voglio fare “da grande”, diciamo così. L’esperienza dello scorso anno è stata complicata ma formativa, io so di avere dato tutto e per questo ho la coscienza pulita, ma purtroppo non è bastato e la squadra è retrocessa, anche per problemi extra-campo: siamo partiti a fine agosto e con il budget più basso della categoria. Sono solo all’inizio, per cui non ho la presunzione di dire che non ho fatto errori, ci sta, ma anche quelli servono per fare esperienza. Spero di avere altre opportunità e poi vedremo se avrò le qualità per continuare e crescere. Mi piacerebbe fare anche esperienze all’estero, mi ispiro ad Andrea Berta (Direttore Sportivo dell’Arsenal e in precedenza dell’Atletico Madrid, n.d.r.), che considero un’eccellenza italiana. Ha cambiato completamento il modo di interpretare e svolgere il ruolo”.

Hai un Piano B?
“No, non un vero Piano B, diciamo che ho un progetto parallelo a cui vorrei dedicarmi al di là di come possa proseguire la mia carriera di Direttore Sportivo. Mi piacerebbe costruire qualcosa di importante per la mia città a livello sportivo. E non solo a livello calcistico. Mi piacerebbe creare uno spazio e una società nella quale i ragazzi possano venire a fare attività fisica, senza che i genitori – che già faticano ad arrivare a fine mese – debbano svenarsi per rette che trovo immorali. Mi piacerebbe restituire alla mia terra quello che mi ha offerto quando ero giovane io. Ora che non si gioca più per strada, dobbiamo creare posti in cui i giovani vengano volentieri, luoghi “sicuri” anche per i genitori”.

Hai giocato nella tua squadra del cuore, con il tuo idolo da ragazzino, ma c’è un rimpianto che proprio non riesci a scrollarti di dosso?
“Sì, dopo aver fatto tutte le nazionali giovanili, mi sarebbe piaciuto quanto meno esordire in quella maggiore. Ai tempi di Catania, Lippi in un’intervista disse che mi stavano seguendo, purtroppo non c’è stato seguito. Mi sarei accontentato di una presenza, ma sono nato nell’epoca sbagliata. Oggi bastano poche partite buone e una convocazione non si nega a nessuno. Una volta arrivavi in Nazionale a fine di un percorso, conosco attaccanti con più di 100 presenze in A che venivano chiamati di rado, oppure neanche presi in considerazione. Ho giocato con Di Natale, Quagliarella, Lucarelli, tutta gente che oggi farebbe le fortune di Gattuso. Uno come Mascara, che oggi sarebbe sicuramente titolare, ha una sola presenza in Nazionale. Questo dice tutto. A 20 anni, con sei gol in Serie A, io andavo in Under 21, oggi, invece, con un molto meno, sei convocato in quella maggiore. Ai miei tempi l’Italia era Campione del Mondo, oggi – purtroppo – abbiamo mancato due Mondiali di fila e per il prossimo dobbiamo sperare di far bene agli spareggi…”.

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