Maurizio Domizzi: “Diventai rigorista dopo una lite a Napoli. Che imbarazzo con Pippo Inzaghi…”

C’è chi salta tutte le tappe, scala le gerarchie e si ritrova al posto giusto nel momento giusto e chi, invece, si deve sudare ogni vittoria, ogni obiettivo e ogni successo. Ci sono quelli baciati dalla fortuna e quelli che, la stessa fortuna, se la devono costruire con il sacrificio. “Una vita da mediano”, cantava Ligabue. Ecco, Maurizio Domizzi non era un mediano, ma fa parte di quelli che dovevano “lavorare sui polmoni, recuperar palloni, giocare generosi”. E anche oggi, nella sua seconda vita calcistica da allenatore, sta facendo esattamente lo stesso: partire dal basso, con grande umiltà e dedizione, per poi arrivare in alto. Come da calciatore, d’altronde: una vita trascorsa in provincia prima di arrivare a Napoli e, poi, conquistare la Champions League con l’Udinese. Già, proprio con l’Udinese, perché a Maurizio tutto ciò che è scontato e banale, non è mai piaciuto. E questa intervista lo confermerà…
Partiamo dunque proprio da questo: se dovessi considerare un momento “apice” della tua carriera, Napoli o Udinese?
“Dipende dai punti di vista: nel senso che a livello mediatico e di riscontro personale, probabilmente Napoli è stato il periodo più appagante, ma dal punto di vista professionale, essere riusciti ad andare in Champions con l’Udinese è sicuramente l’obiettivo più importante mai raggiunto. Un traguardo che nessuno si aspettava alla vigilia e che, per questo, è stato ancor più bello da festeggiare”.
Raccontaci l’atmosfera di Napoli, allora…
“Se non la vivi direttamente, diventa difficile descriverla. È davvero una città che vive per la squadra. Il primo anno eravamo in Serie B, ma il San Paolo (perché ai tempi si chiamava ancora così) era sempre pieno. Poi, quell’anno la Serie B era eccezionale: c’erano Juve, Napoli e Genoa e noi eravamo attrezzati, ma anche le altre non scherzavano (sorride, n.d.r.). Nella Juve c’erano Buffon, Del Piero, Nedved e tutti gli altri e anche il Genoa era forte, per cui andare in A non era così scontato. Ricordo ancora la gioia a fine stagione. E credo che il Napoli di oggi, sia nato proprio in quella stagione 2006/2007, perché il fatto di ottenere la promozione al primo anno, in una Serie B così difficile, è stato il primo successo di questo Napoli, quello che gli ha consentito di tornare ad alti livelli”.
L’anno dopo, poi, hai segnato anche una doppietta ad un certo Buffon…
“Per i tifosi del Napoli non era così importante chi fosse il portiere, si fosse chiamato pure Mario Rossi, sarebbe stato uguale. L’importante è che quei due gol io li abbia segnati alla Juve, e che siano serviti per vincere, tutto il resto conta poco. Ancora oggi se incontro un tifoso azzurro mi ricorda quella doppietta. E sono passati quasi vent’anni…”.

Allora togliamoci un’altra curiosità: come nasce il Domizzi rigorista?
“Ti direi per caso, nel senso che ufficialmente lo sono diventato per una casualità, ma io mi sono sempre divertito a calciarli. Solo che una volta non era così usuale che un difensore calciasse punizioni e rigori, per cui non ero ben visto quando a fine allenamento mi fermavo ad allenarmi. Una volta, però, ai tempi di Napoli, i rigoristi erano Bucchi e Calaiò. Non ricordo la partita, ma è successo che si sono messi a litigare per chi dovesse tirare e poi, chi lo ha tirato, lo ha anche sbagliato. Allora nello spogliatoio Reja davanti a tutti disse: “Dal prossimo li calcia Domizzi”. E così è stato. Ho cominciato a calciarli, e a segnarli, e quindi nessuno ha più detto nulla…”.
Sei stato un cecchino quasi infallibile, qual era il segreto?
“Non te lo so dire, non credo che ci siano segreti dal punto di vista tecnico. Secondo me, il calcio di rigore è tutta una questione di testa: c’è chi si fa prendere dalla tensione, a me – invece – andare sul dischetto mi piaceva proprio, era una sensazione inebriante, una scarica di adrenalina. Quindi ero tranquillissimo al momento di tirare. Infatti, in carriera, ne ho sbagliato soltanto uno. Ne ho segnati due nella stessa partita a Buffon, e dodici su tredici in totale. L’unico che è riuscito a intuirmelo, e pararmelo, è stato Matteo Sereni (stagione 2007/2008 in Torino-Napoli finita 1-1, n.d.r.)”.
Torniamo dunque al Maurizio ragazzino che sognava di tirare i calci di rigore all’Olimpico…
“In realtà ai miei tempi era tutto diverso, noi sognavamo per davvero, ma non pensavamo seriamente di arrivare a giocare in certi stadi. Adesso, invece, i ragazzi appena capiscono di avere qualità, credono quasi di averne diritto. Prima ti sentivi calciatore solo dopo aver fatto le prime esperienze in A o in B, adesso se vai a vedere una partita Primavera, pensi di essere alla finale di Champions League (sorride, n.d.r.). Io ho fatto tutta la trafila del vivaio della Lazio, ma neanche quando mi allenavo con Mancini, Nesta e Nedved – per citarne alcuni – mi sono sentito calciatore. È questa la differenza rispetto ai nostri tempi…”.
Comunque, deve essere stata un’emozione, dopo tanta gavetta, arrivare in prima squadra con “mostri sacri” del genere: chi ti ha impressionato di più di quella Lazio?
“Era una squadra davvero eccezionale, oltre ai nomi che ti ho citato in precedenza, c’era gente come Boksic, Marchegiani, Crespo, Simeone, Mihajlovic. Capisci che squadra? Sembrava di essere alle giostre, ogni anno arrivavano fenomeni nuovi. Peccato per come sia finita l’Era Cragnotti, ma i tifosi della Lazio in quegli anni se la sono proprio goduta. Pensa che, quando mi fanno questa domanda, per non essere banale, io rispondo sempre che in quella squadra c’era un calciatore come Jugovic, che magari la gente neanche ricorda, ma era un fenomeno vero!”.

L’allenatore di quella Lazio era l’indimenticato Eriksson, che ricordo hai di lui?
“Non ricordo la sua voce (ride, n.d.r.). Credo di non averlo mai sentito urlare. Una persona tranquillissima, un signore, ma – non per questo – uno che non si faceva ascoltare. A volte non serve urlare per farsi sentire…”.
Qualcuno – scherzando, ovviamente – dice che bastavano le urla di Mancini, allenatore in campo…
“Questo non lo so, perché non vivevo le dinamiche della Prima Squadra, ma sicuramente Mancini aveva un peso importante in quello spogliatoio, ma non a tal punto da sostituirsi all’allenatore (sorride, n.d.r.)”.
Hai avuto parecchi compagni che poi sono diventati allenatori, uno di questi è De Zerbi: te lo saresti mai aspettato?
“Ad essere sincero, no! Era difficile immaginarlo per chi ha conosciuto il Roberto giocatore: un estroso, un fantasista, quasi anarchico, che se le cose non andavano come voleva lui, era capace di mollare tutto e andarsene. Roby è un amico, ma davvero l’allenatore era l’ultima cosa che mi sarei aspettato da lui. Tuttavia, bisogna dargli ancor più merito perché ha fatto un bel lavoro su se stesso, diventando in un ottimo tecnico”.
Un’altra curiosità della tua carriera è che proprio verso la fine, a Venezia, ti sei ritrovato come allenatore un nemico di tante battaglie come Pippo Inzaghi: è stato strano o naturale?
“All’inizio molto strano, ero piuttosto incuriosito perché – devo essere sincero – in campo non ce le siamo risparmiate. Inzaghi calciatore era davvero fastidioso, da difensore lo odiavi e qualche screzio durante le partite che abbiamo giocato da avversari c’è stato. Madonna se c’è stato (ride, n.d.r.). L’Inzaghi allenatore, invece, era l’esatto opposto: aveva la stessa determinazione del calciatore, ma una persona pura, che ci mette più del 100% della passione che ha. E ho detto tutto. Credo che questa sia la sua miglior dote da tecnico, perché poi le cognizioni tattiche le abbiamo un po’ tutti…”.

Chi, secondo te, è un allenatore che si eleva oggi rispetto alla media?
“Non lo conosco di persona, anche se mi piacerebbe molto, ma se devo fare un solo nome, dico Arteta. All’inizio della sua carriera è stato fortunato perché ha potuto cominciare subito all’ombra di Guardiola, e non è poco, ma poi credo che sia stato bravo a trovare rapidamente la sua strada, senza cercare di copiare un mostro sacro come Pep e offrendo anche un calcio più verticale e diretto rispetto al Manchester City”.
Come va, invece, la tua esperienza alla Correggese in Serie D? Fare la gavetta è stata una scelta o una necessità?
“Un po’ entrambe le cose, nel senso che quando ho cominciato questa nuova carriera ero certo di quello che non volevo fare. Non mi sentivo caratterialmente compatibile con il ruolo di secondo o di collaboratore tecnico e preferivo allenare direttamente i grandi, piuttosto che i giovani. Non che non dia loro spazio, nelle mie squadre ce ne sono sempre tanti, e spesso li ho fatti giocare di più di quanto non mi obbligassero le regole, ma caratterialmente preferisco gestire spogliatoi “maturi”, diciamo così. Avevo messo in preventivo che, probabilmente, la strada sarebbe stata un po’ più lunga, perché quando esci dai circuiti professionistici, poi non è semplice rientrare, ma non ho fretta. Per quanto riguarda questa esperienza alla Correggese, mi sto trovando molto bene, la società è seria e il progetto è solido. Dal punto di vista dei risultati, sappiamo tutti che dobbiamo migliorare, ma quello è mio compito e stiamo lavorando per alzare il livello”.
E Domizzi allenatore com’è? Chi ti ha influenzato di più?
“Ti direi nessuno: non per arroganza, ma perché è impossibile. Il calcio che ho vissuto da giocatore non esiste già più, figuriamoci il ruolo di allenatore come era una volta. Per cui ti devi reinventare da zero. Io sto facendo questo percorso, cercando di portare in panchina la mia esperienza di campo e, dall’altra parte, facendo tesoro del lavoro quotidiano e dei risultati che questo lavoro produce. Poi, è difficile dire che tipo di allenatore io sia, bisognerebbe chiederlo agli altri, ma credo almeno di essere un allenatore coerente, trasparente, affidabile e leale, questo sì. E, credimi, anche questo non è banale”.

Un allenatore che, però, ha fatto il miracolo è Guidolin: era lui il tecnico di quella Udinese che è riuscita a stupire tutti conquistando la Champions League…
“Un ottimo tecnico, alla guida di un’ottima squadra, perché a volte si abusa dell’accezione “miracolo”, ma nelle rose di quelle squadre c’era gente come Handanovic, Cuadrado, Benatia, Asamoah, Isla, Armero, Pereyra, Sanchez e Di Natale, sempre per citarne alcuni. Il mister sapeva toccare le corde giuste, ma noi eravamo forti e abbiamo suonato un’ottima musica (sorride, n.d.r.). Per altro, noi in Champions League ci siamo arrivati due anni di fila (2010/2011 e 2011/2012 n.d.r.) e la seconda volta siamo arrivati terzi e non quarti. Altro che miracolo!”.
A proposito, nella stagione della prima qualificazione Champions League le avete “suonate” anche alla Juve…
“Tornando a quando mi hai chiesto quando mi sono sentito veramente un calciatore, ecco quello è stato il momento. Era la Juve di Buffon, Chiellini, Bonucci, Grosso e Del Piero. Eravamo a metà campionato (30 gennaio 2011, n.d.r.), noi stavamo andando bene, ma è stata quella vittoria a farci capire quanto fossimo forti e che si poteva sognare in grande. Non mi sono mai sentito così realizzato come alla fine di quella partita”.
In quell’Udinese c’era un certo Di Natale: siamo d’accordo che se – oggi – ci fosse uno come lui, Gattuso e la Nazionale avrebbero risolto tutti i loro problemi?
“Questo non lo so, ma avrebbero sicuramente meno problemi. In particolare, Gattuso avrebbe solo da scegliere gli altri dieci, perché Totò sarebbe indiscutibilmente titolare. Era un fenomeno già allora in un calcio in cui c’erano attaccanti eccezionali, oggi farebbe ancor più la differenza. E son convinto che se Gattuso avesse uno come Di Natale, sarebbe molto più sereno (ride, n.d.r.)”.
Se avessi un solo acquisto a disposizione, qual è il giocatore che vorresti sempre nella tua squadra?
“Questa è facile: Giampiero Pinzi. E non solo per l’amicizia che ci lega, ma soprattutto per il suo modo di essere “guida” di tutto il gruppo. Capitano ed esempio, bandiera e sottovalutato, un giocatore eccezionale. Se fai la stessa domanda a tutti i suoi ex compagni, sono sicuro che in molti sceglierebbero lui”.