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Matteo Ardemagni: “Ho vissuto lo spogliatoio del vero Milan. Ancelotti una volta mi lasciò scioccato”

Matteo Ardemagni rivive i momenti chiave della sua carriera, tra errori, scelte coraggiose e l’istinto eterno del bomber: dal sogno del grande Milan al presente in Serie D.
A cura di Sergio Stanco
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La vita di un calciatore è fatta di “sliding doors”, di momenti che ti cambiano la carriera (e dunque anche la vita). Di errori che ti segnano, di decisioni impulsive, di scelte rischiose. Matteo Ardemagni, promettente bomber, vice-capocannoniere della Serie B nel 2012-2013 (23 gol nel Modena), sa perfettamente quando gli è cambiata la vita: “Dopo quell’ottima annata, sono andato al Chievo in Serie A. Ho esordito contro la Juve (il 25 settembre 2013, n.d.r.), entro nel finale, sotto di un gol (1-2, n.d.r.) e provo a fare qualcosa. Finisco a fare il torello tra Buffon, Barzagli e Chiellini. Correvo come un matto e non toccavo palla. Mi son detto: “Mai io che ci faccio qui?”. Avevo davanti Thereau, Paloschi e Pellissier, giocavo poco e solo spezzoni. A gennaio ho chiesto di andar via. Mi voleva mezza Serie B e io volevo giocare. Al Chievo c’era Sartori: il Direttore non voleva cedermi, ha provato a farmi ragionare, ma non ho voluto ascoltare. Probabilmente avrei fatto meglio a restare e giocarmi le mie carte in A. Questo è il mio maggior rimpianto, poi – per il resto – non mi piace guardare al passato, preferisco concentrarmi su quello che posso governare ora”.

E il presente si chiama Serie D, Pavia in particolare, perché Ardemagni, dopo aver fatto tutto il settore giovanile nel Milan, aver esordito in rossonero con Vieri, Inzaghi, Gattuso, Pirlo, Kakà (solo per citarne alcuni) con in panchina Carletto Ancelotti, e una onesta carriera (soprattutto in B), ad un certo punto non si è fatto problemi a fare un passo indietro e ricominciare dall’Eccellenza. Il richiamo del pallone era troppo forte, anche a 37 anni e dopo qualche mese da svincolato. E l’istinto del bomber è innato e intatto, non c’è categoria che tenga. E infatti ora il Pavia è in Serie D. Merito anche di un certo Arde…

Allora Matteo, ripercorriamo un po’ la tua storia dalle origini: calciatore grazie a chi?
“Ovviamente ai miei genitori, dico sempre che i sacrifici li hanno fatti loro, non io. Ricordo ancora quando mio padre e mia madre mi accompagnavano al campo di allenamento delle giovanili del Milan dopo una giornata di lavoro. Non me l’hanno mai fatta pesare. E pensare che mio padre era interista (ride, n.d.r.)”.

E tu invece?
“Milanista da sempre, quindi quando ho ricevuto la telefonata del responsabile delle giovanili rossonere, è stata un’emozione doppia. Ma anche per mio padre, la sua felicità e il suo orgoglio trasparivano dai suoi occhi. Ricordo il momento esatto: avevo fatto un provino per il Piacenza, che era andato bene. Io sono di San Colombano al Lambro, provincia di Lodi, quindi non era troppo distante da casa e poteva essere una soluzione. Poi ne avevo fatto uno all’Inter ma ero in attesa di risposta. Quando però è arrivata la telefonata del Milan, per me non è esistito nient’altro”.

Ardemagni con la maglia del Milan.
Ardemagni con la maglia del Milan.

Tutto il settore giovanile rossonero, fino ad essere aggregato in prima squadra, nel Milan di Ancelotti, Vieri, Inzaghi, Kakà, Gattuso, Pirlo e molti altri: immagino come tremassero le gambe…
“A Milanello ci allenavamo sugli stessi campi, quindi li vedevo ogni giorno, ma un conto è vederli, un altro è vivere lo spogliatoio da dentro, parlarci, ricevere indicazioni da un mostro sacro come Ancelotti. Per me, ragazzo di provincia, era come vivere in un sogno…”.

C’è qualche consiglio ricevuto in quei giorni che ti è tornato utile nella tua carriera?
“Avevo legato molto con Pippo Inzaghi, una persona meravigliosa. Nonostante lui fosse un campione e io, invece, un ragazzino della Primavera, condivideva tutto. Ricordo che mi diceva sempre di scattare sul filo del fuorigioco o di attaccare il primo palo. “Arde, è il primo palo che ti dà da mangiare”. Un grande. Mi ha insegnato anche ad andare sempre sulla respinta del portiere. Sono consigli che mi porto ancora dietro”.

E un ricordo di Carletto Ancelotti?
“Un signore, davvero. Ricordo che una volta è venuto da me con la sua consueta pacatezza e mi fa: “Matteo, io avevo pensato di portarti con noi in tournée in America. Che ne dici, ti andrebbe?”. Io ero scioccato, non sapevo come rispondere. Gli ho detto: “Certo, Mister”, ma in realtà ci sarei andato anche in bicicletta. Ero al settimo cielo”.

Era un Milan di campioni, chi ti ha impressionato di più?
“Quello secondo me è il “vero Milan”, come lo chiamo io. Parliamo di una squadra di un livello assurdo, ma Kakà era di classe superiore, dentro e fuori dal campo. Un ragazzo educatissimo, sempre gentile e sempre sorridente. Poi in campo era una “bestia”, classe ma anche potenza. Meraviglioso vederlo giocare da vicino”.

Era anche il Milan di Gattuso: ti saresti mai immaginato di vederlo allenatore e addirittura CT della nazionale?
“Beh, ai tempi no, ma devo dire che adesso ha tutta la mia stima. È credibile, autorevole, riesce a trasmettere alla squadra il suo carattere, mi piace. Di Ringhio ricordo ancora la faccia di quando entrava in palestra, era la stessa della partita. Era sempre incazzato (ride, n.d.r.) ma era il suo modo di approcciare il calcio. Sempre di petto”.

Ardemagni nell’esperienza all’Atalanta.
Ardemagni nell’esperienza all’Atalanta.

Nelle giovanili sei stato compagno di squadra anche di Davide Astori, che ricordo hai di lui?
“Davide era davvero un ragazzo speciale, di un’umiltà rara, come tutta la sua famiglia. Nonostante avesse fatto un’ottima carriera, non se la tirava per niente. Il classico ragazzo d’oro che ogni papà vorrebbe per la propria figlia. Siamo cresciuti insieme e conoscevo anche la sua famiglia. Ricordo ancora il momento in cui ho saputo, ero ad Avellino, mi sono accasciato incredulo. Al funerale ho abbracciato i suoi genitori in lacrime. Ho ancora i brividi”.

Torniamo alla tua carriera: sei stato il primo acquisto dell’era Percassi all’Atalanta, si respirava già “aria di progetto”?
“Quello che è successo poi non era immaginabile, ovviamente, ma si vedeva che c’erano grandi ambizioni. Eravamo in Serie B ai tempi, ma l’obiettivo era chiaramente quello di tornare in Serie A, come poi è successo. Per me purtroppo l’esperienza non è stata positiva e riconosco che probabilmente ero troppo acerbo per un ambiente esigente come quello di Bergamo. Venivo dal Cittadella, dove avevo fatto molto bene, e le aspettative erano di alto livello, purtroppo non sono riuscito a gestire la pressione, ma è stata comunque un’esperienza formativa”.

Nel corso della tua carriera non hai mai avuto paura di non farcela e, dunque, doverti reinventare?
“Alla fine no, perché tutto sommato qualcosina ho guadagnato e non sono mai stato uno particolarmente attaccato ai soldi o spendaccione, dunque non ho grandi necessità. Per me è sempre stato importante che stesse bene la mia famiglia. Quello che dico sempre a mio padre, però, è che se avesse aspettato qualche anno, ora saremmo a posto per generazioni. Adesso, ad un ragazzo della Primavera, basta fare qualche gol per andare a giocare in B a 500mila euro a stagione. Io ricordo ancora quando, dopo aver fatto una stagione meravigliosa, Braida mi mandò a giocare in C1 a Perugia. E dovevi anche sperare di fare qualche presenza, perché allora non c’erano le regole che ci sono oggi!”.

Ti ricordi il primo lusso che ti sei concesso quando hai cominciato a guadagnare?
“Sì, me lo ricordo bene. Era Natale e ho fatto un regalo a mio papà. Gli ho preso un bell’orologio per ringraziarlo dei sacrifici che aveva fatto per me. Poi, ovviamente, ho fatto regali anche a mia mamma e mia sorella, perché se no mi ammazzavano (ride, n.d.r.). Scherzo, come ti dicevo prima, per me la famiglia è molto importante, quindi ho ritenuto fosse giusto condividere con loro gioia e opportunità”.

Ardemagni esulta dopo un gol con l’Ascoli.
Ardemagni esulta dopo un gol con l’Ascoli.

Dopo aver calcato palcoscenici importanti, non hai esitato a ricominciare dalle serie inferiori: è stato coraggio, incoscienza o cos’altro?
“Semplicemente mi sento ancora bene. Mi vedo negli allenamenti e non mi sento inferiore ad un ventenne. Quando non ci arrivo con lo spunto, ci arrivo comunque con l’esperienza. Dunque, finché è così vado avanti. Dopo Chieti, sinceramente, mi ero stufato di fare traslochi e ho chiesto al mio procuratore di trovarmi una soluzione vicino a casa, perché non avevo più voglia di fare il girovago. Avevo ricevuto altre offerte, anche dall’estero o da categorie superiori, ma veramente non me la sentivo più di fare bagagli. Quando è arrivata l’offerta del Pavia, non ho pensato alla categoria (Eccellenza, n.d.r.) ma ho valutato altri fattori. Innanzitutto, la società mi ha fatto subito una grande impressione, il progetto era serio e le prospettive ottime, tutte cose non così scontate in certe categorie. Per cui ho deciso di rimettermi in gioco. E direi che le cose sono andate bene…”.

In effetti, è stata promozione al primo colpo: ora, in Serie D, qual è l’obiettivo?
“Ormai ho 38 anni e nella mia carriera sono partito con squadre che dovevano ammazzare il campionato, che poi son retrocesse. E viceversa. Dunque, preferisco restare con i piedi per terra. Come ho detto prima, la società è molto seria ed ambiziosa, ma il primo step deve essere la salvezza, una volta raggiunta quella poi alzeremo l’asticella”.

Scherzo del destino, ti sei ritrovato il Milan alla prima giornata, ma non eri disponibile per influenza: quanto ti è dispiaciuto?
“Tanto. Anche se, alla fine, si trattava del Milan Futuro, mi sarebbe piaciuto esserci, avrebbe avuto un sapore nostalgico. Ma mi è dispiaciuto soprattutto per la sconfitta della squadra, per altro immeritata a mio parere. Avrei voluto essere d’aiuto ma purtroppo il destino ha voluto diversamente”.

Che idea ti sei fatto delle seconde squadre in Serie C/D? Sei con i tifosi, quindi contro, o con il sistema, quindi a favore?
“Non entro nel merito specifico, posso solo dire che non mi piace la deriva che sta prendendo il calcio. Ogni anno si inventano regole nuove per uno Sport che secondo me non ne aveva per nulla bisogno. Funzionava bene già prima. Meglio senza VAR o senza quel pasticcio che hanno fatto in Serie C con i bigliettini, ad esempio (Il Football Video Support o VAR a chiamata, n.d.r.). Ma cos’è? Il calcio non è un quiz o una scommessa…”.

Ardemagni ai tempi dell’Avellino.
Ardemagni ai tempi dell’Avellino.

Sei stato veramente un giramondo, ma qual è stato l’ambiente in cui ti sei trovato meglio?
“Come Avellino non c’è nulla. La passione dei Lupi è una cosa fuori dal normale. Ancora oggi i tifosi mi ricordano con grandissimo affetto. E, poi, è incredibile, ovunque tu vada, troverai sempre un tifoso dell’Avellino. Qualche tempo fa ero in Piazza Duomo a Milano e sento uno che urla: “Ardeee”. Mi sono preoccupato, ho detto: “Che è successo? Che ho fatto?”. Invece era un tifoso dell’Avellino che mi aveva riconosciuto e voleva una foto. È incredibile quanta passione ci sia per la squadra”.

Ora che la tua carriera sta volgendo al termine, come te lo immagini il futuro?
“Sai che non ci ho ancora pensato? E non ho nessuna intenzione di farlo. Io mi sento ancora bene e ho la presunzione di dire che a certi livelli posso ancora dire la mia. Per cui, finché è così mi sento di continuare. Quando qualcuno mi verrà a dire che non sto più in piedi, allora ci ripenserò. Ma devono essere tanti, uno non basta (ride, n.d.r.)”.

Qual è il momento che ricorderai per sempre?
“Ovviamente l’esordio con il Milan. Era Coppa Italia contro il Brescia, avevo 18 anni e sono entrato al posto di Gilardino per giocare con Vieri. Tanta roba. E, poi, sempre quell’anno, ricordo il Trofeo Tim giocato a San Siro contro Juve e Inter. Alla fine del derby siamo andati ai rigori e ho spiazzato Julio Cesar. Non contava nulla, ma per me in quel momento era come se avessi vinto la Champions…”.

Riavvolgendo il nastro, qual è il giocatore che hai ammirato da vicino che ti ha impressionato? E oggi chi ti piace guardare?
“A parte quelli del Milan, ti dico Del Piero. Aveva un’eleganza e una classe immensa. Ho visto il gol di Yildiz contro il Borussia, mi ha ricordato moltissimo quelli che faceva Alex. Gli assomiglia davvero tanto”.

Chiudiamo con una nota di colore: il difensore che ti ha menato di più e che non vorresti più vedere?
“Sicuramente Chiellini. Ho preso più botte da lui in quel finale di Chievo-Juve che da tutti i difensori messi assieme in carriera. A un certo punto gli ho anche detto: “Chiello, ma stai calmo. Mi fanno giocare dieci minuti, state vincendo, sto correndo come un asino ma non ho toccato neanche un pallone, non ti ci mettere pure tu”. E lui diceva: “Arde, scusami, non l’ho fatto apposta”, ma intanto menava come un fabbro. Che poi era un ragazzo estremamente educato e anche simpaticissimo. Fuori dal campo però… (ride, n.d.r.)”.

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