video suggerito
video suggerito

Marcello Trotta: “A 16 anni finisco al Manchester City, solo e senza parlare inglese. È stata dura”

Marcello Trotta si racconta, dallo sbarco a 16 anni al Manchester City ai campi di Serie A, B e oggi D: una carriera di sacrifici, scelte coraggiose e orgoglio senza rimpianti.
A cura di Sergio Stanco
0 CONDIVISIONI
Immagine

Marcello Trotta, a suo modo, è stato un precursore. A 16 anni, si è trasferito da solo a Manchester. Il City, infatti, lo aveva adocchiato nelle nazionali giovanili. Così, dal caldo (non solo atmosfericamente) di Santa Maria Capua a Vetere, si è trovato catapultato nella fredda Inghilterra. Momenti complicati per un ragazzino, che però ha stretto i denti per coronare il suo sogno. Anche perché, oggi la globalizzazione nei settori giovanili è un concetto comune, ma vent’anni fa non lo era affatto: “Mi sono ritrovato in un ambiente assolutamente professionale dal punto di vista delle strutture, qualcosa che non si può paragonare a nessuna società italiana, ma anche in una situazione nella quale inevitabilmente mi mancava qualcosa. Vedevi le foto degli amici al mare, sentivi la famiglia solo per telefono, perché ai tempi non c’erano le tecnologie che ci sono oggi, avvertivi la nostalgia di casa. Non parlavo neanche una parola di inglese e questo certamente non ha aiutato. È stata dura, ma alla fine sono molto orgoglioso di come io abbia superato quei momenti difficili e di come si sia sviluppata la mia carriera. Quell’esperienza mi ha aiutato tantissimo a crescere come calciatore e come uomo”. Da allora, Trotta ha fatto il giro del Mondo calcistico, serie inferiori inglesi, Premier League, Europa League, Serie A, B e C, fino ad arrivare al Sora, in Serie D, dove oggi presta la sua esperienza ai ragazzini che, come lui, hanno un sogno nel cassetto.

Allora, Marcello, ripartiamo dalle origini, dai campi di provincia di Caserta a Castelvolturno e al Napoli calcio: quale emozione è stata entrare in un settore giovanile così importante?
“Un’emozione forte, perché comunque era un ambiente che aveva visto il più forte giocatore della storia e una delle squadre più forti che si siano mai viste in Italia. Si respirava quest’aria positiva e si vedeva che c’era l’entusiasmo per riportare il club ai fasti di un tempo, anche a partire dal settore giovanile”.

Hai citato – tra le righe – Maradona, immagino fosse un’icona onnipresente a Napoli…
“È difficile da spiegare, perché è come se lui fosse sempre presente, il suo spirito, la sua aura avvolge la città e tutta l’ambiente calcistico del Napoli. È un mito, un esempio, un modello per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di vederlo dal vivo, ma anche per quelli che sono arrivati dopo, ma ai quali viene sempre citato come punto di riferimento da seguire. E, poi, c’erano le storie che si tramandano, come quelle che raccontano di lui che scende di notte in strada per giocare con i bambini. Bellissimo”.

Dunque, Maradona era anche il tuo idolo da ragazzino?
“Lui è inevitabilmente l’idolo di tutti i ragazzini che sognano di diventare calciatori, e non solo napoletani, ma per caratteristiche, ruolo e contemporaneità, io ammiravo in modo particolare Vieri e Adriano. Erano esattamente il prototipo di calciatore a cui, a quell’età, speravo di somigliare”.

Trotta con la Nazionale U21.
Trotta con la Nazionale U21.

Hai fatto diversi anni nel settore giovanile nel Napoli, finché non è arrivata l’offerta del Manchester City: com’è nata l’opportunità e come l’hai vissuta?
“Ai tempi il City faceva un’approfondita attività di scouting e mi avevano notato nelle nazionali giovanili. Quando è arrivata l’offerta, non è stato semplice. Immagina un ragazzino di sedici anni che deve trasferirsi dal Napoli fino a Manchester. Da solo, senza sapere la lingua, dovendo lasciare casa, amici e affetti. Poi, però, ti rendi conto che è l’opportunità della vita, che è quello per cui hai sempre fatto sacrifici – tu, ma anche la tua famiglia – ed è praticamente l’opportunità che hai sempre aspettato per trasformare il tuo sogno in realtà. Dunque, non potevo farmela sfuggire…”.

Come l’hanno vissuta i tuoi genitori?
“Mia madre ovviamente male (sorride, n.d.r), con la preoccupazione di una mamma che vede un figlio sedicenne trasferirsi dall’altra parte del Mondo. Mio papà mi ha sempre assecondato un po’ di più, perché comunque è appassionatissimo di calcio. Quindi, il mio sogno era anche un po’ il suo. E vedere che si stava realizzando, faceva quasi più felice lui di me”.

Ti ricordi il momento in cui – insieme alla tua famiglia – hai detto: ci siamo, ce l’abbiamo fatta?
“Sì, è stato un momento molto strano. Dopo il settore giovanile del Manchester City, sono andato al Fulham e da lì in prestito al Wycombe Wanderers. Un fine settimana viene a trovarmi tutta la mia famiglia. Prima della partita, preparo una sottomaglia con una dedica a mio papà, da far vedere in caso di gol. Dopo due minuti, segno, però non mi son tolto la maglietta perché non potevo prendere l’ammonizione subito. Successivamente, segno ancora, ma sembrava un mezzo autogol, dunque nulla. Durante la gara continuavo a dirmi: “Ma guarda te, ho preparato la maglietta, ho fatto due gol e non l’ho neanche mostrata a papà…”. Sul finale, faccio il terzo gol e allora sì, l’ho tolta, e sono corso verso i miei famigliari. Ricordo ancora le lacrime di mio papà, sembrava un bambino, ancora oggi lo prendiamo in giro (ride, n.d.r.)”.

C’è stato invece un momento in cui, invece, hai temuto di non farcela?
“Nella carriera di un calciatore, soprattutto agli inizi, vivi sempre uno stress emotivo importante. È come se rinunciassi alla tua vita da adolescente per un sogno più grande. Sono sacrifici che fai volentieri, ma non sai mai se riuscirai a diventare un calciatore professionista. In cuor tuo lo speri, ma non ne hai mai la certezza, perché le cose possono cambiare molto in fretta. Basta un infortunio, un errore, una scelta avventata, e tutto cambia. Io ho sempre cercato di non pensarci, altrimenti rischi si essere sopraffatto dalla tensione e dalle aspettative. Quello che ti pesa di più è la paura di deludere chi, oltre a te, ha fatto tanti sacrifici per aiutarti. Penso alla mia famiglia, ad esempio. Spesso, questo è un aspetto della vita di un calciatore che viene trattato con superficialità. Io mi ritengo un ragazzo fortunato, intendiamoci, ma per uno che arriva al professionismo, ce ne sono cento che si sono sacrificati allo stesso modo, hanno rinunciato alla loro gioventù e, alla fine, non ce l’hanno fatta”.

Trotta esulta dopo un gol con il Brentford.
Trotta esulta dopo un gol con il Brentford.

È davvero così diversa la vita di un calciatore inglese da quella che si vive in Italia?
“Per quella che è stata la mia esperienza ti dico di no, però ero molto giovane e certamente non ero un top player (sorride, n.d.r.). Probabilmente per i giocatori di Premier League oggi è diverso, ma la sensazione generale è che il calcio venga vissuto con grande passione, ma anche con rispetto e discrezione. Dunque, la vita privata del calciatore è molto più riservata. Fuori dal campo, puoi avere una vita sociale normale”.

Che ricordi hai della tua esperienza inglese e di compagni e avversari?
“Ricordo soprattutto l’anno del Fulham, quello in cui arrivammo in finale di Europa League (stagione 2009/2010, poi persa ai supplementari contro l’Atletico Madrid di Aguero e Forlan, n.d.r.). Io ero ancora nelle giovanili, ma a volte venivo aggregato alla prima squadra e respiravo un’aria meravigliosa. Pur essendo un club di “seconda fascia”, quello era un Fulham fantastico, pieno di campioni. Avevamo anche eliminato la Juventus negli ottavi di finale dopo una rimonta pazzesca (3-1 a Torino, 4-1 a Londra n.d.r.), dunque c’era un entusiasmo trascinante. Ogni partita a Craven Cottage era una bolgia. E, comunque, quella era una rosa piena di campioni: c’erano Duff, Murphy, Davies, Zamora, Dempsey e molti altri. È stata un’esperienza fantastica e indimenticabile, peccato per la sconfitta in finale”.

Il giocatore che ti ha impressionato di più di quel periodo?
“Berbatov era uno che faceva cantare la palla. Davvero, incredibile. Poi un ragazzo tranquillissimo, nonostante di lui si parlasse davvero tanto, mai una parola fuori posto o un atteggiamento da superstar”.

Cosa ti ha convinto a tornare in Italia? È una scelta che rifaresti?
“Sì, la rifarei perché alla fine mi ha permesso di fare la mia carriera. Con il senno di poi, si possono fare tanti ragionamenti, ma è tutto inutile. In quel momento ho valutato di tornare perché ero nel giro della Nazionale Under 21 e con Mister Di Biagio avevamo convenuto che avessi bisogno di giocare di più. È arrivata l’offerta dell’Avellino, una società seria con un progetto interessante, oltre che una piazza molto calda e con grande entusiasmo, e così ho deciso di accettare. Fu un’annata molto positiva e infatti a fine anno ho ricevuto diverse offerte…”.

Il Sassuolo ha avuto la meglio, ma ai tempi si era parlato di diverse big interessate: ora puoi confermare?
“Beh, sì, sarei potuto andare alla Juve. I bianconeri erano interessati, ma alla fine il Sassuolo è stato più deciso e ho considerato che, forse, per la mia crescita, uno step intermedio sarebbe stato più opportuno”.

Trotta con la maglia del Sassuolo.
Trotta con la maglia del Sassuolo.

Anche in questo caso, non ti sei mai pentito della scelta? Mai pensato cosa sarebbe potuto succedere se fossi andato alla Juve piuttosto che al Sassuolo?
“Sì, ogni tanto ci pensi, ma tanto è inutile, perché non puoi avere la controprova. Certo, era la Juve di Higuain e Dybala, quindi potresti avere dei rimpianti, ma poi pensi: “Avrei mai giocato in una squadra così”? Come dicevo in precedenza, nella carriera di un calciatore ci sono tanti momenti particolari, nei quali devi prendere una decisione, non sempre magari è quella più scontata e corretta, ma è inutile ripensarci. Io sono davvero soddisfatto della carriera che ho fatto, dunque perché guardarsi indietro?”.

Nella seconda “tornata” al Sassuolo, nel 2018/2019, pur giocando poco, sei stato allenato da De Zerbi: che ricordo hai di lui e ti aspettavi che arrivasse ai livelli di oggi?
“È vero, ho giocato poco, ma con il mister ho sempre avuto un ottimo rapporto, perché è uno vero, onesto, che ti dice le cose in faccia. Ti può piacere quello che ti dice, oppure no, ma quanto meno sai quello che pensa di te. Non avevo dubbi che arrivasse a questi livelli, perché è davvero uno che vive e respira calcio ventiquattrore al giorno. E poi è un motivatore eccezionale. Ora i suoi discorsi e le sue esultanze sono virali per via dei social, ma posso confermarvi che è un “pazzo vero” (sorride, n.d.r.), nel senso di puro, genuino, è capace di esplodere in positivo o in negativo in ogni momento, ma per i suoi ragazzi si farebbe “ammazzare”. Per questo i suoi calciatori si butterebbero nel fuoco per lui. Crea empatia e legami fortissimi. Io non sono mai stato allenato da Mourinho, ma mi sembra che nella gestione del gruppo siano molto simili. E, poi, tatticamente è uno che studia ogni minimo dettaglio, a livelli di malattia (sorride, n.d.r.)”.

Tu hai festeggiato il Mondiale 2006 da tifoso e poi ti sei ritrovato Nesta e Grosso come allenatori: mai capitato che in ritiro chiacchierassi con loro di quell’esperienza davanti a un caffè?
“Sì, è capitato e non ti nascondo che è stato “strano”. Non tanto perché, comunque, avevi davanti due campioni del Mondo che tu ammiravi in televisione fino a qualche anno prima, ma per la semplicità con cui ti raccontavano quello che avevano vissuto. Cioè, tu ti esaltavi per una partita di Serie B e loro, che avevano vinto un Mondiale, uno praticamente quasi da solo, te lo raccontavano come fosse una cosa normale. Da lì capisci lo status del giocatore: alla fine quando arrivi a quei livelli e conquisti Champions League, Mondiali e Scudetti, anche vincere diventa una bella abitudine”.

Dopo quell’esperienza al Sassuolo, hai girovagato tanto, con anche un’esperienza al Famaliçao in Portogallo, ma non hai mai trovato continuità: cosa ti è mancato?
“Sicuramente un po’ di fortuna. Come dicevo prima, la carriera di un calciatore è fatta di episodi, con il Crotone nel 2017/2018 abbiamo fatto un ottimo campionato, anche a livello personale, ma poi non ci siamo salvati per un punto e siamo retrocessi in B. La salvezza poteva cambiare la storia. Da lì in poi ho sempre cercato una soluzione che mi convincesse, a volte ho probabilmente anche preso decisioni avventate, ma è andata così, inutile recriminare”.

Trotta ai tempi del Crotone con Zenga.
Trotta ai tempi del Crotone con Zenga.

Provocazione: ma che ci fa uno come Trotta, a soli 33 anni, in Serie D?
“Ah, boh, me lo chiedo anche io (ride, n.d.r.). A parte gli scherzi, il calcio sta prendendo una deriva preoccupante, soprattutto nelle serie inferiori. Basta guardare le penalizzazioni in Serie C, è uno stillicidio. Se devo vivere queste situazioni, meglio sposare un progetto serio in Serie D come quello del Sora. In Serie C, ormai, è una baraonda, non si capisce più niente, siamo solo ad inizio stagione e guarda quante società in difficoltà ci sono. Non c’è più credibilità. Personalmente, credo che con l’abolizione della Serie C2 si sia creato troppo divario tra il dilettantismo e il professionismo, dunque si generano questi problemi. Introducono regole che nessuno capisce, complicano le cose e proteggono situazioni che invece andrebbero combattute e debellate. Ormai il calcio vero è solo quello di Serie A e B. Allora, a questo punto, preferisco fare un passo indietro e trovare una soluzione che mi permetta di giocare ancora ad alti livelli, divertendomi. Sora per me rappresenta questo”.

E come è stato l’approccio e come vedi il prossimo futuro?
“Sono contento della scelta. In passato ho preso decisioni sapendo che la situazione era difficile, ma sperando che potesse cambiare qualcosa. Questa volta, dopo le ultime esperienze, ho preferito andare sul sicuro. E devo dire che sono molto soddisfatto, abbiamo cominciato bene la stagione, abbiamo chiaro in testa l’obiettivo di una salvezza serena e, poi, si vedrà. Ho trovato un ottimo ambiente per fare calcio e mi consente anche di mettere a disposizione la mia esperienza nei confronti dei ragazzi più giovani, che è un aspetto che mi inorgoglisce sempre molto”.

A proposito di giovani: tu hai fatto parte di un ottimo gruppo di Under 21, con molti giocatori che sono arrivati in Serie A ad alti livelli: ti sei dato una spiegazione sulle difficoltà della nazionale maggiore?
“Il nostro gruppo era molto forte, c’erano Belotti, Sturaro, Berardi, Bernardeschi, Zappacosta e molti altri. Faccio veramente fatica a risponderti sulla nazionale maggiore, perché è un discorso molto complesso. Io credo che in Italia non manchino i giovani di qualità, il problema è che non è concesso loro di sbagliare. Quando vai in prima squadra, se sbagli, sei “bollato”. E un giovane non ha ancora accumulato l’esperienza e forgiato un carattere che gli consentano di gestire quel momento. Credo, ad esempio, che le squadre B in questo senso possano aiutare. Ricordo che dopo un’ottima stagione nelle giovanili del Fulham, mi hanno detto: “Bene, ora vai a prendere i calci dai grandi”. Ai tempi ci sono rimasto male, ma ora capisco il senso di quella frase. I giovani devono poter farsi le ossa, se non riesci a farlo in prima squadra, va bene anche la Serie C. Guarda la Juventus Next Gen quanti giocatori ha sfornato e quanti di quelli ora giocano ad alti livelli. Investire sui giovani non è mai sbagliato, e ti ripaga in futuro. Il problema è che, in Italia, in pochi lo fanno veramente”.

0 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views