Claudio Onofri: “Ero in diretta con Franco Scoglio quando morì. Una scena che non dimenticherò mai”

Claudio Onofri parla come giocava: senza fronzoli, con quella sincerità ruvida e bella che appartiene a chi il calcio l’ha vissuto sulla pelle, non solo raccontato. La sua voce porta ancora l’eco di Marassi, del Filadelfia, dei campi di provincia dove si cresce davvero. Capitano del Genoa, osservatore, allenatore e volto televisivo: Onofri è rimasto soprattutto un uomo di campo, uno che ha attraversato il pallone in tutte le sue stagioni senza mai perdere identità né passione.
Nelle sue parole c’è sempre un frammento di vita: l’istinto che lo portò a scegliere Genova, le ginocchia che oggi fanno più rumore delle partite, la nostalgia di un calcio che non tornerà ma che continua a insegnare. E poi la memoria di incontri decisivi — come quello con Franco Scoglio — che segnano la carriera e, spesso, anche l’uomo.
Parlare con Onofri significa entrare in una storia lunga, vissuta e autentica. Un viaggio che parte dalle piazze dove si usavano gli alberi come porte e arriva fino alla Serie A, alla Nazionale sfiorata e ai talenti scovati prima degli altri.
Di cosa si occupa oggi Claudio Onofri?
"Sempre di calcio, inevitabilmente. Gioco ancora un paio di volte a settimana con amici che hanno avuto esperienze nel calcio, come Enrico Nicolini. Lavorativamente invece collaboro con Telenord, dopo aver chiuso il mio periodo a Sky. Seguo la Serie A, osservo giocatori, come ho sempre fatto anche da capo scouting per Milan e Genoa. È un lavoro che mi ha dato tante soddisfazioni: individuare un talento e poi vederlo sbocciare è sempre stato bellissimo".
Lei è stato capitano e simbolo del Genoa. Che legame ha con Genova e con la tifoseria rossoblù?
"Fortissimo. Arrivai al Genoa perché Gigi Simoni mi volle dopo avermi visto giocare bene con l’Avellino. Avevo anche offerte da Fiorentina e Bologna, ma scelsi Genova d’istinto. Mi piaceva la città e mi affascinava quel calore unico della piazza. Ho fatto più di 230 partite, tante da capitano. Oggi posso dire che Genova è diventata la mia città e il Genoa la mia squadra".

Come giudica la situazione attuale del Genoa?
"Complicata, sì. Anche se i tifosi sono sempre tantissimi e questo ti dà una spinta incredibile, serve personalità per reggere quella pressione. Con l’arrivo di De Rossi si può risalire, ma bisogna farlo in fretta: il campionato va avanti e rimandare troppo è rischioso. Io però non credo che la squadra meriti quella posizione in classifica. Qualcosa non ha funzionato, ma la qualità c’è".
Facciamo un passo indietro e torniamo al piccolo Onofri che muove i suoi primi passi nel Vanchiglia e il passaggio al Torino. Quali sono i suoi ricordi?
"Bellissimi. Sono nato a Roma ma mi sono trasferito a Torino da bambino. Giocavo in piazza finché un allenatore, Bruno Dalla Riva, mi vide e mi portò al Vanchiglia. Dopo un paio d’anni mi notò un osservatore del Torino e mi portò al Filadelfia: entrare lì era come varcare un museo vivente. Poi la gavetta in Serie C con Pro Vercelli e Montevarchi, fino a Chioggia con il Clodia Sottomarina. Da lì l’Avellino e infine il Genoa".

E quasi una convocazione per il Mondiale in Argentina…
"Sì, fui chiamato nella Nazionale sperimentale in vista del Mondiale ’78. Mi dissero che probabilmente sarei andato in Argentina, ma alla fine scelsero Manfredonia. Peccato, ma fu un’emozione enorme comunque: dal Montevarchi alla quasi nazionale, in due anni".
Lei ha allenato e lavorato accanto a un personaggio come Franco Scoglio. Che esperienza è stata?
"Un’esperienza unica. All’inizio non voleva me come vice, poi mi disse: “Diventerai il mio migliore amico”. Ed è stato così. Era un uomo difficile, ma geniale. Un allenatore rivoluzionario, come lo fu Sacchi qualche anno dopo. Mi ha insegnato tantissimo, sia dal punto di vista tecnico che umano. Quando morì, eravamo insieme in trasmissione: una scena che non dimenticherò mai".
Ha visto il calcio da tutte le prospettive: giocatore, allenatore, osservatore. Qual è il segreto per restare credibili in un mondo che cambia opinione da una partita all’altra?
"La coerenza. E la capacità di aggiornarsi senza perdere la propria identità. Quando iniziai ad allenare, andai a Parma a studiare Sacchi: il suo calcio era rivoluzionario, tutto basato sui movimenti e sull’organizzazione. Oggi il calcio è più veloce e fisico, ma resta fondamentale trasmettere emozioni. Il pubblico deve divertirsi, anche se vinci 2-0. In Inghilterra lo capirono prima di noi: non basta il risultato, serve lo spettacolo. Ecco perché, per restare credibili, bisogna unire idee e passione vera per questo gioco".