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Pippen contro Jordan, quel che non si è visto di una dinastia: “Abbiamo vinto nonostante lui”

L’autobiografia di Scottie Pippen, sei volte campione NBA con la canotta dei Chicago Bulls, promette di fare rumore a lungo per le tante dichiarazioni contro Michael Jordan.
A cura di Luca Mazzella
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Scottie Pippen è ancora un fiume in piena. Al nativo di Hamburg, Arkansas, non è letteralmente andato giù il modo in cui non solo lui ma tutti i suoi ex compagni nei gloriosi Chicago Bulls del sesto anello (stagione 1997-98), quelli raccontati in "The Last Dance" per intenderci, sono stati trattati da Michael Jordan, definito una sorta di protagonista-regista di tutta la serie. Il numero 33, insindacabilmente considerato il "miglior secondo violino" di sempre – titolo che lui stesso ha affermato di non amare particolarmente – ha raccolto gran parte della sua delusione nelle righe della sua autobiografia "Unguarded"edita da Rizzoli e appena uscita in Italia, la cui scintilla sembra essere nata proprio dopo la visione della docuserie in onda su Netflix e uscita lo scorso anno. Un prodotto che, a suo dire, non avrebbe fatto altro che gonfiare ulteriormente il mito di Michael Jordan raccontando una storia diversa dalla realtà di quegli anni, con il 23 sempre in copertina e il ruolo dei suoi compagni derubricato a quello di semplici comprimari da stimolare, provocare, affrontare e offendere se necessario sulla strada della vittoria.

Proprio la puntata che avrebbe dovuto avere il solo Scottie come protagonista, nei suoi continui riferimenti alla carriera di MJ, sembra aver rappresentato il punto di non ritorno che ha spinto l'Hall of Famer a raccontare la sua verità. Un intento che emerge sin dalle primissime pagine del libro – che sarà presentato il 25 gennaio in un evento online su Feltrinelli Live -, in cui viene dipinto con dovizia di particolari il carattere dispotico ed egocentrico di Jordan, descritto senza mezzi termini come "incredibilmente insensibile" nel fare riferimento a uno dei tanti episodi di campo richiamati in The Last Dance e riguardanti la terza stella di quell'iconico team, Dennis Rodman, reo di aver ricevuto un'espulsione mal digerita dalla squadra:

"Michael in un episodio ricorda quanto fosse arrabbiato con Dennis Rodman per essersi fatto espellere durante una partita della stagione ’97-98. Io mi stavo ancora riprendendo dall’intervento al piede. Michael incolpò Dennis di averlo “lasciato là fuori da solo”. Da solo? Questo la dice lunga su cosa pensasse degli altri giocatori in campo, o sbaglio?"

Una rabbia, quella espressa da Pippen, figlia anche della continua sovraesposizione del più famoso e rinomato compagno, la cui gloria sembra sostanzialmente inscalfibile da qualsiasi comportamento fuori dal campo o cattiva prestazione sul parquet avuta negli anni, come lui stesso evidenzia: "Potrei andare avanti all’infinito a elencare le offese, più o meno sottili, nei miei confronti e nei confronti dei miei compagni di squadra. A cosa servirebbe? Gli indici di ascolto hanno confermato che oggi l’America è innamorata di Michael Jordan tanto quanto lo era negli anni Ottanta e Novanta. Sarà sempre così, e ormai mi sono messo il cuore in pace".

La reazione a The Last Dance

Le settimane immediatamente successive alla messa in onda dei 10 episodi della serie hanno messo a dura prova la pazienza di Pippen, che per evitare incidenti diplomatici ha preferito in un primo momento addirittura evitare le sue apparizioni televisive, proprio per non incorrere nelle continue domande dei giornalisti che in qualche modo avrebbero cercato una dichiarazione a effetto per riaccendere discussioni e diatribe a distanza che non tutti pensavano potessero esistere tra due giocatori simbiotici nell'immaginario collettivo, dentro e fuori dal campo.

"L’unica cosa che potevo controllare era come avrei reagito pubblicamente a The Last Dance. Con il silenzio. Questo significava cancellare le mie partecipazioni a The Jump, il programma quotidiano di basket della ESPN condotto dalla mia amica Rachel Nichols, del quale ero stato ospite fisso negli ultimi anni. Se ci fossi andato, Rachel si sarebbe aspettata che commentassi ciò che l’America stava vedendo ogni domenica sera. E non accettai nessuna delle innumerevoli richieste dei media che mi piovevano addosso in quelle settimane".

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"Inorridito per come Michael trattava i compagni"

Un silenzio durato poco, tuttavia. La continua visione e riproposizione televisiva di una storia a detta di Pippen troppo poco rispettosa del roster di quei Bulls lo ha spinto alla fine a vuotare il sacco, non prima di aver interpellato i tanti compagni ugualmente bistrattati dal racconto che emerge in The Last Dance:

"Non ho taciuto del tutto, però. Non potevo. Ero troppo arrabbiato. Mentre gli episodi si susseguivano, contattai alcuni ex compagni di squadra come Ron Harper, Randy Brown, B. J. Armstrong e Steve Kerr. Il legame tra di noi è ancora stretto come ai tempi in cui giocavamo insieme. Nel documentario, Michael cerca di giustificare le occasioni in cui riprendeva un compagno di squadra di fronte al gruppo. Sentiva che i ragazzi avevano bisogno di sviluppare la durezza necessaria per battere le squadre fisicamente più potenti dell’NBA. Rivedendo come Michael trattava male i suoi compagni di squadra sono inorridito, come inorridivo allora".

Proprio il trattamento che MJ ha riservato negli anni ai suoi compagni di avventura sembra essere un nervo scoperto di Pippen, soprattutto nel modo in cui l'atteggiamento spesso ostile e violento di Jordan sia poi stato raccontato in una chiave del tutto diversa, come un male necessario per stimolare il suo contorno e aiutarlo a sviluppare quella durezza mentale e fisica necessaria per ottenere poi i successi. Successi nei quali però il numero 33 non vede un contributo costruttivo del compagno, ma una sorta di ostacolo nonostante il quale la squadra sia riuscita comunque a vincere:

"Michael si sbagliava. Non abbiamo vinto sei titoli perché lui stava addosso ai suoi compagni. Li abbiamo vinti malgrado lo facesse. Li abbiamo vinti perché giocavamo un basket di squadra, cosa che non era mai successa nelle mie prime due stagioni, quando l’allenatore era Doug Collins. Ecco cosa c’era di speciale nel giocare per i Bulls: il cameratismo che si era instaurato tra di noi, non il fatto che ci sentissimo fortunati a essere nella stessa squadra con l’immortale Michael Jordan".

"Sempre stato un compagno di squadra migliore"

Anche l'essere dipinto solo nelle vesti di star capricciosa e desiderosa di un trattamento economico migliore (nel rapporto tra contratto e rendimento Pippen è stato probabilmente uno dei giocatori che ha raccolto meno a fronte della sua grandezza in campo), al punto da arrivare ad una sorta di addio annunciato ai tifosi nella prima partita casalinga della stagione 1997-98, è qualcosa che Pippen non ha assolutamente superato, rivendicando oggi il suo status all'interno di quel gruppo e il suo rapporto sempre schietto e costruttivo con i compagni di squadra:

"Ero un compagno di squadra migliore di Michael. Chiedete a chiunque abbia giocato con noi due. Ero sempre pronto a dare una pacca sulla spalla o a dire una parola di incoraggiamento a un compagno, specialmente dopo che Michael, per un motivo o per un altro, lo aveva attaccato. Aiutavo gli altri a credere in se stessi e a smettere di dubitare delle proprie capacità. Ogni giocatore dubita di se stesso a un certo punto. La chiave è come si affrontano i dubbi."

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Un rapporto complesso fuori dal campo

Immaginare storicamente i due vicini, sul parquet ma anche nelle relazioni extra-campo, è evidentemente un altro punto su cui Pippen evidentemente ci tiene a dare ulteriori precisazioni, rimarcando quanto diversi fossero i due sia per background che per modo di rapportarsi a ruolo e pressioni sportive. Quanto distanti siano in realtà i due è scritto a chiare lettere:

"Io e Michael non siamo vicini e non lo siamo mai stati. Ogni volta che lo chiamo o gli mando un messaggio, di solito mi risponde piuttosto in fretta, ma non gli scrivo mai solo per sapere come sta. E lo stesso fa lui. Molte persone potrebbero faticare a crederci, vista la sintonia che avevamo in campo. Fuori dal campo, siamo due persone molto diverse che hanno avuto due vite molto diverse. Io venivo dalla campagna: Hamburg, in Arkansas, circa tremila abitanti; lui veniva da una città: Wilmington, in North Carolina. Finite le superiori, non mi aveva reclutato nessuno. Michael lo volevano tutti. Una volta conclusa la stagione, che si festeggiasse con lo champagne o meno, noi due non ci sentivamo praticamente mai fino al ritiro di ottobre. Michael aveva la sua cerchia di amici e io la mia. Non era colpa di nessuno. Non si può forzare la confidenza tra due persone. O c’è o non c’è. Tuttavia, con il passare degli anni, abbiamo cominciato ad apprezzarci l’un l’altro sempre di più, soprattutto dopo che ci siamo ritirati".

Troppo diversi anche nella formazione i due, con Pippen figlio della dura gavetta anche per una situazione familiare questa sì ben descritta nella serie, e Michael Jordan da subito destinato alla grandezza sin dall'Università e dal tiro decisivo nella finale NCAA segnato con North Carolina.

Mai più Robin

Guai a definirlo ancora spalla o secondo violino di Michael Jordan, però. Questo emerge in maniera chiarissima dalle righe di Unguarded, dove Pippen prende certamente atto di una incompatibilità figlia di due caratteri troppo ingombranti per convivere in armonia nel loro ruolo ormai acquisito di star e gregario di lusso:

"Forse il mondo del basket era troppo piccolo per accomodare i nostri due ego sproporzionati: Michael mi vedeva come la sua “spalla” (odiavo essere definito così, proprio  come non sopportavo quando si riferivano a noi due come Batman e Robin) e per lui ero semplicemente qualcuno da portarsi dietro per affrontare ogni partita e ogni allenamento con la massima intensità. Io, invece, mi vedevo come un purista, devoto al gioco di squadra, e mi sentivo offeso quando lui cercava di vincere le partite da solo"

Insomma, quello che emerge è che rispetto alla gloria che il documentario sui Chicago Bulls del 1997-98 avrebbe dovuto dare all'intero roster campione NBA, The Last Dance sia diventata un'agiografia dedicata ad un solo giocatore. O che almeno sia questa la percezione avvertita tra gli stessi attori non protagonisti, Pippen in primis. Forte di alcuni inequivocabili numeri (il record di MJ ai Playoffs, prima di Scottie, era di 1 vittoria e 9 sconfitte, e la svolta è arrivata proprio dopo la selezione al draft del 33) e di un ruolo che a dire il vero lo stesso Jordan ha sempre riconosciuto ("Non avrei vinto senza Pippen. Ecco perché lo considero il mio miglior compagno di sempre"), Scottie è definitivamente passato al contrattacco. E promette di smontare colpo su colpo una narrativa che l'ha tenuto per troppo tempo alle spalle del più amato ex compagno di squadra.

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