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Nel 2020 l’NBA ha dimostrato come lo sport può essere molto più che semplice sport

Mai come quest’anno si è visto e sentito l’impatto sul mondo politico dello sport americano, NBA in testa. Dalla minaccia di boicottaggio alle iniziative per far votare il maggio numero di persone possibili, la National Basketball Association è diventata più forte che mai nella campagna contro la rielezione di un Donald Trump, che a distanza di qualche mese poi avrebbe salutato la Casa Bianca. Un cammino lungo e difficile, che ha fatto capire ancora di più quanto sia stretta la correlazione tra la vita politica e sociale e lo sport.
A cura di Vito Lamorte
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C’è stato un gruppo di uomini che quest’anno, più che in altre occasioni, ha fatto sentire in maniera potente la sua voce. Lo ha fatto inizialmente poggiando un ginocchio a terra e portando in cielo un pugno sule note dell’inno americano per protestare contro la morte di George Floyd per mano della polizia e poi ha stoppato la fase dei PlayOff della lega di basket più famosa del mondo per il caso Justin Blake: un dolore che arriva da lontano e che è esploso nel corso del 2020, anno di elezioni presidenziali. La NBA è la lega di pallacanestro più importante del mondo ed è composta per l'83% da giocatori afroamericani, secondo l'ultimo rapporto dell'Institute for Diversity and Ethics in Sports: la maggioranza di loro ha visto in Donald Trump sempre un nemico, un razzista e un misogino che con il suo linguaggio ha dato forza alla parte più cattiva del paese nei confronti delle minoranze. Ma non solo i giocatori di colore. “Mi ribolle il sangue nelle vene e non perché i Repubblicani hanno vinto le elezioni. Ma a causa dei disgustosi commenti xenofobi, omofobi, razzisti e misogini. Vivo in un paese in cui metà della popolazione ha ignorato questi fatti quando ha votato per Trump. Questo è ciò che mi spaventa di più”: queste parole sono di Gregg Popovich, allenatore dei San Antonio Spurs, una delle voci più critiche contro Trump negli ultimi quattro anni e non certamente uno dei rappresentanti della comunità afro nel basket e negli States.

Si è partiti da piccole scaramucce e poi si è arrivati al boicottaggio degli hotel del presidente fino all’immagine di Colin Kapernick, quarterback dei San Francisco 49ers, che ha portato il suo ginocchio destro a terra nel settembre 2016 mentre suonava l'inno nazionale: l’iniziò della sua denuncia, successivamente presa come riferimento da altri sportivi, ha portato ad una reazione forte di Trump, che li ha definiti alcuni "figli di puttana". Uno scontro senza esclusione di colpi che è definitivamente esplodo dopo il 26 maggio 2020, quando il grido disperato e doloroso di George Floyd prima di morire "I Cant’Breathe" ha scosso gli Stati Uniti e il mondo intero. Un afroamericano era morto per la violenza di un agente di polizia di Minneapolis e questo evento tragico portò in strada milioni di persone nonostante la pandemia. Tantissimi atleti delle franchigie americane misero la faccia per questa battaglia e decisero che questo era il loro momento di scendere in campo in prima persona.

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Il primo fu Lebron James, che da gennaio 2020 si è immerso concretamente nella politica con ‘More Than a Vote', un'estensione di More Than a Athlete; e che inizialmente intendeva solo produrre contenuti intorno le elezioni ma l’omicidio di Floyd aveva cambiato la missione originale ed era diventata una vera e propria crociata contro Trump e contro le discriminazioni razziali negli USA. Il ritorno in campo nella bolla di Miami dopo lo stop per il Covid-19 ha aperto un’altra grande finestra di dibattito sulla giustizia sociale, perché i giocatori temevano di essere messi a tacere nel loro isolamento in Florida. Niente di più sbagliato: le immagini di giocatori, con poche eccezioni, con il ginocchio a terra durante ‘The Star-Spangled Banner' hanno fatto il giro del mondo e le magliette “I Cant’Breathe“ indossate durante il riscaldamento sono diventate un simbolo. In tanti hanno parlato di manifestazione contro il razzismo sistemico negli Stati Uniti e non come un'azione di protesta diretta contro l'occupante della Casa Bianca ma per gli atleti non era importante il destinatario perché volevano dare risalto al messaggio: mentre Donald Trump strizzava l’occhio all’estrema destra sempre più ringalluzzita nel paese, loro erano impegnati a far sentire la loro voce al mondo e denunciare quello che le minoranze avevano sempre dovuto sopportare.

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Altro momento di svolta. Il 26 agosto a Kenosha, nel Wisconsin, Jacob Blake venne colpito da 7 proiettili sparati da agenti di polizia mentre si stava dirigendo verso il suo veicolo: l’aggressione venne ripresa e trasmessa in tv suscitando una reazione molto forte e in alcuni casi anche violenta. Nella "bolla" di Disneyworld i giocatori e le squadre decisero di fermare lo svolgimento dei play-off e un comunicato congiunto della Nba e del sindacato dei giocatori National Basketball Players Association (Nbpa) ufficializzò il rinvio alcune gare in tabellone. Naturalmente questa scelta non venne ben accolta dall’allora presidente Donald Trump: "L'Nba è diventata come un'organizzazione politica. La Guardia nazionale sta facendo un buon lavoro a Kenosha”.  Le due parti erano sempre più lontane e, oltre a Lebron (“Fanculo le partite e i play-off. Questo è un vero problema. Questo è il motivo per cui non siamo sicuri”), questa volta prendono posizione anche altri: tra questi c’è Chris Paul, che disse di voler “mandare le preghiere a Jacob Blake ed alla sua famiglia. Nonostante abbiamo deciso di venire qui a giocare e stiamo facendo una campagna contro l’odio razziale e l’ingiustizia sociale, questo genere di cose continuano ancora ad imperversare. Non va bene per niente. Non è giusto”. Anche Marco Belinelli, in un’intervista al Corriere della Sera, si schierò a favore del movimento Black Lives Matters: “Tacere non si può, ci sono cose più importanti di una partita di basket”.

Una telefonata di Barack Obama con Lebron James e Chris Paul ha evitato la bolla NBA esplodesse ma l’intervento dell’ex presidente degli Stati Uniti ha portato i giocatori a chiedere un impegno alla Lega più forte contro quello che stava accadendo: inserire più annunci che incoraggiassero al voto durante le gare dei play-off e aprire i palazzetti per dare la possibilità di poter votare a più cittadini possibili. In tantissime città si è passati da piccoli spazi a compound enormi e i volontari dell’associazione di LeBron James hanno aiutato anche gli elettori con precedenti penali a registrarsi negli elenchi, molti dei quali afro-americani e messi da parte dal sistema.

Gli impianti sportivi delle franchigie hanno svolto un ruolo importante nelle elezioni e secondo quanto ha affermato Dean Logan, impiegato della contea di Los Angeles, “non solo come seggio elettorale ma come partner della comunità nell'impegno civico e per il diritto di voto”. È stata una lotta senza sosta, che alla fine ha visto Trump perdere le elezioni e l’intera NBA esultare per la vittoria di Joe Biden: il fatto che i giocatori siano ormai delle media company e che grazie ai social hanno un pubblico a cui possono parlare direttamente è stato un altro elemento importante in questo scontro. Rispetto agli anni scorsi, gli atleti hanno parlato direttamente con chi li segue e questo ha dato la possibilità a tanti giocatori di prendere posizione e comunicare in ogni momenti con i propri fan e con gli appassionati di basket in generale, che sono stati tirati dentro questa battaglia. Mai come quest’anno sulle elezioni della democrazia più influente del mondo hanno inciso le battaglie da parte dei giocatori della NBA, che ci hanno messo la faccia e hanno fatto capire ancora di più, se ve ne fosse bisogno, quanto sia stretta la correlazione tra la vita politica e sociale e lo sport.

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