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L’ultimo sogno di Gregg Popovich, l’allenatore NBA più vincente di sempre

Oggi Gregg Popovich compie 72 anni e siede sulla panchina dei suoi San Antonio Spurs con cui ha vinto cinque titoli, vinto il maggior numero di partite per un allenatore nella storia dell’NBA e cambiato più volte il basket, essendo sempre un passo avanti agli altri. Dal 2018 è coach di Team USA e sogna di chiudere alla grande la sua carriera, con l’oro olimpico di Tokyo.
A cura di Jvan Sica
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Tanti stanno mettendo in discussione il presente di Gregg Popovich, che oggi compie 72 anni. A quell’età è un diritto acquisito essere anziani, ma è un attimo che diventi vecchio, arrugginito, stantio. E tanti stanno appunto bollando in questo modo il coach che ha vinto più partite di tutti tra gli allenatori nella storia della lega di basket più importante al mondo. Questo dato non è né una decorazione, né un traguardo del passato, Popovich sta ancora una volta mettendo le basi per gli Spurs (e in qualche modo per l’NBA) del futuro.

Iniziamo col capire quante volte lo ha già fatto. Quando nel 1997 sceglie Tim Duncan al draft per i suoi San Antonio Spurs si pensa che abbia scelto un lungo troppo docile nella NBA di fine anni ’90, in cui ci sono dei carrarmati a protezione del ferro il cui scopo è menare le mani sul corpo degli attaccanti e solo in un secondo momento capire dove sta il pallone. Con Duncan però Popovich inventa un lungo del tutto nuovo, agile ma soprattutto tecnico, rendendo in questo modo inutile il forte apache che gli avversari preparano sotto canestro. Grazie a Duncan e Robinson vince nel 1999 il suo primo titolo, dicendo fin da subito qualcosa di nuovo.

All’inizio degli anni 2000 capisce prima degli altri, sempre prima degli altri, che serve ancora maggiore dinamicità alle squadre e la va a prendere in Francia, dove c’è un ragazzino a cui non daresti un franco in NBA, Tony Parker. Nel documentario uscito da poco su Netflix, in cui si racconta la carriera del play francese, si capisce subito quello che Popovich vuole da Parker. Da una parte non deve perdere la naturalezza e le idee di basket che ha imparato lontano dall’America, ma dall’altra deve temprarsi per un gioco e per un contesto fisico diverso da quello europeo. Con lui Popovich capisce come alcune idee europee non sono solo dei corollari interessanti da riadattare al gioco americano, ma devono restare così come sono per poter sovvertire concetti ormai dati per scontati nel basket USA.

Ci riesce con Parker e poi fa la stessa cosa con Manu Ginobili, preso nel 2002, in cui ancora di più e meglio si mischia Sud America, Europa e poi USA. Con loro e il sempiterno Duncan vince il titolo nel 2003, nel 2005 e nel 2007, stabilendo una gerarchia che si fonda anche su un altro concetto a cui poi tanti si ispireranno, ovvero quello dei Big Three, tre campioni assoluti che sappiano coesistere, dividersi pallone e minuti, così da lasciare agli altri della squadra compiti iperspecifici che vanno a coprire loro eventuali buchi. Seguito dai colleghi nell’idea di avere lunghi come Duncan, poi ancora una volta nella scelta di giocatori non americani da innestare nelle squadre, anche la scelta dei Big three è tanto spesso seguita con risultati anche buoni.

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E quindi Popovich, all’epoca già indicabile come anziano, si ferma qui? Tra il 2011 e 2012 prende tra gli altri Kawhi Leonard, Boris Diaw, Danny Green e inventa di nuovo, lasciando il progetto Big Three agli altri e andando verso un gioco in cui c’è maggiore redistribuzione delle responsabilità, dei tiri e dei minuti. Nasce il Beautiful Game che porta a una sconfitta in finale nel 2013 contro Miami per un tiro senza senso di Ray Allen e alla vittoria schiacciante dell’anno successivo contro la stessa avversaria.

Dall’anno successivo un suo prediletto da giocatore, Steve Kerr, rielabora il suo gioco e quello di Mike D’Antoni ai Suns e grazie a giocatori come Curry, Thompson e Green crea un nuovo modello e una nuova dinastia con i Golden State Warriors. Dopo quasi un ventennio sempre all’avanguardia, Popovich guarda al basket nuovo di Kerr e prima scuote la testa, affermando apertamente che quello è un basket di una noia mostruosa, ma poi cerca una sua strada come ha sempre fatto.

I risultati non sono stati eccezionali anche perché, con l’addio di Duncan, Ginobili, Parker e la fuga di Leonard, campioni di grosso calibro non sono più arrivati, ma il bel gioco e gli effetti sul basket contemporaneo continuano ancora a vedersi.

Ma forse l’ultimo vero traguardo di Pop non riguarda i San Antonio Spurs. Dal 2018 è coach della nazionale USA. Un suo sogno fin da quando era un giovanissimo allenatore dell’Air Force Academy. Il sogno vero però non è solo allenare Team USA, quanto vincere l’oro olimpico a Tokyo. Siamo sicuri che per Pop quello sarà un torneo in cui darà davvero tutto e quasi certi che convincerà i grandissimi giocatori a seguirlo in questa avventura. Accadrà perché tutti sanno chi è Pop e quanto ha dato al loro sport. Magari sarà la sua ultima recita, ma con tutti gli occhi del mondo ad ammirarlo ancora una volta.

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