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Due anni dopo il Mamba è sempre con noi. Kobe idolo ed eroe, sarà sempre irraggiungibile per tutti

Il 26 gennaio non è una data come le altre. Quel giorno sarà sempre dedicato ai ricordi del mito Kobe Bryant, che è sempre vivo.
A cura di Luca Mazzella
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Parlare di Kobe Bryant senza scadere nella retorica dei soliti aneddoti, del culto maniacale del lavoro che ha coniato il sempre più inflazionato termine "Mamba Mentality" e del buono ad ogni costo, non è mai semplice. Non lo era nemmeno quando Kobe, prima del 26 gennaio di 2 anni fa, era ancora tra noi, figuriamoci quanto arduo sia misurarsi con la sua perdita in una giornata come quella odierna. La premessa serve in un certo senso a mettere quasi le mani avanti, consapevoli che in un modo o nell'altro la narrazione più totale di un atleta del genere passa anche per tante delle sue storie più note. Un personaggio a cui è sempre stato difficile approcciare nel modo giusto, vincente a modo suo e secondo i suoi altissimi ed esigentissimi standard, eroe oltre ogni problema fisico, esigente con il suo contorno fino a diventare tossico, nel vero senso della parola, nel rapporto coi compagni non allineati alla sua etica lavorativa.

Kobe protagonista, ma anche Kobe antagonista, villain, cinico, spietato, ossessionato dal confronto con Michael Jordan, bramoso di scavare in qualche modo un solco tra lui e tutti gli atleti della sua generazione, elevandosi a unico vero erede tecnico e emozionale del più grande di tutti. Il ricordo che oggi, in uno slancio d'amore e di dolore che coinvolge il mondo intero nessuno escluso, ognuno di noi porta dentro quando pensa a Kobe Bryant, abbraccia tutte le possibili sfumature del rapporto con lo sport e in questo caso della pallacanestro, dall'idolatria pura per il più grande idolo, all'odio rabbioso verso il nemico di sempre, al timore assoluto provato per due decenni di basket giocato nei confronti della leggenda.

Un odi et amo che ha un solo possibile sbocco quando si tratta di giocatori così divisivi come divisivo è qualsiasi altro degno esponente del basket accostato ad MJ: il rispetto. Quello che il Mamba si è guadagnato da amici e nemici (sportivamente parlando) vivendo come missione la sua intera carriera, pretendendo il meglio da se stesso, combattendo fino all'ultimo secondo in campo con acciacchi fisici, infortuni seri e meno seri, un corpo a cui a un certo punto anche Father Time, come amano chiamarlo in America, ha presentato il conto.

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Il campione Kobe è il motivo per cui oggi milioni e milioni di persone sono innamorate del basket NBA, quello per cui in tanti hanno fatto ore piccole attendendo con ansia una sua partita in diretta, il giocatore di cui una generazione intera ha avuto il poster in camera, la canotta, il polsino. É stato il più grande avversario di se stesso, nella ricerca eterna di un limite da superare, un'asticella da collocare più in alto, un record da scrivere. Gli 81 punti, il filotto di gare sopra i 40, lo scricchiolio di quelli che erano numeri mai umanamente stati vicini per nessun atleta ma quasi alla sua portata, quelli di Wilt Chamberlain. Nel superare ogni sua precedente e già immensa versione, Kobe è diventato l'eroe di tutti gli amanti del Gioco.

Colui che rendeva possibile tutto, con la volontà e con il lavoro. E quando il tuo idolo può tutto, con il tuo eroe al fianco, ti senti quasi invincibile per osmosi anche tu ed è in questa identificazione con l'inarrivabile idolo che vive la parte più forte del legale tra Kobe e tutti noi. L'unico reale limite di quell'eroe, dettato dal logorio di muscoli e articolazioni, ha dovuto attendere anni e anni prima di avere la meglio su di lui, ossessionato dal culto della vittoria fino a consumarsi, nel vero senso della parola, impacchettato di ghiaccio in panchina tra un riposo e l'altro anche nella più anonima delle partite di stagione regolare. In lunetta con il tendine d'Achille rotto, in campo con la cuffia dei rotatori strappata tirando con la mano debole, ad allenarsi con un braccio ingessato.

La Mamba Mentality a cui si faceva riferimento a inizio pezzo, e la ricerca smodata dell'impresa pur di uscire da eroe su ogni ring, è stata la sua più grande forza, il suo più marcato tratto distintivo, e il modo in cui tanti, troppi atleti hanno provato a vivere le rispettive carriere senza la medesima tenacia e il medesimo agonismo, risultandone un copia sbiadita. Perché di fare l'eroe, come Kobe, era capace davvero solo lui. Irraggiungibile per tutti, su quel campo. Oggi sono 2 anni, ma ogni 26 gennaio sarà sempre peggio: meno Kobe vedremo sui campi, più ci mancherà il solo e inimitabile Mamba.

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