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Clemente Russo: “Ho avuto un rigetto dalla boxe. Don King mi stimava, dissi no all’UFC perché senza etica”

Clemente Russo si racconta a Fanpage.it in una lunga intervista: dal rifiuto per la boxe, subito dopo il ritiro, al presente tra la passione per i cavalli e i sogni da allenatore. Gli aneddoti sull’occasione sfumata per Don King e il no all’UFC.
A cura di Alessio Pediglieri
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Clemente Russo si è ritirato dal pugilato da poco più di due anni ma il mondo della boxe non l'ha mai abbandonato, nonostante una fase di rigetto durata circa un anno appena dopo il ritiro. Oggi, in un'altra veste, si impegna quotidianamente a coltivare nuovi talenti e a rinverdire una tradizione di altissimi livelli: "In Italia abbiamo tutto, atleti, manager, strutture. Manca solo il coraggio di investire e dobbiamo farlo, altrimenti i nostri campioni scappano all'estero".

Un monito che Russo ha voluto ribadire nell'intervista a Fanpage.it, dove si è soffermato attentamente sull'attuale panorama del pugilato italiano: "A Parigi ci divertiremo, abbiamo diversi atleti in profumo di una medaglia olimpica". Quella che gli venne negata nel 2020, quando gli impedirono di partecipare a Tokyo con una wild card: "Il momento più difficile… quattro anni di sofferenze e sacrifici, gli ultimi quattro anni della mia carriera svaniti in un attimo". Amarezza lenita da un palmares enorme e dalla consapevolezza di aver fatto tantissimo per la boxe: "Nessun rammarico, rifarei tutto in modo uguale altre mille volte. Anzi, cercherei di cambiare solo una cosa: fare tutto ancora meglio". 

Clemente Russo e stato campione del mondo dei dilettanti categoria pesi massimi a Chicago 2007 e ad Almaty 2013 e vicecampione olimpico a Pechino 2008 e a Londra 2012. Dal 2021 è direttore tecnico del Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre appartenente al Corpo di polizia penitenziaria: "Lavorare con i ragazzi mi dà la voglia di risalire sul ring e riuscire a trasmettere qualcosa a loro è qualcosa di impagabile". Con un sogno nel cassetto: "Tornare a vincere, magari alle Olimpiadi, allenando una delle mie figlie".

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Cosa fa oggi Clemente Russo?
Praticamente tutto e di più perché la cosiddetta depressione post gara io non l'ho mai subita, perché avevo già una serie di situazioni cui desideravo iniziare a dedicarmi il prima possibile. Le avevo preordinate ancor prima del ritiro, poi erano rimaste in sospeso per troppo tempo e ora le sto svolgendo senza rimpianti.

Una carriera lunghissima, alla soglia dei 40 anni: come hai gestito la fase dell'addio alle competizioni?
Gli ultimi quattro, quattro anni e mezzo sono stati durissimi, ho raschiato il fondo del barile. Poi è arrivato il colpo di grazia con la mancata qualificazione a Tokyo 2020 e quindi ho deciso di fare il grande passo. Ma non ho subito il contraccolpo: molti non sanno cosa fare, restano in difficoltà. Io devo ringraziare la mia famiglia e la terra da cui arrivo che mi ha sempre insegnato a guardare oltre, a pensare al futuro al di là delle varie fasi della vita.

La tua vita è cambiata, cosa occupa oggi le tue giornate?
Sono due le grandi passioni in cui oggi mi divido: il fitness e il mondo dei cavalli. Nel primo caso giro l'Italia in collaborazione con McFIT per il progetto "Train Like a Champions" regalando l'esperienza a tutti di allenarsi insieme ad un campione. Poi, la mia passione per i cavalli mi ha spinto a collaborare con EquTV dove mi occupo di monta western che si sviluppa in diverse discipline sportive. È fondamentalmente la monta che facevano i cowboy per lavorare il bestiame e che si è sviluppata in un vero e proprio sport.

Dal pugilato ai cavalli, ma da dove nasce questa passione?
Io sono sempre stato appassionato di cavalli, posseggo anche dei cavalli e in passato ho praticato questo tipo di monta. Tutto ciò mi ha portato alla collaborazione televisiva dove conduco e intervisto i campioni di questa particolare monta forse poco conosciuta ai più ma dal fascino straordinario.

Dunque, basta col pugilato?
No, assolutamente il pugilato fa parte della mia giornata perché resta sempre e comunque il mio vero mestiere. Sono direttore tecnico delle Fiamme Azzurre, ovvero il Gruppo di Polizia Penitenziaria e in un anno ho già vinto con i miei ragazzi cinque titoli italiani e ho tre atleti che fra due mesi si giocheranno la qualificazione olimpica per Parigi 2024.

Ma ti manca il ring, l'adrenalina dell'incontro?
La verità è che appena ho smesso avevo una sorta di rifiuto; avendo praticato boxe per 27 anni appena vedevo un paio di guantoni mi giravo dall'altra parte. Avevo una forma di rigetto, di nausea. Ho continuato ad allenarmi facendo fitness perché ritengo che gli atleti debbano sempre dare un esempio alle persone e il tenersi in forma è essenziale e quasi un dovere da parte nostra. Poi, dopo un anno lontano dal pugilato rientrando nell'ambiente con l'allenare i ragazzi mi è tornata quella voglia di salire sul ring. A quel punto mi rimetto i guantoni e mi diverto con loro.

Guardandoti dietro, il momento più difficile che hai vissuto in carriera?
Sicuramente quando mi è venuto il Covid. Noi eravamo in quel periodo a Londra a combattere per guadagnarci l'accesso alle Olimpiadi di Tokyo: mi è venuta una febbre stranissima che mi ha costretto a letto per una decina di giorni e non mi ha permesso di qualificarmi. Avevo richiesto una wild card che credo di meritarmi ma l'hanno rifiutata. Sarebbe stato epico: la mia quinta Olimpiade, un guinness che nessun altro atleta ha mai raggiunto. Un colpo bassissimo, ho visto i quattro anni della mia vita e della mia carriera più duri, sfumare in un attimo. Così, malamente.

E il momento più bello?
Tutte le vittorie sono belle. Ogni volta che sali sul podio è una emozione unica, ma se devo scegliere ovviamente punto al mio primo Mondiale, oramai lontanissimo nel 2007 con l'oro nei massimi a Chicago (contro Rachim Čakchiev, pugile russo poi medaglia d'oro a Pechino 2008, ndr)

Qualche rimpianto o rammarico?
No, tutto ciò che ho fatto lo rifarei uguale e mille volte. Anzi, potessi rifarlo cercherei semplicemente di farlo meglio.

Tutto questo da dilettante, come mai non hai provato a passare al professionismo?
Io in realtà ci ho provato, sia in America sia in Italia. Tutto poi non si è realizzato anche se sono stato vicinissimo ad approdare all'UFC, nelle MMA ma alla fine sono stato io a rifiutare.

Clemente Russo con Don King
Clemente Russo con Don King

Iniziamo col professionismo: cosa accadde con Don King?
Con Don King c'è stato un confronto diretto. Sono andato io in America a incontrarlo dopo le sue dimostrazioni di stima (lo soprannominò "The white hope", "La speranza bianca", ndr). Per passare nella sua scuderia e andare in America a combattere avevo chiesto però precise garanzie, che però lui in quel periodo non era in grado di darmi. Io avevo la mia massima dimensione sportiva in Italia e trasferendomi Oltreoceano non sapevo cosa andavo ad incontrare, così non si concluse alcunché.

E in Italia cosa accadde?
Ero entrato in contatto con un manager che mi aveva proposto un accordo: era pronto tutto, c'eravamo stretti anche la mano ma dopo due mesi è letteralmente sparito… Non farò il nome perché è ancora in attività, ma non fu piacevole.

E quindi la terza proposta: l'UFC. Come finì?
Ci ho pensato seriamente, perché la loro proposta era davvero interessante sotto ogni punto di vista. È stato difficilissimo dire di no ma ho ripensato alla mia carriera, al mio percorso e ho deciso di rifiutare: ho sempre combattuto nello sport olimpico e lì di olimpico c'è poco e nulla, così come manca l'etica, un ambiente in cui non mi sarei per nulla ritrovato.

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Ma la boxe italiana, oggi, in che stato è?
In netta crescita. Dopo la nostra epoca, mia e di Cammarelle in particolare c'è stato un calo ma adesso è in pieno fermento perché dietro di noi avevamo una squadra molto giovane che ha iniziato a crescere e adesso possiamo fare bene.

Perché il pugilato stenta allora ad emergere definitivamente in Italia?
Praticamente nulla perché abbiamo tutto: abbiamo gli organizzatori, abbiamo i campioni, abbiamo una fortissima tradizione. Abbiamo anche atleti bravi, belli e intelligenti, in una parola "giusti": parlo di Abbes, di Cavallaro, di Irma Testa. Un aspetto da non sottovalutare perché bisogna saper anche comunicare ed entrare nelle case della gente. Ma alla fine manca la cosa più importante.

Cioè?
Gli sponsor, chi mette i soldi. Bisogna invogliare gli investitori, organizzando solo manifestazioni di livello alto senza compromessi.

Sulla falsa riga del match di luglio tra Paul e Tyson?
Ecco, esatto anche se con alcune differenze sostanziali. Quella è più una semplice esibizione, una esclusiva strategia di marketing. Comunque, in Italia si può già investire sui due-tre campioni perché diventino gli idoli dei giovani, dei ragazzi e delle famiglie. E per questo Parigi è fondamentale: se arrivano le medaglie potrebbe accadere ciò che avvenne per me. So quello che dico perché quando su di me ci fu l'enorme impegno da parte di Dolce & Gabbana (con la "Dolce & Gabbana Italia Thunder, squadra di pugilato che ha preso parte al campionato mondiale delle World Series of Boxing, ndr).

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Tu divenni un vero e proprio personaggio pubblico, un periodo irripetibile?
È vero, io divenni un personaggio pubblico, mi fermavano per strada, all'autogrill, dopo i combattimenti ci chiamavano per sapere com'era andata. Insomma, c'era un'attenzione mediatica come fosse stata quasi una partita di calcio. Ma si può ripetere, bisogna coinvolgere di nuovo gli sponsor perché alla fine la boxe è uno sport che piace a tutti, coinvolge, ha un appeal enorme. Un esempio? Al cinema il 90% dei migliori e i più famosi film di sport entrati nell'immaginario collettivo, trattano di pugilato perché raccontano storie bellissime.

Già a Parigi?
A Parigi vi assicuro che ne vedremo delle belle, anche perché è l'appuntamento clou per qualsiasi atleta: un coronamento di un lavoro di 4 anni che ti giochi in pochi minuti. Ma abbiamo tanti campioni papabili medagliati. Tra questi c'è anche Abbes (Mouhiidine, vice campione mondiale nei pesi massimi) un mio erede per quello che ha già vinto, anche se è alla ricerca di una medaglia olimpica, e poi abbiamo anche uno stile simile. Siamo molto amici e ci sentiamo spesso. Se lui, Cavallaro o Irma Testa portano a casa una medaglia, vedrai il clamore mediatico che si scatenerà attorno alla boxe. Ma con un grandissimo rischio.

Quale?
Lo stesso pugilato dovrà farsi trovare preparato: se tornano da Parigi atleti con le medaglie al collo la boxe dovrà essere in grado di sfruttarli. Se loro vincono e noi ci ritroviamo senza alcun manager in grado di gestire la situazione, incapace di far loro un contratto serio, di mantenerlo a livello professionistico e far sì che continui a combattere in Italia, sai qual è la fine? Ve la dico io: se ne vanno dall'Italia, si trasferiscono all'estero e vanno via e non li vediamo più.

Com'è accaduto al nostro Guido Vianello, scomparso dal radar della boxe italiana…
Esattamente: abbiamo già un precedente purtroppo in questo senso con Guido (campione dei supermassimi, pugile professionista sotto la "Top Rank Boxing" del promoter americano Bob Arum, ndr) che non è più un beniamino del pubblico italiano perché vive, si allena e combatte in America. Allora, visto che abbiamo il meglio tra atleti,  manager, organizzatori, TV, perché non evitiamo che i nostri campioni scappino all'estero? Non facciamoci rubare i nostri atleti, troviamo i fondi necessari per crescerli qui da noi, per il bene della boxe.

Il sogno di Clemente Russo ancora da realizzare?
Chiaramente il sogno è uno: come ho vinto da atleta mi piacerebbe vincere da allenatore e realizzarlo nel modo migliore, trasmettendo ai ragazzi tutta la mia esperienza. Visto che poi io ho sempre vissuto in funzione del sognare nel modo più grande possibile, ce n'è uno che sarebbe il massimo da realizzare: sul ring e vincere con una delle mie tre figlie.

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