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Wanna Marchi su Netflix, la recensione: lo spaghetti western sulla Wolf of Sòla Street

La recensione di Wanna su Netflix: non aspettatevi pentimenti né santini, Wanna Marchi e Stefania Nobile si sentono ancora regine. Del nulla. Come sono sempre state. Nella speranza che lo spaghetti western del true crime all’italiana diventi presto un genere da esportare in tutto il mondo.
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A cura di Grazia Sambruna
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"Prima di tutto bisogna essere d'accordo con me" diceva una ruspante Wanna Marchi in tv davanti a uno scettico Maurizio Costanzo nei primi anni Novanta. La docu-serie Wanna, in arrivo su Netflix dal 21 settembre, mostra l'ascesa e la caduta della televenditrice più nota e famigerata d'Italia. Già nel 2018 erano nate roventi polemiche sulla partecipazione della regina decaduta del superfluo insieme alla figlia Stefania Nobile all'Isola dei Famosi. Polemiche tali per cui la produzione preferì lasciarle a casa.

Oggi incombono in streaming grazie a un documentario che non le esalta, né le mette al muro per i loro comprovati misfatti: si limita a lasciarle parlare, tra ego ipertrofoci, evidenti contraddizioni e frasi di una cattiveria purissima che sono già pronte a diventare cult sui social. Wanna ha iniziato (a vendere chincaglierie) in un piccolissimo garage, à-la Steve Jobs, di Ozzano. All'ombra di un marito negligente quando non violento. Poi le tv locali, il successo, il desiderio di far passare alla figlia Stefania una vita migliore, più agiata, della propria. L'epica che Marchi ci propone di se stessa sarà del tutto coerente a quanto realmente accaduto? Forse no. Ma non è questo il punto. Anche perché: "Bugiardi lo siamo tutti, signora mia, bisogna solo vedere come". E il Wanna Cinematic Universe è un concetto di cui sapevamo spaventosamente poco.

The Wolf of Sòla street: così viene da definire Wanna Marchi al termine della visione della docu-serie che la riguarda. Tanto che in una delle scene iniziali, le danno in mano una penna e provano a fargliela vendere, come da famosa scena del film di Scorsese. Ma Wanna dà il meglio (che equivale molto spesso al peggio) si sé quando va a briglia sciolta regalando massime urlate come "I coglioni meritano di essere inculati, casso!", ricorrendo al suo squisito francese d'oil con leggere influenze emiliane.

Tra i meriti della docu-serie c'è anche quello di essere riuscita ad andare a recuperare fino in Brasile il Mago Do Nascimiento che oggi, come sottopancia, esige ancora la scritta "Maestro di vita". In effetti, da cameriere scalzo, era diventato grazie all'eye of the tiger delle Marchi talent scout, il numerologo di riferimento per centinaia di migliaia di sciure che volevano vincere al Lotto o scacciare il malocchio. Specialmente quest'ultimo, niente più di un bisogno indotto dalle stesse televenditrici. Ma riuscire a "vendere", lo sappiamo bene anche oggi, è essenzialmente "creare un bisogno" nella mente di chi ci ascolta, portafogli alla mano.

Anche per questo Wanna non si pente, mai, fatto salvo quel posticcio pianto a secco in tribunale che tutti ricordiamo con imbarazzo e un pizzico di "Ma che davero?". No, Marchi si dimostra tuttora, dopo gli anni di carcere e le vite che ha rovinato, priva di qualsivoglia tipo di senso di colpa. Lei, dal suo unico punto di vista, ha fatto semplicemente il proprio mestiere. E sempre meglio, sempre più in grande. Ciò fa di Marchi (e della figlia che è sostanzialmente sua eco) una persona dalla morale quantomeno discutibile. Ma anche la villain perfetta che vola là dove prima aveva osato forse solo Patrizia Reggiani. A livello narrativo, un lusso da sciogliere la pancia a qualunque autore tv.

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"A un certo punto si era messa in testa di essere così brava da poter vendere il niente, ossia la fortuna", ammette perfino il suo avvocato difensore ai tempi del maxi-processo, convinto di essere stato assunto "perché telegenico", non per il cv. Wanna e Stefania, mentre tutto il loro regno deflagra sotto al peso di un Tapiro e Do Nascimiento prende il largo per non rimettere mai più piede in Italia, sono convinte di poter ancora una volta domare la televisione. Quindi via di processo mediatico, pollice verso per il rito abbreviato, niet al patteggiamento. Fino a quel momento, fino cioè ai filmati che riprendono le testimonianze delle loro vittime in tribunale, si può essere portati a provare una certa simpatia per la vulcanica Wanna, sempre pronta a reinventarsi in nome di quel "Crederci sempre arrendersi mai" che tanta fortuna portò anche a Simona Ventura.

Davanti alle conseguenze, però, alle parole di chi ha perso tutto, fino a centinaia di milioni delle vecchie lire per un talismano accrocchiato pure male, si smette di sorridere: si sente parlare di famiglie spezzate, tentativi di suicidio, madri che hanno perso la stima e l'amore dei figli. Ci vollero cinque minuti per leggere in aula, post condanna, tutti i nomi dei "fregati" dalla fortuna di Wanna e le relative cifre che arrivarono a spendere perché credevano in lei (e perché spaventati dalle sue minacce di morte in caso di versamenti mancati). Le protagoniste possono chiudere la propria narrazione con un sorriso, come in effetti fanno, ma che non ci sia nulla di divertente, nei fatti, è oltre il lapalissiano. Wanna e Stefania, i Siamesi di Lilli e Vagabondo che distruggono tutto canticchiando un motivetto super catchy che ancora abbiamo stampato in testa. D'accordo? 

A livello di narrazione, c'è ancora una volta grande merito, però: dopo Sanpa, finalmente abbiamo esportato in 180 Paesi un'altra storia di true crime all'italiana, il nostro spaghetti western della cronaca nera. Ed è una bella notizia. La speranza, anzi, è che se ne faccia presto un genere perché oltre all'interessantissimo spaccato del nostro bel (ogni tanto) Paese negli anni 80 e 90, questo tipo di vicende hanno una sicura presa rapida verso chi guarda dall'estero: il tapiro, Striscia la Notizia, la truffa sul nulla "così italiana", direbbe Stanis La Rochelle se fossimo in una puntata di Boris, il mors tua vita mea come orgoglioso mantra di vita "sì, ma niente di serio".

In una parola: la locura è ciò che manca ai documentari true-crime che infestano Netflix da ogni parte del mondo e noi, fortunatamente o meno, ce l'abbiamo. "Ma vi pare possibile finire in galera per via di un pupazzo di polistirolo?", domanda scocciata Stefania Nobile guardando dritta in camera. A quanto pare, sì. Perché con una scarpa e una ciavatta, giustizia alla fine è stata fatta: la polizia stessa nominò le indagini "Operazione Tapiro salato".

Non c'è niente di più ipnotico del Wanna Cinematic Universe che include, a sorpresa, affacci sulla mafia, fino a che non viene nominata perfino la P2. Tutto questo per barattoli di creme ideati da un chimico che ancora oggi un filo se ne vergogna, per scioglipancia e talismani che mai e poi mai avrebbero avuto chance di funzionare. La Wolf di Sòla Street ha visto crollare il proprio regno nell'infamia più nera. E ancora si sente regina. Del niente. Come è sempre stata.

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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