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Natalino Balasso: “Ecco perché sono scappato dalla televisione. Lol? Non mi diverte”

Intervista a tutto campo all’attore, scrittore, comico al cinema con “Il ritorno di Casanova” di Gabriele Salvatores: “Con YouTube e il cinema non mi annoio. Se mi fermano per strada mi da fastidio”.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Natalino Balasso (foto di Massimo Battista)

Natalino Balasso, attore, comico, scrittore e autore teatrale, ha un’idea precisa di arte. Non ci gira intorno, non usa mezzi termini; e non vuole assolutamente essere accomodante. Il pubblico ha ragione, sì, ma non sempre. La satira fa fatica perché punta ai bersagli più facili: è un gioco di tifoserie. E nella comicità non si osa. O almeno, ecco: non si osa nel modo giusto, convintamente. Parla di tutto: tv, intrattenimento, cultura. Dai fumetti ai libri, e dai libri al teatro (che va fatto dal vivo, non online; quello online, ribadisce, è un’altra cosa, un’altra creatura).

In questi giorni, Balasso è in sala con Il ritorno di Casanova, il nuovo film di Gabriele Salvatores. Interpreta un montatore: il personaggio che, alla fine, tiene unite le due anime del racconto: quella più onirica e quella, invece, più concreta. Da una parte la finzione del cinema, e dall’altra la concretezza della vita vera. Ha accettato il suo ruolo perché, dice, “mi era piaciuta molto la sceneggiatura”. Non si definisce un attore di cinema. “E per questo, quando posso, faccio solo progetti nei quali credo e interpreto personaggi che mi sono più vicini. In questo caso, mi aveva intrigato l’idea di questo Sancho Panza che riporta alla realtà il protagonista, il regista interpretato da Toni Servillo, che non è solo un sognatore, come tutti quelli che si occupano di cinema, ma è anche disorientato”.

C’è una battuta molto bella che dice il tuo personaggio e che fa così, la cito: “I segreti e la solitudine ci uccidono”. Sei d’accordo?
Quando si sta male e si vive tutto internamente, aprirsi agli altri può essere d’aiuto. Anche io l’ho trovata molto bella, questa cosa. Se vogliamo, è una sorta di saggezza dell’ovvio. Tante volte pensiamo che nessuno possa capirci. Soprattutto le persone che lavorano nell’arte sono convinte di essere indecifrabili. Il conflitto che ha il personaggio di Servillo è un conflitto con la realtà.

C’è anche un contrasto costante tra il passato e il futuro, che è sempre più veloce. Penso alla scena in cui la casa del protagonista si ribella. La tecnologia può essere un problema?
Sì e no. Una volta, quando la vita era più lenta, le nuove tecnologie riuscivano a dare una marcia in più alle cose. È chiaro che chi nasce con una certa tecnologia, in un certo contesto, fa meno fatica ad adattarsi. Ricordo ancora un’intervista a Mike Buongiorno, in cui raccontava che la madre gli chiedeva sempre di salutare Gregory Peck perché lui andava in onda subito prima di un film e per lei, la madre, erano tutti lì, nello stesso posto. Oggi c’è una grossa confusione, sulla tecnologia.

In che senso?
A proposito della scena che citavi, ho letto qualcuno dire che si tratta di una cosa un po’ all’italiana, che solo noi possiamo vederla così, con una tecnologia che si ribella e non funziona. In realtà è un modo più profondo per dire altro, per dare un’immagine della confusione interna di una generazione che sta cedendo il passo a un’altra e che non si adatta facilmente al progresso. È anche vera, poi, un’altra cosa. E cioè che questo mondo tecnologico è fatto di sciocchezze che meravigliano. La meraviglia fine a sé stessa è un gioco; la tecnologia utile c’è sempre stata, ed è quella che sopravvive – ed è sicuramente una minima parte rispetto al totale.

“Sciocchezze che meravigliano”. Per esempio?
Vorrei dirti delle cose, ma non vorrei essere frainteso… Non so, gli schermi curvi per esempio. Ci sembrano incredibili, ma non li possiamo ancora usare nel migliore dei modi. Mi ricordo quando la gente comprava i televisori a 16:9 e i programmi erano ancora in 4:3: erano inutili, l’immagine si vedeva schiacciata. Ecco, alla fine, spesso tutto si riduce a questo. La tecnologia si basa sull’idea di meraviglia e miracolo, e non su quella di reale utilità. È chiaro che, poi, c’è tutto un altro mondo, utilissimo, del quale ci serviamo e dobbiamo servirci. Dire che i social sono utili va bene quando sono usati nel modo giusto. Se vengono usati in modo sciocco, non c’è nessun miglioramento.

Tu hai trovato un tuo spazio su Youtube. Perché? Per essere editore di te stesso e superare, così, dinamiche e strutture che fanno fatica ad adattarsi?
Guarda, è vero. Ma è vero che ci sono alcune cose che non puoi fare senza una struttura organizzata. Il cinema di Salvatores non è sicuramente come il cinema, chiamiamolo così, che faccio io, a casa mia. Serve una struttura in quel caso. Artisticamente ho sempre sentito il peso delle infrastrutture, anche perché ho avuto a che fare con la televisione. E dalla televisione, ti dirò, sono scappato.

Perché?
Perché non è possibile che un’idea artistica debba superare così tanti scalini per vedere la luce. E quando, poi, va in porto è talmente masticata e stravolta, da essere irriconoscibile. Per questo sono andato su Youtube. E Youtube, ora, è già stato superato: si è trasformato, in un certo senso, nella grande tv generalista. Io mi scaglio da sempre contro la pubblicità nell’arte, e quindi ho creato un account su Patreon, dove la gente si può abbonare e sostenermi direttamente. Non ho capistruttura o persone che devono interfacciarsi con gli sponsor; io mi interfaccio solo con il pubblico, perché è il pubblico che paga. Però devo dire in questo modo funzionano solo le cose piccole. Il cinema ha bisogno di spazi e strutture molto più grandi, a partire dalle stesse sale.

Oggi le sale sono in crisi.
Questo, però, è in parte colpa di chi, in questi ultimi anni, approfittando anche delle chiusure, ha speso miliardi per tenere la gente a casa. Poi, quando le persone si accorgeranno di guardare sempre la stessa cosa, una serie lunghissima fatta di tantissimi episodi, probabilmente ci sarà un ritorno in sala. Negli anni Ottanta, quando sono arrivati i campionatori musicali, tutti erano convinti della stessa cosa: nessuno suonerà più uno strumento. E invece oggi, nel 2023, ci sono ragazzi che non vedono l’ora di imparare a suonare una fisarmonica o un contrabbasso. Quindi, come vedi, le cose che valgono rimangono. Dopodiché è ovvio che il mercato deciderà, come sempre, sorti e andamenti. E tante volte lo stupore è maggiore del contenuto.

Il teatro, invece, non si può fare online.
Questo è proprio un altro discorso. Già il cinema, con la sua realtà avvolgente del suono e dell’immagine più grande, ha poco a che fare con il salotto di casa. Oggi c’è un consumo dei film che è davvero aberrante. La gente, dopo cinque minuti, se non si sente coinvolta, cambia film; e se non ne trova uno, rischia di passare tutta la serata guardando inizi di film diversi. Sul teatro non c'è proprio discussione.

No?
Paragonare il teatro fatto dal vivo con il teatro fatto in tv è come paragonare il tennis al ping pong. Voglio dire: abbiamo gli stessi elementi ma sono due cose diverse. Ciò non toglie che il ping pong sia uno sport dignitoso e che la televisione possa fare anche delle cose ottime. Ma è chiaro che il teatro è proprio un altro pianeta.

L’esperimento della cosiddetta “Netflix della cultura italiana”, ItsArt, di cui hai parlato spesso, è fallito.
(ride, ndr) Sì, be’, era fallimentare in partenza. Ma questo succede spesso con i politici. Perché i politici non sanno di che cosa stanno parlando. Puntano al risultato.

E questa volta non c’è stato.
Non serve un laureato alla Bocconi per capire che non è facile raggiungere il livello di Netflix. In più, se vuoi far pagare per spettacoli che sono già stati fatti dal vivo, è normale incassare poco. Attenzione, però: questo non vuol dire che la cultura deve ripagare tutti gli investimenti. Io sono d’accordo con il fatto che lo Stato debba essere pronto a spendere soldi senza avere nessuna certezza di ritorno. Nel caso della Netflix della cultura italiana, però, parlavamo solo di uno spot.

Prima mi hai detto che sei scappato dalla televisione. C’è stato un momento o un motivo particolare?
I motivi, in realtà, sono due. Il primo: la televisione ti chiede sempre la stessa cosa, sempre gli stessi due minuti. Ti costringe a usare lo stesso formato, a diventare una maschera. Che però, attenzione, non è una maschera teatrale, ma televisiva. Fatta di cose abbastanza banali. Ora, io mi sono molto divertito a lavorare in televisione, anche perché ero con amici e c’era un clima piacevole. Artisticamente, però, quelle cose per me non erano niente. Erano cose piccole. E a me non è mai interessato un successo fine a sé stesso. Su un successo, che ti permette di fare quello che vuoi fare e di andare avanti, invece, sono d’accordo. Ma un successo che ti rende famoso non ha mai significato niente per me. Anzi, quando vengo fermato mi dà anche un po’ di fastidio. Insomma, non volevo fare la fine pietosa che fanno molti: diventare la caricatura di me stesso, invecchiando e provando comunque a rimanere lo stesso di venti anni prima.

E il secondo motivo, invece, qual è?
Con la televisione, non c’era modo, per me, di parlare e ragionare. Non dico che per dirigere, in televisione, ci sia bisogno di essere stupidi. Ma sono sicuro che aiuta. Chi dirige la televisione non è stupido. A volte, però, è costretto a comportarsi come tale. Non c’è un essere umano in grado di decifrare i dati d’ascolto, che sono, il più delle volte, casuali. Poi, se si intuisce qualcosa, se si capisce quello che piace al pubblico, la corsa sarà sempre al ribasso e andrà sempre peggio.

Perché?
Anche i programmi culturali, oggi, provano a fare intrattenimento. E così i programmi di informazione. Ecco, è diventato tutto un gran intrattenimento. Vietato pensare e approfondire. E la stessa cosa vale per la satira. Sono almeno vent’anni che la satira viene vista come l’imitazione di questo o quel politico. Quella lì non è satira: è uno sbeffeggio.

La satira, invece, che cos’è? Contro o con chi si fa?
Oggi la satira sceglie bersagli molto facili. È un po’ come il Bagaglino che faceva Andreotti. È facile sbeffeggiare chi fa le cose, perché l’errore, soprattutto nella politica, è di casa. Mi sono sempre piaciuti Corrado e Sabina Guzzanti, e più volte, anche con Silvio Orlando, ho riflettuto su una cosa.

Cosa?
Mi sono chiesto: ma se io non la pensassi come loro, mi farebbero comunque ridere? Quando la satira va a colpire un bersaglio che ci è caro, c’è poco spazio per crescere. E la satira dovrebbe fare proprio questo: parlare non di chi viene eletto, ma di chi va a votare. E allora vediamo, sì, se chi ci guarda è disposto a mettersi in discussione nello stesso modo in cui mette in discussione i politici.

Il pubblico non è sacro?
Io non sono minimamente d’accordo con quelli che dicono che il pubblico non capisce un cazzo, che loro sono artisti e che non devono compiacere nessuno. Seguire la pancia del pubblico ti porta a delle soluzioni, come dicevo, facili. L’opposto, invece, ti porta a soluzioni che non possono essere discusse. Assolute.

E quindi?
Io penso che, quando vuoi parlare con il pubblico, il pubblico abbia ragione. Personalmente provo sempre a creare cose capaci di offrire una visione capovolta. Quando il pubblico si riconosce, non cresce. E io preferisco offrire cose nuove, a cui nessuno, prima, aveva pensato nello stesso modo. Quella, secondo me, è la strada dell’arte. Non consolare gli altri. Quelli di sinistra fanno satira su quelli di destra, e quelli di destra su quelli di sinistra.

È un gioco di tifoserie.
Sì, ma secondo me non è solo un discorso sulla satira, ma sull’arte in generale. Io ho sempre in testa questa canzone di Léo Ferré, che parlava degli artisti e diceva: sono ventimila anni che predicano nel deserto. Ecco, io non dico che bisogna predicare nel deserto e non dico nemmeno che bisogna essere incompresi. Dico, però, che è importante provare a essere ventimila anni avanti. Altrimenti c’è il rischio di proporre, banalmente, un commento della realtà. E il commento della realtà lo fanno meglio i giornalisti dei comici.

Un comico, dicevi in Comedians di Salvatores, è una persona che osa. Oggi i comici non osano più?
Oggi si fraintende il significato di osare. Una volta si diceva che i comici facessero cabaret, ed era una cosa che mi faceva incazzare. Perché il cabaret è un luogo, non è un linguaggio. Lenny Bruce faceva dell’importante satira sociale nei cabaret, dove si facevano anche gli spogliarelli. Da noi, adesso, con cinquant’anni di ritardo, è arrivata la moda della stand-up comedy. E spesso basta stare in piedi, con un microfono in mano, per rispettare questa figura. E che cosa dici? Spesso si provoca, convinti che quello sia coraggio. Il comico che bestemmia. Il comico che prende di mira le categorie che vengono discriminate, facendoci, poi, una moraletta. Quello non è osare; quello è tirare schiaffi alla cieca sperando che qualcuno reagisca.

Quindi non si può più dire niente?
Ma sarebbe bellissimo se la gente avesse qualcosa da dire. Qualsiasi tema e qualsiasi provocazione, se ben argomentanti, possono essere accettati. La nostra è una nazione di permalosi, e lo sappiamo: siamo fatti così. Ho letto un bellissimo libro, scritto da Emma Rosenberg Colorni, che si intitola Lavorare senza offendersi. Ed è molto interessante. Proprio all’inizio, viene spiegato il titolo. E lavorare senza offendersi non significa lavorare senza offendere l’altro, ma lavorare senza offendere sé stessi. E qui Colorni dice una cosa fondamentale.

Cioè?
Nessuno può offenderti, se non ti offendi tu, da solo. Diventa importante capire il modo in cui si fa ironia. Il contesto. I comici fanno da sempre ironia su temi e categorie, e non capirlo vuol dire non capire nemmeno il ruolo del comico. Ovviamente nemmeno chi ride per banali prese in giro ha capito che cosa fa il comico. Ha bisogno di una comicità consolatoria; una comicità che dica: quello è il mostro, e tu sei normale. Quello che serve è il buon senso, e il buon senso è fatto anche di intelligenza. Bisogna capire la realtà, e la realtà che ci viene proposta oggi è una realtà emozionale. Basta dare un’occhiata a Instagram. Nessuna azienda automobilistica, oggi, ti vende un’auto; tutte ti vendono le esperienze che puoi fare con quell’auto. E allora torniamo al discorso di prima, al personaggio di Sancho Panza, che sicuramente è un sempliciotto. Ma che è uno che, comunque, ti ricorda la realtà: quelli non sono giganti, ma mulini a vento.

E di LOL, il programma di Prime Video, che cosa pensi?
Ho visto i primi dieci minuti, e francamente non ho nessun pensiero. Ci sono anche dei momenti divertenti. Ma, alla base, c’è una cosa che facevamo alle medie. E cioè: non devi ridere. Per carità, è uno dei tanti modi che esistono per intrattenere. A me non diverte. Poi, intendiamoci, forse sono io quello strano. Non mi hanno mai fatto ridere nemmeno gli scherzi in tv. Mi sono sempre immedesimato nella vittima.

Nel tuo Dizionario hai definito la felicità come “un momentaneo stato confusionale dettato dal non avere la minima idea di quello che sta accadendo”. La pensi ancora così?
Sì. Ma, vedi, io ho fatto quella cosa sul Dizionario proprio per questo motivo. Quando la gente dice: sono una persona felice, vivo una vita felice, non ha senso. Perché la felicità dura pochi istanti. Sarebbe un po’ come vivere una vita di orgasmi. E la stessa cosa vale per la serenità. Noi ci adattiamo a quello che ci succede. E non siamo noi a decidere quello che ci succede – non sempre, almeno. È il caso. E la felicità, per me, è uno stato confusionale. E infatti chi vuole provare delle emozioni estranianti o si droga o beve… o guarda delle serie tv.

Qualcuno dice che sei un intellettuale.
Intellettuale è uno di quei termini che cambiano significato a seconda di chi li utilizza. Frida Kahlo, per esempio, parlava malissimo degli intellettuali. Se l’intellettuale è, banalmente, quello che usa l’intelletto, allora ci sono molti intellettuali… che non sono proprio intellettuali. È un po’ come quando qualcuno viene definito opinionista. Tutti, alla fine, hanno opinioni. Un opinionista dovrebbe avere opinioni più profonde degli altri. No, ecco: non so cosa rispondere a questa domanda.

Forse, per citarti, un intellettuale è chi prova a stare ventimila anni avanti.
Siamo sempre sulla linea sottile delle definizioni, no? Quando senti una persona intelligente, devi farti venire la voglia di interessarti e appassionarti. Quando sento parlare Galimberti, che per me avrebbe dovuto fare il Ministro della Cultura, è quello che penso. Un intellettuale dovrebbe offrirti un’altra visione. Non limitarsi alla semplice opinione del momento. A quel punto è come una chiacchierata al bar, no?

Perché hai deciso di lavorare più volte con Salvatores?
Io faccio poco cinema, però ci sono dei registi con cui lavorerei per tutta la vita. Com’è stato per Mazzacurati e com’è, adesso, per Salvatores. Perché c’è una comunione intellettuale. Quando sento Gabriele parlare, sento che c’è un'intesa. Visto che in questo campo essere intelligenti e capaci è molto difficile, un regista come Salvatores, così delicato e bravo, è qualcuno che può sicuramente insegnarmi qualcosa. Io sono stato anche molto fortunato.

In che senso?
Lavorare ora con Toni Servillo e prima con Silvio Orlando è stata una grande opportunità. Non si smette mai di imparare, secondo me. Non mi piace fermarmi su quello che so fare. Non mi interessano gli elogi; m’interessa raccontare le storie. Qualunque cosa possa mettermi in difficoltà e farmi lo sgambetto può essere un motivo di crescita.

Il tuo ultimo lavoro, in tv, è stato Aspettando Adrian con Celentano. Hai visto Adrian?
Sì, certo. Ma guarda, ti spiego il motivo per cui ho fatto quella cosa.

Dimmi.
Volevo conoscere Celentano. Per me è sempre stato un mito. E quindi sono stato contentissimo di vederlo e incontrarlo. Ma non ho trovato utile fare quel programma. Sono stato contento, lo ripeto. Celentano, secondo me, è come un bambino. È estremamente ingenuo. Crede molto in quello che fa, e ha fatto questo cartone animato con la convinzione di poter coinvolgere un pubblico di adulti. Ma gli adulti, in Italia, non guardano nemmeno Miyazaki.

Di Adrian che pensi?
Sul cartone, non so pronunciarmi. Ognuno di noi ha i suoi gusti. Io leggo fumetti, e sui cartoni, onestamente, non so dirti cosa sia di moda adesso. La Disney mi annoia, e non parliamo, poi, dei personaggi con le tutine. Non mi sono posto un problema – diciamo così – artistico perché in televisione, come ti dicevo prima, non si può fare arte. Sono stato contento di esserci, e voglio ripeterlo, perché ho potuto ritrovare Giovanni Storti, che è un caro amico, e conoscere Celentano.

Che fumetti leggi?
Ho letto di tutto. Da Alan Ford fino alle strisce di Sturmtruppen di Bonvi. Mi piaceva molto Kentaro Miura. Ho seguito per anni Berserk. E l’ho trovato molto interessante, anche per i suoi risvolti narrativi. E poi, ovviamente, ci sono Paz e Magnus.

Con la morte di Miura, si è aperto un dibattito sulla possibilità di continuare Berserk. Tu che cosa ne pensi?
Io non l’avrei continuato, onestamente. Andava fermato. Ma, come sai, è il mercato che va avanti e che decide. Poi, per carità, si potranno avere anche delle belle intuizioni. Ma io, ripeto, non sarei andato avanti. Forse la mia è solo nostalgia, chi lo sa.

Tu, adesso, sei confuso? Cioè, mi spiego: sei felice?
(ride, ndr) Guarda, sto vivendo dei momenti di grossa difficoltà con i miei animali: sono circondato da cani e asini, e hanno delle sfighe che… guarda, poveretti. Con mia moglie siamo proprio in seria difficoltà emotiva. Però, sì, ti posso dire che sono contento di quello che faccio. Questo sì.

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