Giacomo Crosa: “Anni di rassegne notturne al Tg5 quando i giornali erano solo di carta. Ora la Tv è un capitolo chiuso”

Lontano dai riflettori, per sua precisa scelta: “Me lo ripetevo in continuazione: il giorno in cui per motivi di età sarebbe giunta l’ora di allontanarmi, l’avrei fatto davvero”. Parola di Giacomo Crosa, uno che la promessa fatta con se stesso l’ha mantenuta in pieno. Nessun rimpianto, come rivela a Fanpage.it: “Non ho avuto traumi e crisi di astinenza. A parte qualche apparizione o intervento sporadico per delle occasioni particolari, la televisione per me è un capitolo chiuso”.
Originario di Retorto, frazione di Predosa, comune di 1900 abitanti in provincia di Alessandria, la famiglia di Crosa si spostò presto a Genova. “Ho vissuto a lungo sotto al ponte Morandi – racconta – l’ho visto nascere giorno dopo giorno. Il mio palazzo era in via Porro e sfiorava l’opera. Ce l’avevamo letteralmente sulla testa. È un’immagine che mi sono portato dentro per tutta la vita”.
Quello con lo sport, per uno che avrebbe raggiunto i centonovanta centimetri di altezza, fu un matrimonio quasi automatico. “Lo praticavo a scuola, come tutti i ragazzi della mia generazione. Negli anni sessanta l’attività più diffusa era la pallavolo e cominciai da lì. Poi, per puro caso, uno dei professori di educazione fisica, che era stato atleta di atletica leggera, mi fece avere il primo contatto con la pedana”.
Ecco dunque la scoperta del salto in alto, non prima di aver insistito su altri percorsi. “Avrei voluto diventare mezzofondista, ma durante una gara degli 800 metri abbandonai il campo. Mollai a metà. E pensare che mi ero preparato tutto uno schema nella testa. Evidentemente non era la mia strada. Grazie al cielo, aggiungo”.
Fu tentato pure dal calcio.
Feci un provino con Giuseppe Cornara all’Alessandra ed era previsto che col settore giovanile andassi a giocare contro la Juventus a Villar Perosa.
A Villar Perosa però non si esibì mai.
A pochi giorni dalla partita mi imbattei nel marciatore Abdon Pamich, che venne a mostrare la medaglia d’oro vinta ai Giochi di Tokyo del 1964. Rimasi talmente affascinato che il calcio venne accantonato, rimanendo una divertente parentesi giovanile.
Alle Olimpiadi lei ci arrivò nel 1968.
È il traguardo più importante, sopra non c’è nulla. Prima del Messico avevo preso parte agli Europei di Praga. Fu la mia prima trasferta in azzurro e venni battezzato da Silvano Meconi, che mi costrinse a portare il suo peso per l’intero viaggio!
In Messico si classificò al sesto posto, conquistando il diploma d’onore olimpico.
Fino al 1952 si assegnavano le tre medaglie. Successivamente ci si allargò ed ottenni un diploma d’onore dal Cio. Non sono un feticista dei premi, ma nel mio studio conservo il numero di gara, il 501, il diploma di partecipazione alle Olimpiadi e proprio il diploma d’onore. È un qualcosa di caro, a cui tengo. Probabilmente in pochi sanno della sua esistenza.
Saltò a 2 metri e 14, siglando il primato nazionale dell’epoca.
Con un briciolo di presunzione, mi vanto di aver conseguito i record nelle gare importanti. Saltai a 2 e 14 in finale, con le qualificazioni che a quei tempi andavano in scena il giorno prima. Ora passano quarantotto ore tra un appuntamento e l’altro. Chiunque si rende conto che non è esattamente la stessa cosa. Non avevamo tempi di recupero.
Mi pare di capire che non è un amante dei paragoni.
Partecipai nel 1968, era un’altra era. Bisogna prendere le singole performance ed inserirle nel loro contesto, senza mai lanciarsi in confronti. Chi li fa non applica il buon senso, che dovrebbe essere la linea guida su tutto. Al contrario, assisto a delle esagerazioni, soprattutto in questo periodo. È tutto superlativo ed esasperato all’eccesso. Vale nell’atletica, nel tennis, nel basket e nel calcio.
Quelli del 1968 furono i Giochi di Dick Fosbury, che rivoluzionò il modo di saltare.
Scoprimmo la sua tecnica qualche mese prima a Formia. Il professor Palanca era venuto in possesso di un filmato in Super 8 che documentava questo stile particolare simboleggiato dal passaggio dorsale. Durante le Olimpiadi, invece, non lo incrociammo mai. Al nostro campo di allenamento Fosbury non si fece vedere, faceva la preparazione da un’altra parte.
Lo incontrò solo in gara.
Lo intravidi in finale, ma per l’intera competizione mi concentrai su me stesso. In seguito ci conoscemmo, rimanendo in ottimi rapporti. Era una persona squisita.
Il modello Fosbury prese il sopravvento e mandò in pensione il cosiddetto salto ventrale.
Ancora adesso è in atto il dibattito su quale tipologia sia più redditizia. Io rimango a favore della ventrale. Ha praticamente la stessa valenza della dorsale, ma non la fa più nessuno. Non va dimenticato che nel 1978, agli Europei indoor di Milano, Vladimir Jaščenko vinse l’oro saltando con la vecchia tecnica a 2 metri e 35, praticamente l’identica misura di oggi. La verità è che ormai ci si è omologati. Il tempo ha fatto cadere la polvere su una metodologia molto difficile. Quella varata da Fosbury è più easy, non c’è dubbio.
Un gravissimo infortunio al ginocchio interruppe la sua carriera ad appena 22 anni.
Mi invitarono ad una tournée nell’allora Unione Sovietica. Arrivammo al Palazzo del Ghiaccio di Mosca, che era enorme, e c’era un freddo dell’accidenti. Giusto il tempo di fare due salti e sentii una fitta al tendine rotuleo. Il dolore fu secco. Anche qui ci sarebbe da avviare una riflessione sui confronti.
Prego
Era una competizione indoor, ma bisognerebbe soffermarsi sulla qualità di quegli impianti e rendersi conto di quale situazione trovammo. C’erano delle tavole di truciolato posizionate sul parquet. Ora le strutture sono eccellenti. Quindi ribadisco: ogni cosa va collocata nel suo periodo storico.
Fu difficile reinventarsi?
No, la mia carriera si chiuse senza troppi turbamenti, ma sono consapevole che nel 2025 avrei avuto una bella storia da pubblicizzare sui social (ride, ndr). Non mi dannai, anzi pensai che avrei potuto realizzare tante altre cose nella vita. La mia fortuna è stata sempre quella di non voler fare a tutti i costi una cosa. È andata così nello sport, nel giornalismo e nella tv. Non sentivo una particolare vocazione, sapevo di possedere delle doti e sono andato avanti.
Inaugurò pertanto la sua seconda vita.
Terminai la Scuola dello Sport e diventai docente. Iniziai inoltre a lavorare presso la Federazione come responsabile tecnico-organizzativo del Club Italia. Contestualmente presi parte a qualche trasmissione della Tv dei Ragazzi, fino a quando non approdai a Radio Rai.
Come avvenne il contatto?
Facevo lo speaker in varie manifestazioni sportive e qualcuno segnalò il mio nome. La sede era in via del Babuino e il mio primo colloquio fu con Enrico Ameri. Andò bene e a quel punto mollai il Coni.
Non passò subito allo sport, come si potrebbe facilmente immaginare.
Mossi i primi passi occupandomi di terrorismo. Gustavo Selva ripeteva che i radiocronisti sportivi erano a suo avviso più bravi a raccontare i fatti di cronaca. Ma dopo un po’ chiesi espressamente di riabbracciare lo sport.
Negli anni ottanta scattò il corteggiamento di Silvio Berlusconi.
Le Olimpiadi di Los Angeles furono l’ultimo evento che seguii per la Rai perché a distanza di poco tempo mi arrivò una lettera dalla Fininvest, che mi voleva in squadra. Condussi ‘Record’, che era un format abbastanza nuovo. Ero il coordinatore e con me c’erano grandi figure come Andrea De Adamich, purtroppo scomparso di recente, e Rino Tommasi. Fu un programma di alto livello.
Le affidarono il commento dei grandi appuntamenti.
Era quello che mi interessava. Fui inviato alle Olimpiadi e per molti anni del Giro d’Italia, quando Mediaset acquisì i diritti. Furono anni professionalmente straordinari.
Ha affermato: “Lo sport è un elemento di costruzione della personalità, non solo il mero esercizio di un muscolo”.
Confermo. C’è un grande difetto dal punto di vista culturale. Non devi approdare per forza alle Olimpiadi per sentirsi gratificato. Quando vinsi i campionati provinciali di salto in alto provai più o meno le medesime emozioni. È ovvio che non sia la stessa cosa, però le sensazioni intime furono uguali, mutò solo il contesto. Lo sport è l’unico momento in cui nessuno può interferire. Tutto dipende da te, sei responsabile al cento per cento delle tue azioni e non puoi accampare scuse.
Suppongo prediliga lo sport individuale.
Nello sport di gruppo puoi scaricare la responsabilità sui tuoi compagni ed è più facile crearsi degli alibi. Nell’individuale no, quando ti guardi allo specchio puoi dirti “bravo” oppure “hai sbagliato”. Per questo ritengo lo sport uno degli elementi pedagogici più importanti che ciascun giovane dovrebbe vivere.
Nel 1992 sbarcò al Tg5.
Enrico Mentana mi telefonò spiegandomi che stava creando la redazione del nuovo telegiornale di Canale 5. Mi chiese se fossi disponibile e accettai con piacere. Il Tg5 fu un’esperienza gratificante ed ebbi al mio fianco un gruppo di giornalisti di straordinario livello. C’era una stupenda redazione, guidata da quello che ritengo il giornalista televisivo più bravo.
La domenica chiudeva l’edizione notturna con la tradizionale rassegna stampa, quando ancora i quotidiani si sfogliavano.
Era tutto su carta. A tal proposito, sento tanta gente rimpiangere il passato, ma non ha senso combattere contro la modernità e i touch screen. La mattina i giornali me li leggo sul tablet. Le versioni cartacee ormai non le vedi più da nessuna parte. Una volta sugli autobus c’erano gli autisti che avevano il quotidiano appoggiato sullo sterzo, oggi non è più così. Non ci si deve opporre al nuovo. Un po’ come quelli che si ribellano all’intelligenza artificiale. Io non la utilizzo, prendo tuttavia atto che è un sistema che ci aiuterà molto.
Diversi suoi colleghi hanno confidato di aver ricevuto telefonate da parte di Berlusconi dopo essere andati in onda. Capitò anche a lei?
So che c’è questa narrativa su di lui. Si diceva che nel suo ufficio avesse una parete con tutti i monitor sintonizzati sui suoi canali. Personalmente non ricevetti mai rimproveri o suggerimenti per il mio look. Berlusconi era un personaggio affascinante, al di là di come uno possa pensarla. Nei primi periodi ci incrociammo spesso. Una volta in un locale lo sentii addirittura cantare ‘La vie en rose’ con Fedele Confalonieri che lo accompagnava al pianoforte.
Non posso non chiederle di “Buona Domenica”.
Feci 3-4 edizioni con Costanzo. C’era un clima goliardico. Alle 12 venivano a prendermi in auto, andavo a Cinecittà, partecipavo alla puntata, poi mi dirigevo al Tg5 e ci restavo fino a notte inoltrata. Era un contesto particolare, percepivo fermento. Ebbi l’onore di osservare la macchina di lavoro da vicino e mi riconosco il merito di aver fornito il mio contributo.
Si riferisce al gioco del salto in alto?
Esattamente. Consigliai di piazzare un materasso e di fissare un’asta al centro dello studio. Tutte le domeniche i vip ospiti si cimentavano nel salto.
Come nacque la trovata?
Parlando con gli autori dissi: ‘Perché non proponiamo questa cosa?’. Sono le classiche intuizioni che vengono fuori casualmente, mentre si chiacchiera. Ricordo che il giorno seguente, alle 10 del mattino, nel leggere i dati Auditel constatavano che quel blocco alzava la curva. Era un segmento che arrivava dopo l’esibizione di un grande cantante. Ebbene, il salto in alto faceva più ascolto.
Le chiedevano pure di aggiornare gli spettatori sui risultati della Serie A.
Ascoltavo la radio e ogni tanto aggiornavo il pubblico. I miei interventi aumentarono nel 2000-2001 perché Maurizio, essendo romanista, voleva che lo informassi sul punteggio della Roma. Era l’annata che li avrebbe portati alla conquista dello scudetto.
Se si guarda indietro prova nostalgia?
No. Per esempio, non mi sono mai riguardato. Mi dà fastidio. Vale sia per lo sport che per la tv. Ci sono atleti che hanno la fissa di controllare i loro salti durante le gare, io lo trovo osceno. Se l’avessi fatto, avrei notato solo i difetti. Meglio lasciare ciò che è stato.
Rappresenta un’eccezione, lo sa?
Non ho mai fatto delle cose per mettermi delle spillette al petto. Capita di frequente che la gente mi fermi per ricordarmi alcune situazioni di cui mi sono completamente dimenticato.
Preferisce essere celebrato per la sua carriera da atleta o da giornalista televisivo?
È una domanda che non mi sono mai posto, quindi non saprei rispondere. L’altro giorno in un ristorante dei signori mi hanno ringraziato per le grandi emozioni vissute. Si riferivano alle gare di salto in alto. Ecco, diciamo che se la gente mi ricorda per le Olimpiadi del 1968 sono molto contento. La considero una delle pagine più importanti della mia vita. La tv è qualcosa di scontato, banale. È normale che sia rimasto più impresso per via delle mie apparizioni in video. Ci sono stato per quarant’anni…