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Omicidio Michela Di Pompeo, confermati 16 anni al compagno Francesco Carrieri

La seconda Corte D’Appello, nel processo per l’omicidio di Michela Di Pompeo uccisa con un manubrio il primo maggio del 2017, ha confermato la precedente sentenza: Francesco Carrieri è stato condannato a 16 anni di reclusione, più tre in riabilitazione psichiatrica, interdizione dai pubblici uffici e risarcimento.
A cura di Alessia Rabbai
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Confermati sedici anni di reclusione per Francesco Carrieri, ritenuto responsabile di omicidio volontario per aver ucciso con un peso da palestra la compagna Michela Di Pompeo il primo maggio del 2017. Oggi il verdetto della seconda Corte D'Appello, che ha confermato la precedente sentenza: sedici anni di reclusione, più tre in riabilitazione psichiatrica, interdizione dai pubblici uffici e risarcimento. Ora si attendono le motivazioni della sentenza, che arriveranno tra sessanta giorni. "Trent'anni di partenza come pena prevista per un omicidio sono pochi, per ragazza trucidata di notte in quel modo. L'imputato ha riposto vestiti sporchi e ha confessato il delitto la mattina seguente, certo, non avrebbe potuto fare altrimenti – ha commentato raggiunto fa Fanpage.it l'avvocato di parte civile Luca Fontana – Spero che quello di Michela sia uno degli ultimi casi nei quali si parta da una pena base così bassa anziché dall'ergastolo. Il suo delitto è uno dei casi che ha dato un contributo alla modifica normativa, che impedisce agli imputati di poter ricorrere al rito abbreviato nei reati di omicidio, usufruendo dello sconto di pena".

Il processo per l'omicidio di Michela Di Pompeo

Michela Di Pompeo, insegnante della Deutsche Schule, è stata uccisa con un manubrio da palestra nel suo appartamento nella centralissima via del Babuino, un decesso che secondo quanto è emerso in sede d'autopsia è sopraggiunto per ‘strangolamento atipico'. Nell'ambito del processo l'8 ottobre del 2018 il giudice delle indagini preliminari Elvira Tamburelli ha condannato Carrieri a 30 anni di reclusione, appunto il massimo della pena allora prevista dal rito abbreviato. Successivamente una perizia ne ha dimostrato la seminfermità mentale e la difesa ha presentato un ricorso, che la Cassazione ha accolto per carenza motivazionale, ossia per la mancanza delle motivazioni rispetto all'aggravante per futili motivi, che la perizia ha confermato essere compatibili con la patologia. Giudizio in merito del quale sono tornati ad esprimersi i giudici di secondo grado e il cui esito ha visto la conferma della condanna.

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