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Diciamo basta a regolamenti e multe che rendono Roma una città solo per ricchi

Il Regolamento di polizia urbana e lo strumento del daspo urbano a Roma colpiscono i più poveri, disegnando una città in cui lo spazio pubblico è interdetto agli ultimi che invece di essere aiutati vengono scacciati e allontanati. Per questo è necessario cancellare norme ingiuste, anche con la disobbedienza civile.
A cura di Christian Raimo
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Il 24 luglio e il 30 agosto mi sono seduto per pochi minuti sulla scalinata di Trinità dei Monti a leggere un libro, e sono stato entrambe le volte multato – 250 euro a sanzione. Ho trasgredito l’articolo 4 del Regolamento di polizia urbana approvato dalla giunta di Virginia Raggi nel 2019. Il Regolamento di Polizia Urbana di Roma Capitale è un lungo elenco di “comportamenti vietati nei luoghi pubblici”. In nome del “decoro” nel centro storico di Roma è vietato arrampicarsi, sdraiarsi o sedersi su monumenti (ma anche su pali dell’illuminazione pubblica, segnaletica stradale verticale, inferriate, fabbricati, muri di cinta e similari, alberi…), È vietato bivaccare. Ovvero: stazionare in luogo pubblico in modo scomposto e/o contrario al decoro, nonché sedersi (ancora). È vietato consumare cibi e bevande sui beni del patrimonio storico, artistico, archeologico e monumentale.

Il mio sit-in, fatto con altri attivisti, urbanisti, studiosi, avvocati, storici dell’arte, e cittadini comuni, mostrava platealmente come quella norma sia insensata. La scalinata di Trinità dei Monti è stata concepita come uno spazio pubblico, della città. Per quattro secoli è stato così. Mentre oggi, con almeno due vigili urbani che ogni minuto fischiano di alzarsi alle persone che si siedono, per riposarsi, per sostare davanti alla bellezza di Roma, per conoscere persone, è diventata un triste sfondo per i selfie più istantanei possibile.

Il divieto della scalinata di Trinità dei Monti è emblematico: di un turismo concepito sempre di più come consumo, e di una politica classista che cerca modi per escludere la cittadinanza nel godimento della propria città.

Rispetto al primo tema, è una disgrazia vedere come Piazza di Spagna non abbia panchine, e che prima di trovare un posto dove potersi sedere liberamente occorre arrivare a Villa Borghese. Se ci si vuole sedere lo si può fare nei tavolini di Babington’s che invadono senza problema con recinti e fioriere lo spazio pubblico della piazza, e dove un tè può costare 20 euro, oppure – per chi è meno benestante – da McDonald’s. Non è una viltà?

Nell’ottocento Charles Dickens in un suo Grand Tour racconta di come gli artisti andassero lì, tra le persone comuni sedute sulla scalinata, a cercare modelli per le loro opere; nel novecento l’urbanista Italo Insolera descriveva la relazione tra storia e contemporaneità proprio a partire dalla possibilità di vivere questa scalinata come una piazza dove sostare e incontrarsi; e recentemente persino Vittorio Sgarbi, da storico dell’arte, bollava il divieto di sedersi come una norma di stampo fascista.

Occorre però allargare lo sguardo e ragionare su come la querelle intorno alla scalinata di Trinità dei Monti riveli altre due questioni più complesse che riguardano tutta la città e sono urgenti. La prima è il dibattito sul decoro, l’altra più specifica è quello sul daspo urbano.

Facciamo un po’ di storia recente. Come ricorda il sociologo Enrico Gargiulo, i concetti extra-giuridici di “decoro”, “degrado”, “sicurezza urbana” hanno fatto il proprio ingresso nello scenario italiano a partire dagli anni novanta, quando hanno cominciato ad assumere sempre maggiore rilevanza le tematiche del contrasto alla microcriminalità e alle cosiddette incivilties. Quello che in poco più un decennio è successo è stata la creazione di continue “emergenze” basate sulla “percezione di insicurezza” dei cittadini, con il conseguente uso e abuso della decretazione d’urgenza da parte di governi di diverso colore politico.

Nel 2008 – governo Berlusconi-Maroni – un decreto legge modifica il testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali e introduce la nozione, ormai invalsa di “sicurezza urbana”; ma nel 2011 la corte costituzionale scrive che la norma è illegittima. È una sentenza importante, ma i dieci anni successivi cercheranno di picconarla pezzo a pezzo, riuscendoci prima de facto e poi, in molti casi, de iure. Come accade?

Invece di leggi nazionali, arrivano le amministrazioni locali a affrontare in modo emergenziale le politiche sociali. Ecco un’inflorescenza di regolamenti urbani che fanno propria l’ideologia del decoro e della sicurezza, con misure sempre più repressive. Sono gli anni dei sindaci sceriffo che, a suon di ordinanze, prendono di mira senza tetto, migranti, poveri e sanzionano i più svariati comportamenti. Non a caso sono gli anni in cui si comincia a discutere di armare i vigili urbani che conoscono una sorta di veloce militarizzazione.

Fino al 2017, quando il governo Gentiloni introduce un nuovo strumento – il daspo urbano – attraverso il decreto Minniti.

In questi giorni il daspo urbano viene evocato spesso – l’ultimo in ordine di tempo è stato Carlo Calenda in un video ieri – come risoluzione ai mali della città, primo fra tutti la cosiddetta o la cosiddetta malamovida; due termini ormai sempre più fumosi. Ma che cos’è il daspo urbano? Come funziona?

Il cosiddetto daspo urbano è un ordine di allontanamento o un divieto di accesso che viene accertato e eseguito dalle forze dell’ordine e dal questore – attenzione: senza un vaglio da parte della magistratura. Il daspo è una misura giuridica polimorfa: nata per contrastare i fenomeni di violenza nell’ambito delle manifestazioni sportive, il cosiddetto daspo sportivo per i tifosi violenti, diventa uno strumento di controllo e repressione della vita sociale della città per quei comportamenti che vengono considerati “pericolosi”, “immorali”, “incivili”, pur non configurando alcuna tipologia di reato. Il daspo urbano è quindi la scorciatoia da utilizzare per dare delle risposte simboliche a problematiche molto più complesse: una specie di banno medievale o confino fascista da evocare e utilizzare arbitrariamente.

Concentriamoci ora sul paradossale regolamento di polizia urbana del comune di Roma. Come scrive Federica Borlizzi, che ha svolto una tesi di laurea proprio sul tema del daspo urbano, l’ordine di allontanamento è previsto in ben dodici articoli del nuovo regolamento e è utilizzato per sanzionare una pluralità̀ di condotte ritenute “impedimento alla fruizione” di aree degne di particolare tutela. Peccato che tale automatismo appaia del tutto irragionevole. Verrebbe, infatti, da chiedersi come sia possibile che il sedersi (art.4, lettera a) o il trascinare un passeggino (art.19, lettera d) sulle scalinate di un monumento; il lasciare un cane libero in un parco o il calpestare le aiuole (art.24 lettere c-e), possano configurare “impedimento” all’accessibilità̀ o alla fruizione di particolari aree urbane. L’assemblea capitolina in un vero e proprio furore punitivo ha deciso di sanzionare una serie di condotte che vanno ben oltre quelle previste dalla stessa normativa nazionale per giustificare l’applicazione dell’ordine di allontanamento.

Ma la vera domanda politica è: chi è più colpito da queste misure? I dati sull’applicazione dell’ordine di allontanamento e del divieto di accesso non sono stati mai resi pubblici né a livello nazionale né a livello locale. Stando ad un accesso civico generalizzato effettuato sempre da Federica Borlizzi, tra il 20 febbraio 2017 ed il 30 settembre 2020, sono stati emessi 21.679 ordini di allontanamento e divieti di accesso, indirizzati a circa 10mila persone, con un’evidente presenza di pluridaspati. Roma ha il triste primato sul numero di provvedimenti con quasi 6mila daspo. I più "daspati" sono essenzialmente i poveri: mendicanti, senza fissa dimora, migrati senza diritti. Inoltre, proprio Roma ha il numero più elevato di "pluridaspati", con varie persone che hanno ricevuto un cumulo di ordini di allontanamento dalla stazione Termini o Tiburtina. Emblematico è il paradossale caso di un signore del Bangladesh destinatario di ben 187 mini-daspo che rischia di essere debitore al comune di Roma di una cifra pari a 55mila euro.

È plateale come il daspo urbano, lungi dall’essere utile al miglioramento del vivere sociale, sia uno strumento inutilmente vessatorio che si rivolge a condotte che manifestano, nella maggior parte dei casi, un mero disagio sociale. Si potrà, infatti, continuare all’infinito, “in nome del decoro” a sanzionare con un ordine di allontanamento un senzatetto; ma questo continuerà a ripararsi su un pavimento di una stazione, non avendo altre alternative.

Di più, lo strumento del daspo urbano è anche apertamente criminogeno. L’ordine di allontanamento di 48h è disposto dalle forze dell’ordine per meri illeciti amministrativi (es. commercio o parcheggio abusivo, atti contrari alla pubblica decenza) che sono del tutto privi di offensività. Tuttavia se il "daspato" viola l’ordine di allontanamento, allora il questore potrà disporre il divieto di accesso dal luogo in cui è stato commesso il fatto e l’inosservanza di quest’ultimo può comportare l’arresto fino a un anno. Dall’inoffensivo illecito amministrativo al reato: una spirale di criminalizzazione che tocca i marginali che vivono le città, non solo abbandonati a loro stessi ma anche puniti per la loro condizione di povertà.

"Se i daspo vanno in larga parte ai senzatetto o in sostanza a sanzionare la marginalità sociale significa che stiamo criminalizzando la povertà, esattamente l'opposto di quel che vorrebbe la Costituzione, che dovrebbe spingere le istituzioni a farsi carico delle persone fragili, includerle, assisterle. – ragiona la docente di Diritto Costituzionale Roberta Calvano – Anziché promuovere e garantire i diritti della persona, qualunque sia la sua condizione, abbiamo una normativa che spinge verso una emarginazione ancora più spinta chi già è in difficoltà"

Non è difficile comprendere come l’obiettivo e l’esito di questo tipo di norme sia sorvegliare e punire, e dividere la cittadinanza tra cittadini perbene e cittadini permale; già Tamar Pitch in Contro il decoro o Wolf Bukowski nella Buona educazione degli oppressi spiegavano chiaramente come avviene questo scivolamento dell’amministrazione delle città in una politica di segregrazione e classismo per chi non si conforma a uno standard di cittadino modello: residente, consumatore, benestante, escludente, in vari casi anche un po’ razzista.

Guardando i dati, si capisce facilmente che il daspo urbano può essere utilizzata come una misura repressiva, come misura classista diretta ai senzatetto, agli emarginati, ma anche misura indirettamente rivolta a chi chiede una città a misura del proprio tenore di vita. Le persone povere devono essere allontanate dall’occhio del turista o del cittadino infastidito dalla povertà di chi vive per strada.

sSarah Gainsforth su Dinamopress ha analizzato questa battaglia a favore del decoro e dei daspo urbani proprio come una battaglia ideologica di classe e di destra:

La sinistra non si è scordata la tutela del decoro. Non ne ha proprio mai parlato, perché in urbanistica questo concetto semplicemente non esiste. Esiste, invece, il tema della qualità urbana. La qualità urbana comprende gli elementi fisici della città, quelli sociali – come i servizi pubblici – e quelli piscologici, che hanno a che fare anche con la percezione della sicurezza, e che evidentemente dipende da come si gestiscono gli elementi fisici e sociali della città. Il decoro, invece, è un parametro puramente estetico per parlare dello spazio urbano. […] Il 40% dei romani dichiara meno di 15mila euro l’anno, […] circa 30mila persone percepiscono il reddito di cittadinanza, 50mila hanno chiesto il contributo straordinario per l’affitto, 10mila abitano in occupazioni abitative perché non sanno dove altro andare, 8mila dormono in strada, 12mila sono in attesa di una casa popolare. […] Siccome Roma non riesce a dare una risposta a queste persone, le caccia lontano dalla vista e dalla coscienza con gli strumenti del decoro urbano.

Le obiezioni che vengono fatte a queste considerazioni sono le solite. Allora volete una città ridotta a un immondezzaio? Allora tollerate chi sporca, chi mette a rischio la vivibilità dei luoghi di notte, chi si ubriaca e molesta le persone? Chiaramente queste obiezioni sono sciocche. Esistono già delle norme che puniscono giustamente le condotte illecite, dalla violenza contro le persone alla mancata tutela di beni culturali e storici. Quello che manca totalmente è invece sono le possibilità per chi non ha soldi di vivere la città: di poter sostare su una panchina, incontrarsi e divertire, di usare i parchi pubblici, i luoghi della notte e i monumenti storici senza sentirsi esclusi, reietti, e addirittura rischiare di essere puniti.

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