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“Quanti Federico Perna nelle carceri italiane?”

“Non impariamo mai da queste morti”. A parlare è Dario Stefano Dell’Aquila, da sempre impegnato sul fronte delle condizioni detentive ed esperto di politiche penitenziarie. In dieci anni, sono morte più di duemila persone in cella per malattia o suicidi.
A cura di Gaia Bozza
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Quanti Federico Perna nelle carceri italiane? “Ma noi da queste morti non impariamo”. A parlare è Dario Stefano Dell'Aquila, esperto di politiche penitenziarie. Un giudizio maturato sull'esperienza, sui tanti morti di carcere che ha visto in Campania e non solo. “Forse in questo caso si arriverà a un processo penale – spiega – ma se può servire a qualcosa, dovrebbe insegnarci un modello detentivo diverso. Al prossimo caso Perna, noi cosa facciamo? Questa dovrebbe essere una risposta seria”.

Il carcere di Poggioreale è tra i più affollati d'Europa, e Perna era stato trasferito proprio lì, dopo vari rimpalli tra prigioni. Undici detenuti in una sola cella: a pensarci, manca il fiato. E le famiglie di detenuti, insieme agli attivisti dei centri sociali, si sono riunite con la madre di Perna, Nobila Scafuro, per un presidio sotto il penitenziario, in solidarietà con lei e per protestare ancora una volta contro la detenzione che vìola i diritti umani.  Il giovane di Pomezia, ammalato di cirrosi epatica da epatite e tossicodipendente, aveva anche un problema psichico. “Il carcere amplifica qualunque tipo di disagio – commenta Dell'Aquila – E ha un effetto deflagrante sulle persone con problema psichico. Il carcere italiano è tutto completamente inadeguato a organizzare i propri servizi e il proprio personale sulla base di queste esigenze”. Lo Stato italiano, giova ricordarlo, è stato condannato dalla Corte europea dei diritti umani per violazione dell'articolo 3 della Convenzione, che vieta la tortura e il trattamento disumano o degradante. L'8 gennaio del 2013 ha dato al nostro Paese un anno di tempo per porre rimedio. Ad oggi, però, l'Italia è incapace di garantire i diritti umani nelle proprie carceri. “Maltrattamenti, morti, non riguardano solo persone tossicodipendenti – spiega Dell'Aquila – ma anche persone con un profilo caratteriale molto difficile da gestire”. Cosa accade al detenuto con un disagio psichico? “Il carcere risponde spesso con l'isolamento, una pratica devastante persino per le persone forti. Che aggrava ancora di più le condizioni di chi ha un problema mentale”. Non è tutto: “ Attraversando il carcere, la condizione del detenuto peggiora. Viene spostato da un penitenziario a un altro e diventa impossibile che esca dal disagio instaurando un rapporto terapeutico duraturo con qualcuno”. Federico Perna rifiutava le cure, è stato detto dal sottosegretario Berretta, che ha risposto all'interrogazione parlamentare presentata dal deputato M5S Salvatore Micillo. Se così fosse stato – l'inchiesta lo appurerà – non sarebbe casuale. Anzi, spiega Dell'Aquila, è un comportamento molto comune. “Quando un detenuto rifiuta le cure non lo fa per caso: è la forma estrema di protesta, quella di mettere in gioco il proprio corpo. L'autolesionismo è una delle forme più diffuse: io mi taglio perché la sofferenza mi è insopportabile, così come il rifiuto del cibo. Non è affatto un caso”. A questi problemi il carcere dovrebbe rispondere con un lavoro d'équipe e prendendo in carico il detenuto, fa notare lo studioso. Ma è un'utopia. Un esempio per tutti: “Nel carcere di Poggioreale c'è un educatore ogni 200 detenuti, più o meno”.

C'è poi il nodo incompatibilità: le misure alternative spesso non vengono concesse a detenuti problematici, anche se ammalati di patologie invalidanti. Per questo, “la risposta data all'interrogazione parlamentare è offensiva – sottolinea Dell'Aquila – Io non so se c'è una colpa in senso giudiziario, non spetta a me appurarlo. Ma una responsabilità pubblica e politica certamente c'è. Una persona che ha un disagio psichico e rifiuta le cure non si è lasciata morire. L'hai lasciata morire”.

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