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Prigionieri del deserto: una donna eritrea assassinata dalla Polizia di frontiera

Vengono dal Corno d’Africa, sono in fuga dai proprio paesi dove è emergenza umanitaria: rapiti dai predoni del deserto sul confine tra Egitto e Israele o scomparsi nelle carceri egiziane, condannati dal silenzio della comunità internazionale.
A cura di Nadia Vitali
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Vengono dal Corno d'Africa, sono in fuga dai proprio paesi dove è emergenza umanitaria: rapiti dai predoni del deserto sul confine tra Egitto e Israele e condannati dal silenzio della comunità internazionale.

Un crimine che va avanti da mesi, coperto dal silenzio della comunità internazionale. I profughi del Corno d'Africa sono ultimi tra gli ultimi; quando un giorno si deciderà finalmente di puntare i riflettori sulla barbarie che si sta consumando nel deserto del Sinai, gli episodi di sequestri e di brutali omicidi, saranno diventati ormai non più quantificabili, come accade quasi sempre in questi casi. Per adesso, di loro, si è scelto di non parlare, forse per coprire le proprie personali colpe.

Quando il Trattato di Amicizia tra l'Italia e la Libia siglato nel non troppo lontano 2008, recentemente sottoposto ad una scrupolosa damnatio memoriae che, qualcuno spera, riguardi anche le armi che gli stati occidentali hanno fornito all'ex rais, chiuse temporaneamente il canale del Mediterraneo ai flussi migratori, nuove rotte verso la terra di Israele sono state inaugurate dai profughi provenienti da Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan, attraverso il Sinai.

I profughi del Sinai sono uomini e donne disperati, in fuga dall'inferno dei propri paesi; centinaia di individui dei quali, in quel deserto, si sono perse le tracce, perché finiti nelle mani dei predoni nei pressi di Rafah, la città valico del confine tra Egitto e striscia di Gaza. L'agenzia Habeshia mantiene sporadici contatti telefonici con questi sequestrati che raccontano delle inimmaginabili torture costretti quotidianamente a subire in attesa che qualcuno paghi un alto riscatto per loro: qualcuno che non esiste, se si pensa che per intraprendere la fuga verso la libertà, si pagano sempre diverse migliaia di dollari. A quelli a cui il fato non ascrive questa sorte, toccano molto spesso le carceri egiziane «dove i profughi possono essere detenuti fino a due anni, prima di essere deportati nuovamente in patria».

Alam Haji era una vedova di 36 anni che cercava una futuro per sé e per i propri bambini ed è finita con il corpo crivellato dai proiettili della polizia di frontiera egiziana; la notizia è riportata da Everyone Group, organizzazione internazionale che opera per la tutela dei diritti umani e civili, i cui osservatori avrebbero assistito agli ultimi attimi dell'agonia della donna. Il gruppo è dunque tornato a parlare di questo dramma silenzioso in cui tutti i governi «che attuano politiche di rifiuto verso coloro che fuggono da guerra, persecuzioni e calamità» sono più o meno direttamente complici.

Nell'ennesimo appello ad una comunità internazionale sorda, EveryOne non ha potuto omettere il dato più significativamente atroce: «Corpi senza documenti vengono ritrovati nel deserto, spesso privi dei reni» hanno spiegato. Al traffico di organi fanno molto comodo queste vittime «senza nome e senza volto», alle quali nessuno, tra quanti avrebbero tutto il potere per porre un freno a questa emergenza, ha intenzione di dare voce.

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