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Rinnovo contratti, Cgil: “Il Paese si impoverisce se le imprese continuano a bloccare gli stipendi”

La segretaria confederale della Cgil, Francesca Re David, in un’intervista a Fanpage.it parla dei contratti collettivi nazionali scaduti. Milioni di persone hanno lo stipendio bloccato, mentre l’inflazione abbassa il loro potere d’acquisto. Una delle proposte per migliorare la situazione è introdurre il salario minimo.
A cura di Luca Pons
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 Francesca Re David, segretaria confederale di Cgil, è la persona che per il sindacato si occupa tra le altre cose della contrattazione del privato, quindi dei contratti collettivi nazionali soprattutto nei settori dell’industria e del terziario. A Fanpage.it, spiega la situazione dei contratti collettivi scaduti in Italia, che bloccano – in alcuni casi da anni – i salari di quasi sette milioni di lavoratori dipendenti.

Chiariamo subito: cosa significa fare parte di un contratto collettivo che non viene rinnovato?

Banalmente, significa non avere più aumenti di stipendio, per tutti i lavoratori coinvolti. Poi ci possono essere degli accordi a livello di singola azienda, ma questi spesso avvengono nelle imprese più forti, non in quelle dove c’è più bisogno di intervenire a livello salariale. Il tema dei salari fermi diventa ancora più forte ora che l’inflazione ha raggiunto i livelli che sappiamo. Il potere d’acquisto crolla, servono nuove trattative.

In generale, qual è la situazione dei contratti collettivi in Italia? Quanti sono, quante persone coprono?

Si continua a dire che ci sono più di 900 contratti nazionali, ed è vero, sono quasi raddoppiati dal 2012. Ma 208 di questi contratti, firmati da Cgil-Cisl-Uil, coprono il 97% dei lavoratori. Sono 12,5 milioni di persone, su 12,8 milioni in totale. Bisogna tenerlo a mente, altrimenti si fa confusione sui numeri.

E di questi 208 contratti più rappresentativi, quanti sono scaduti?

Quelli in attesa di rinnovo sono 91. Tra questi ci sono situazioni molto diverse. Circa uno su cinque è scaduto tra il 2004 e il 2018: dopo tutti questi anni, bisogna verificare se ha un senso che tali contratti esistano. In molti casi io credo che siano troppo piccoli, limitati a piccoli settori, poche aziende, singoli territori. I contratti poco rappresentativi hanno più difficoltà a essere rinnovati.

Quali sono i settori più colpiti?

L’industria ha rinnovato quasi tutti i contratti. Una delle poche eccezioni è nel mondo dello spettacolo, perché ci sono 29 contratti diversi nel settore e spesso non hanno grande consistenza. Di nuovo, il problema è la frammentazione. La difficoltà maggiore invece è nel terziario e nella parte privata del pubblico (sanità, scuola…).

Non sono solo i piccoli contratti a essere scaduti, però.

No, certo. Nel terziario il grande contratto che non è rinnovato è quello del commercio, scaduto nel 2019, che riguarda più di due milioni di lavoratori. È il contratto collettivo più grande. A dicembre c’è stato un accordo-ponte per avvicinarsi al rinnovo, e intanto si sono previsti aumenti salariali una tantum, perché è uno scandalo che non sia ancora rinnovato. E per il settore terziario questo non è l’unico problema.

Cioè?

Nel settore è diffusissimo il part time involontario, contratti di poche ore a settimana non per volontà del lavoratore, ma perché si assume solo così. Da una parte i contratti non rinnovati, dall’altra il part time involontario: così il lavoro nel terziario diventa lavoro povero. Cosa che non è unica di quell’ambito, ma per quei settori è paradossale. Il commercio, ma anche il turismo (che ha un contratto fermo al 2016), sono stati bloccati in parte durante la pandemia, ma poi hanno avuto sostegni dallo Stato e una forte ripresa che ha portato a grandi redditi. Fermare i contratti, non ridistribuire quel reddito, è molto negativo.

Quando un contratto collettivo scade, cos’è che impedisce il suo rinnovo? Che cosa blocca, magari per anni, un contratto che coinvolge milioni di persone?

Un contratto non si rinnova perché per farlo serve un accordo, semplicemente. Né le aziende, né i sindacati hanno l’obbligo di firmare un contratto nuovo. Le imprese, soprattutto in alcuni settori, fanno una resistenza molto forte a riconoscere ai lavoratori il dovuto. Sono anche settori in cui la capacità di mobilitarsi è poca, anche perché il lavoro è frammentato e precario. Nell’industria, per esempio, se non si rinnova un contratto fare uno sciopero è parte integrante della trattativa. Nel terziario, invece, questo è più complicato.

Come si dovrebbero cambiare le cose per risolvere la situazione?

Secondo noi serve una legge sulla rappresentanza, che riconosca i contratti più rappresentativi e limiti la frammentazione. Questo eviterebbe anche i contratti-pirata.

Cosa sono i contratti pirata?

Contratti sottoscritti solitamente da sindacati e associazioni d’imprese poco rappresentative, che creano ‘un’alternativa’ ai contratti collettivi più importanti, ma hanno condizioni peggiori. Un esempio è quello delle guardie giurate: guadagnano pochissimo, hanno un contratto scaduto da un sacco di tempo, ma ogni volta che provi a rinnovarlo per fargli raggiungere un livello di decenza, una parte di imprese esce e fa un altro contratto.

Credete che fissare un salario minimo possa servire?

Sì, noi chiediamo il salario minimo che faccia da riferimento anche per i contratti collettivi: se sotto una certa soglia nessuno può andare, neanche il contratto delle guardie giurate può andare al di sotto. In più bisognerà abbassare ancora il costo del lavoro che pesa sui lavoratori, perché le imprese non ne hanno bisogno: il taglio del cuneo fiscale deve arrivare a 5 punti a favore dei lavoratori. E le imprese dovranno fare la loro parte, redistribuire i profitti che hanno.

Negli ultimi giorni Cgil ha parlato di reintrodurre il ‘fiscal drag’. Cos’è e come funziona?

È un meccanismo che è rimasto in vigore in Italia fino agli anni Novanta. Se il tuo stipendio aumentava per rispondere all’aumento del caro vita, non rientravi nell’aliquota superiore per le imposte. L’Irpef è a scaglioni, no? Ecco, se tu con gli aumenti contrattuali passi da uno scaglione a quello sopra, perdi tutto l’aumento contrattuale perché lo devi pagare in tasse. Quindi aumentano le tasse che paghi, ci guadagna lo Stato ma non il lavoratore. Il fiscal drag, che farebbe aumentare le detrazioni fiscali per i dipendenti man mano che aumenta l’inflazione, servirebbe per evitare che questo succeda.

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