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Perché in Italia non si riuscirà mai a parlare sul serio di congedo mestruale

Il via libera della Spagna al congedo mestruale potrebbe rinvigorire una proposta di legge arenata in Senato dal 2016, per cui alle donne che soffrono di di mestruazioni dolorose (tra il 60 e il 90% delle italiane) sarebbe riconosciuto un permesso di tre giorni al mese. Ma diciamocelo, essere ottimiste in questo Paese è complicato.
A cura di Annalisa Girardi
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La Spagna è il primo Paese europeo ad approvare il congedo mestruale. Alle donne che soffrono di mestruazioni dolorose e invalidanti verrà concesso un permesso dal lavoro, retribuito al 100%, di almeno tre giorni al mese. Un passo avanti che in Italia rimane ancora un'utopia, nonostante nel 2016 fosse stata presentata una proposta di legge anche qui da noi. Come spesso accade quando si tratta di battaglie di civiltà e diritti delle donne in questo Paese, però, il disegno di legge è presto finito nel dimenticatoio.

Proprio in questa proposta, firmata dalle deputate Romina Mura, Daniela Sbrollini, Maria Iacono e Simonetta Rubinato, si sottolinea come in Italia siano circa tra il 60 e il 90% delle donne a soffrire di dismenorrea, termine medico che indica i dolori mestruali, tra crampi al basso ventre, nausea e vertigini. Insomma, una condizione che rende difficile presentarsi al lavoro. Se venisse approvata, alle donne sarebbe permesso assentarsi da lavoro fino a tre giorni al mese, senza dover chiedere giorni di ferie o malattia, e continuando a percepire il 100% dello stipendio. Basterà presentare un certificato medico. Nel testo infatti si legge:

La donna che soffre di mestruazioni dolorose, che dovranno comunque essere certificate da un medico specialista, ha diritto a un congedo per un massimo di tre giorni al mese. Per tale diritto è dovuta un’indennità pari al 100 per cento della retribuzione giornaliera e i giorni di congedo non possono essere equiparati ad altre cause di assenza dal lavoro, a partire dalla malattia: nessuna assimilazione tra i due istituti sia dal punto di vista retributivo che contributivo. Il diritto di cui alla presente proposta di legge si applica alle lavoratrici con contratti di lavoro subordinato o parasubordinato, a tempo pieno o parziale, a tempo indeterminato, determinato ovvero a progetto.

Come abbiamo detto, però, di questa proposta non si è più fatto nulla e da circa sei anni è rimasta arenata in Senato. Il passaggio avvenuto in Spagna potrebbe dare nuova forza a questa battaglia per rendere il mondo del lavoro meno ostile alle donne anche da questo punto di vista. Ma è difficile essere ottimiste.

In primis perché proposte di questo tipo storicamente hanno sempre trovato di fronte a sé mille barriere: nonostante si stia parlando di una condizione che riguarda milioni di donne, infatti, la classe politica dirigente chiamata a prendere le decisioni è composta per la stragrande maggioranza da uomini, che non si sono mai dovuti recare al lavoro con i sintomi della dismenorrea. Inoltre anche alcune associazioni femministe esprimono una preoccupazione reale, cioè che il congedo mestruale non finisca invece per discriminare ulteriormente le donne sul lavoro. Cioè: se oltre ai mesi di assenza durante la maternità le aziende si trovassero ad avere delle dipendenti che (potenzialmente) potrebbero non recarsi al lavoro per circa tre giorni al mese, questo potrebbe finire per sfavorire ulteriormente le donne nel momento in cui c'è da fare un'assunzione o dare una promozione.

È un rischio che, però, non deve essere accettato a priori e deve anzi spingerci a una riflessione più ampia sul mercato del lavoro. Un mercato che troppo spesso mette la produttività delle imprese davanti alle persone che le compongono, che alimenta sempre più una retorica per cui un individuo dovrebbe dedicare 24 ore su 24 della giornata e 7 giorni su 7 della settimana al proprio lavoro. Insomma, in un mondo in cui le persone diventano il lavoro che fanno, non andare in ufficio o in fabbrica (anche se si hanno tutte le ragioni per assentarsi) è qualcosa di malvisto. Se accettiamo l'idea che una persona debba dare tutta sé stessa al proprio lavoro, anche avere le mestruazioni può diventare un problema. E una narrativa (letteralmente disumana) di questo tipo finisce per penalizzare maggiormente le donne, che molto più dei colleghi maschi sono costrette a dividersi tra casa, famiglia e lavoro. Oppure che, per ragioni fisiologiche, in alcuni giorni al mese non sono nelle condizioni di lavorare come farebbero normalmente.

Come se non bastasse, c'è anche un altro fattore da prendere in considerazione. Cioè che spesso quella che è dismenorrea nemmeno a livello medico viene riconosciuta come tale. Troppo spesso il dolore delle donne non viene preso seriamente, non viene ascoltato o chiamato con il suo nome. Quante donne hanno ascoltato la loro sofferenza venire chiamata "capriccio", "debolezza", "piagnisteo"?

Tutto questo, però, non deve far desistere. Ma, anche in questo caso, dobbiamo essere consapevoli che oltre a una proposta di legge, ciò che serve in questo Paese è una rivoluzione culturale per arrivare a una piena parità di genere. Che vuole anche dire saper tenere conto della specificità femminile.

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A Fanpage.it sono vice capoarea della sezione Politica. Mi appassiona scrivere di battaglie di genere e lotta alle diseguaglianze. Dalla redazione romana, provo a raccontare la quotidianità politica di sempre con parole nuove.
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