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Elezioni politiche 2022

Nel segno di Mario Draghi: così il fantasma del “migliore” ha deciso le elezioni politiche

Mario Draghi è il convitato di pietra di questa campagna elettorale: un ruolo centrale, in un senso o nell’altro, che lui ha sempre respinto. È però innegabile che sull’operato dell’inquilino di Palazzo Chigi si gioca una partita forse decisiva. E i sondaggi politici lo confermano.
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In quella che sarà una delle ultime conferenze stampa della sua gestione, Mario Draghi è stato estremamente chiaro sul suo futuro. Rispondendo a una domanda diretta sulla sua disponibilità a un nuovo incarico come Presidente del Consiglio, Draghi ha detto semplicemente: “No”. Una posizione che ribadisce ulteriormente la sua volontà di non entrare in modo diretto in questa campagna elettorale, non lasciando alcuna ambiguità rispetto a scenari alternativi, compreso quelli che potrebbero determinarsi in caso di assenza di maggioranza chiara dopo le elezioni del 25 settembre. Poche settimane prima, si era incaricato di negare espressamente l'esistenza di un'Agenda Draghi, sia come piano che come metodo di governo del Paese.

È innegabile, però, che Draghi sia stato centrale in questa campagna elettorale, influenzando scelte strategiche e posizionamenti politici, registri comunicativi e toni del confronto fra i leader. Un convitato di pietra che detta l’agenda politica è anomalia persino per un Paese come il nostro. Al punto che anche autorevoli analisti hanno ipotizzato che il Presidente del Consiglio in carica abbia svolto un lungo lavoro dietro le quinte, addirittura per preparare una “successione ordinata”. Detto in altre parole, si starebbe adoperando presso i nostri partner atlantici ed europei per dare ampie garanzie sull’Italia, anche nel caso in cui vincesse Giorgia Meloni. Circostanza nuovamente smentita, così come ogni retroscena sulle "telefonate quotidiane" con la leader di Fratelli d'Italia.

Il punto è che neanche un silenzio totale (che per ovvie ragioni non ha potuto mantenere) e sistematiche smentite avrebbero tenuto Draghi fuori dalla campagna elettorale. Non solo perché un’intera coalizione lo considera candidato in pectore per un bis a Chigi o perché il segretario del primo partito di centrosinistra del Paese lo venera al punto da determinare contraddizioni e problemi all’interno della sua stessa alleanza. Contano relativamente i sondaggi politici e la fiducia di cui comunque gode presso una buona fetta di cittadini.

La vera ragione risiede nella peculiarità dell’esperienza Draghi alla guida del Paese. Il suo governo è prima di tutto la resa dei partiti di fronte alla gestione delle emergenze. In uno scenario complesso, tra Covid, crisi economica e successivamente geopolitica ed energetica, i partiti si sono scoperti deboli, incapaci di guidare il Paese o di esprimere leadership autorevoli. Si sono arresi alla logica dell’emergenza e hanno ceduto le loro prerogative a un supposto gruppo di “competenti” guidato dal “migliore”, limitandosi a spartirsi briciole e poltrone, sperando di guadagnare tempo per costruire non si sa bene cosa. Nessuno ha inciso, nemmeno nel mettere la parola fine: Draghi avrebbe tranquillamente potuto restare, se solo si fosse piegato alle richieste dei partiti. Appunto.

In questa parentesi sono emerse con forza la debolezza delle piattaforme programmatico-ideologiche e le lacune delle classi dirigenti dei partiti italiani. Un sistema politico che ha accettato di farsi commissariare in nome della stabilità e dell’efficienza, ammettendo sostanzialmente di difettare di qualità essenziali per guidare il Paese. Centinaia di parlamentari hanno preferito qualche altro mese di deresponsabilizzazione e tranquillità, limitandosi a ratificare decisioni prese altrove. Leader di partito hanno scelto strade ambigue, praticando un'inutile e ipocrita "narcisismo delle piccole differenze". E restandone prigionieri, vero Salvini?

Una situazione percepita con chiarezza dall’opinione pubblica, nonostante i risultati ottenuti proprio dal governo e dalle indubbie qualità del presidente del Consiglio. Non è un caso che a beneficiarne in termini di consenso elettorale sia stato un partito che è stato fin dall’inizio estraneo all’intero schema, l’unico che abbia scelto coerentemente di non firmare mai deleghe in bianco all’ex numero uno della Bce.

Perché è chiaro che non può esserci competizione nel dualismo che si è venuto a determinare, ovvero fra una leader forte come Giorgia Meloni e "la suggestione Draghi" (con Conte relegato ad alternativa radicale).

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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